Ut Xùòkvo- cte-L 77\e-ò e Il figlio editore di Bruno Pischedda MAGGIO 1996 Alberto Mondadori, Lettere di una vita (1922-1975), a cura di Gian Carlo Ferretti, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Mondadori, Milano 1996, pp. CLXIX-1058, Lit 95.000. Voluto fortemente dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori come volume di esordio per una collana di studi sull'editoria, quest'epistolario si presenta a tutta vista ponderoso, monumentale. Ma tra le 892 lettere di cui si compone, selezionate con perizia all'interno di un corpus di quasi quattro volte superiore, una spicca senz'altro per intensità drammatica. In calce, la data è 28 novembre 1966. Alberto ha cinquantadue anni. Reduce da un estremo tentativo di disintossicarsi dall'alcol, per la prima volta si rivolge al padre, Arnoldo, in quanto diretto responsabile del proprio malessere. Le capacità di resistenza alle sue pressioni morali, professionali, sentimentali — scrive — sono ormai esaurite: "Debbo assolutamente contare sul massimo di libertà psicologica e di autonomia psichica"; "debbo poter decidere da me, aver libertà di azione, nei tuoi confronti e dell'azienda". Siamo nei mesi in cui si prepara la successione alla Mondadori: quando, scavalcato dal fratello minore Giorgio, Alberto sta per distaccarsi dall'azienda paterna dedicandosi interamente al Saggiatore . Ma non è che l'apice di un conflitto originario. E nella sua prefazione, Ferretti insiste opportunamente sull'aspetto vischioso, irresoluto, del legame padre-figlio. L'intera vicenda esistenziale di Alberto appare costretta tra soggezione ammirata nei confronti della figura paterna, e ricorrente, sofferta, volontà di emanciparsene. Da un lato abbiamo una impossibile emulazione, dall'altro, ecco il protagonismo entusiasta, che lo porta, ancora diciottenne, a fondare una rivista di fronda come "Camminare..." (1932-35); e più ancora a tentare la via del cinema. "Questa che sto facendo, papà, è un'esperienza di vita che mette alla prova della realtà il mio carattere e il mio temperamento": così scrive da Tirrenia, nel 1936. Il fallimento che attende Alberto come regista è il primo scacco nel cammino per un'edificazione individuale. Gli anni che seguono comportano un accelerato assorbimento nell'azienda paterna. Dal 1939 al '43 lo troviamo alla direzione di "Tempo": della pubblicazione, cioè, più gravemente compromessa con il regime mussoliniano (finanziamenti del Minculpop, apologia della guerra rivoluzionaria, contatti personali con Goebbels). Poi è l'8 settembre, la guerra perduta, l'Italia devastata. Da Lugano, dove è riparato con la famiglia, Alberto tenta di andare al fondo della propria identità etico-politica. Si sente "ossessionato dalla colpevolezza morale", e la crisi di ripensamento sembra sincera. Prova ne sia il così chiamato "piano svizzero", ossia il progetto di una rinascita mondadoriana sotto altri auspici e direttrici (antifascismo, riqualificazione culturale, apertura cosmopolita). Per un momento, si sente forte nei confronti del padre, a cui rinfaccia una strategia editoriale ideologicamente supina. Ma anche in tale frangente Arnoldo si mostra irremovibile: non disposto a riconoscere le responsabilità culturali che la Mondadori si è assunta lungo il Ventennio. È un atteggiamento sgradevole, cinicamente liquidatorio, che offusca senz'altro la sua immagine di editore geniale e modernizzante. E del resto, in quei mesi difficili, non troppo diverso si sarebbe prospettato il comportamento di un Garzanti, che pure si era appropriato della Treves con il beneplacito fascista; o di un Bompiani, che nel decennio '33 -'43 aveva portato a diciannove le riedizioni del Mein Kampf. Quel che è certo, è che di fronte al tenace continuismo paterno l'entusiasmo di Alberto si spegne in un breve giro di anni. Nel '48, il rientro nei ranghi si può dire compiuto. Occorrerà un decennio per ritrovare quelle energie progettuali che lo porteranno alla creazione del Saggiatore. Anche all'interno dell'azienda paterna, tuttavia, Alberto occupa un ruolo editoriale di primo piano. Se è difficile valutarne l'operato in termini di autonomia, nemmeno va ignorato che il suo nome si lega ad alcune tra le scelte più qualificanti della Mondadori. È lui, con Arturo Tofanelli, a dare vita nel 1940 alla collana "Lo Specchio"; a volere la "Biblioteca Storica" sotto la direzione di Adolfo Omodeo, nel 1946, e a guidare "Il pensiero critico" insieme a Cantoni, a partire dall'anno seguente; nonché a progettare i "Narratori italiani", nel 1952. Per quanto sorvegliata da Arnoldo, sua è insomma la spinta a un innalza- mento qualitativo della produzione mondadoriana, particolarmente nel dopoguerra. E senza estraniarsi da alcuni momenti cruciali, che segnano l'espandersi dell'azienda verso un mercato librario modernamente articolato. Si veda la sua presenza in iniziative come "Urania", sempre del '52 (insieme a Giorgio Monicelli); e la scelta, con Vittorio Sereni, dei primi cento titoli degli "Oscar", nel 1965. Ma è vero che solo con il Saggiatore Alberto viene interamente allo scoperto. Per il Saggiatore, si è spesso parlato di progetto neoilluminista, e con ragione. Da queste Lettere di una vita, alcuni tratti emergono con chiarezza: impegno enciclopedico; interventismo militante; sprovincializzazione e aggiornamento degli strumenti critici (antropologia, fisica quantistica, fenomenologia, esistenzialismo). Né va dimenticata l'esigenza esplicita di colmare la "frattura cultura e vita"; e ancor più la proposta di un rinnovamento profondo del retaggio umanista in chiave tec-nico-scientifìca. Nell'insieme, si ha il senso di un dibattito culturale già sviluppato a partire dal 1945. Ma si potrebbe aggiungere una tessera ulteriore, anch'essa da collocare subito a ridosso del conflitto mondiale: il Fronte della Cultura. Quell'organismo, cioè, che a Milano aveva impostato la lotta culturale in senso modernamente allargato. Un organismo che poi, alle soglie della guerra fredda, si era arenato sul doppio scoglio del dirigismo partitico del Pei e del protagonismo vittoriniano. Nel '47, quando Alberto pensa a una rivista come "Nuova Enciclopedia", e a una ramificazione territoriale degli Istituti per l'Enciclopedia, è a quell'esperienza che sta guardando. E Banfi, che di quel- l'ipotesi culturale era stato artefice di primo piano, gli è a fianco. Che poi il Saggiatore abbia avuto vita travagliata, tra crisi ricorrenti e desistenze inopinate del suo fondatore, ciò non ne limita la portata culturale. L'effetto di apertura e di svecchiamento lungo gli anni sessanta fu ingente: da Sartre a McLuhan, da Lévi-Strauss a Husserl, a un colpevolmente dimenticato Teilhard de Chardin, fino al dibattito sullo strutturalismo, nel 1965 (vero punto di crisi dello storicismo nostrano, e su cui si sarebbe potuto dire qualcosa di più). Nella Milano di oggi, disertata di veri centri di propulsione intellettuale, dire Saggiatore significa parlare di uomini del calibro di Debenedetti, Paci, Cantoni, e poi Giancarlo De Carlo, Cesare Garbo-li, Franco Brioschi. A pensarci, occorre arginare lo sconforto. Certo, al di là delle petizioni programmatiche, gli uomini del Saggiatore scontarono anche l'in- N. 5, PAG. 1 1 capacità di saldare quel nesso delicatissimo tra ricerca e divulgazione: tra cultura "alta" e processi di allargamento della lettura. Fu un illuminismo dimidiato, il loro, privo di strategie adeguate nei confronti di quei ceti in via di emancipazione culturale a cui pure guardavano con tanta fiducia. Divulgazione era d'altronde il termine con cui Alberto cercava di tradurre la massificazione letteraria incessantemente promossa dal padre. Ma senza concepirne gli strumenti di distribuzione, senza calibrarne finanziariamente la portata. Così, se una collana come "La Cultura" rispecchia il punto più avanzato cui seppe giungere intellettualmente l'Italia del boom economico, la scelta fallimentare di una saggistica a basso prezzo, "I Gabbiani", nonché l'abbandono avventato di una produzione narrativa, ne rappresentano anche l'impossibilità di una tenuta nel tempo. Non facile, insomma, è valutare la personalità di Alberto Mondadori. Con intento affettuoso, un giorno Tofanelli disse di lui che "in fondo era un intellettuale e un poeta". Sereni, dal canto suo, preferì commemorarne la statura di "animatore", di "operatore culturale". E in effetti, tra le centinaia di lettere di questa raccolta, a emergere con più forza è proprio la vastità e lo spessore dei contatti editoriali che Alberto seppe intrattenere: da Henry Miller a Faulkner, da Mann a Hemingway; e con parole di conforto per Saba come per la Ortese, consigli severi a Prisco e Arpino. Inevitabilmente, è un quadro di grandezze e di miserie che ne esce: testimonianza di un sistema letterario ancora gravato di censure, servilismo, bizze risibili. Se del 1961 è un telegramma a Sceiba per un paventato sequestro dell'ap-pena stampato Ulisse di Joyce; di tre anni appresso è una breve e umiliante missiva a Fanfani: "Resistendo alla tentazione di leggere il testo—scrive Alberto —, l'ho fatto mandare subito in composizione, preservandomi così il piacere comune ai lettori di conoscerlo nel volume stampato". E se goffa è la richiesta dell'ex comunista Silone di non uscire con il suo La volpe e le camelie nella collana dei "Narratori italiani", perché diretta da un comunista come Niccolò Gallo; nemmeno brilla l'immagine del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che, ricevuto un congruo anticipo per le sue memorie, non si peritò mai di rispondere alla Mondadori che ne chiedeva il rimborso, dato che il testo non fu scritto. In questo mare navigò Alberto Mondadori, tra tensioni progettuali e delusioni cocenti, impennate e dolorose sottomissioni. Aveva forse ragione Alberto Cavallari, quando, con occhio acuto, parlò di "una maturazione disperata e protratta". E possibile che il delfino di Arnoldo abbia realizzato meno di quanto era nelle sue potenzialità: che il suo dinamismo intermittente, la scarsa lungimiranza, la grandeur che talvolta ne ottundeva il senso di realtà, trovassero giustificazione in uno sforzo inesausto per diventare adulto e diverso da quanto il padre lo spingeva a essere. Di certo, qualcosa di decisivo si era giocato in quel lontano 1937, allorché a Tirrenia per diventare regista, ormai disilluso e sul punto di abbandonare la battaglia, scriveva al buon vecchio Alat (Alberto Lattuada): "Ora eccomi disoccupato, con poche e scarse prospettive, con minimi quattrini e solo ricco di me e dei miei sogni". Infeudati al Vaticano Pubblichiamo una lettera di Alberto Mondadori a Henry Miller tratta dal volume recensito in questa pagina. [Milano,] 2 Maggio 1947 Caro Miller, la vostra amichevole, gradita lettera del 5 Febbraio mi è giunta con enorme ritardo. Penso che anche questa mia vi giungerà chissà quando, perché, come apprendo, avete iniziato, felice voi, un piacevole viaggio. Mi sono giunti i volumi che mi avete cortesemente offerto in omaggio, con vostra dedica autografa: THE PLIGHT OF THE CREATIVE ARTISTINUSA SUNDAYAFTER THE WAR THE COSMOLOGICAL EYE È, per me, questo un grande dono e, soprattutto un pegno di vera e profonda amicizia. Quei libri saranno, nella mia biblioteca privata, fra ipiù cari, se non ipiù cari. Vi ringrazio delle esaurienti notizie circa il JOURNAL INTIME dìAnaìs Nin. Ho scritto alla signorina Nin io, non avendo ricevuto da lei finora alcuna lettera. u Appena ricevuto il contratto, passeremo alla esplicazione del programma, secondo le assicurazioni che più volte vi ho dato e che saranno, comunque, stabilite contrattualmente. MAX AND THE WHITE PHAGOCY-TE sarà pubblicato entro la fine dell'anno: seguiranno gli altri volumi, a distanza di un anno l'uno dall'altro. In quanto all'atteggiamento dei critici e del pubblico italiano io penso, e sono sicuro, che i vostri libri susciteranno un estremo interesse. È da prevedersi però una violentissima rea- zione da parte degli ambienti borghesi moraleggianti e, soprattutto, da parte degli ambienti cattolici. Eltalia è, in questo momento, in un periodo di estremo travaglio politico e quella libertà che sembrava dovesse essere finalmente un bene definitivamente acquisito, dopo una così dura guerra definita di liberazione, è ben lungi dall'essere una concreta realtà. La maggioranza politica al potere è una maggioranza clericale, infeudata al Vaticano, che cerca di spingere la vita nazionale su un piano confessionale. Vi è nota la tradizionale opposizione degli ambienti clericali ad ogni forma di libertà ; vi è facile quindi immaginare quale reazione verrebbe da esse scatenata contro alcune vostre opere, particolarmente significative, come TROPIC OF CANCER, TROPIC OF CAPRICORN, BLACK SPRING. Un'edizione comune sarebbe certamente boicottata o vietata. Ho perciò pensato che la Trilogia vada preferibilmente pubblicata, anziché in una edizione comune, in una edizione non limitata di esemplari, ma venduta per sottoscrizione, cioè direttamente ai privati. Essa sarà così certamente sottratta alla sicura reazione dell'ambiente governativo e del potere esecutivo, mentre avrà un successo ugualmente sicuro, sia dal punto di vista editoriale sia dal punto di vista critico nonché da quello commerciale. Io credo che voi concorderete pienamente con questa mia idea e ne sarete soddisfatto. u Resto in attesa di una vostra risposta che mi assicuri che i contratti non avranno ancora a tardare e frattanto vi porgo, caro Miller, le espressioni della mia più viva affettuosa cordialità.