GIUGNO 1996 N.ó, PAG. 10 Le rivelazioni di Hilbig di Eugenio Spedicato Wolfgang Hilbig, La presenza dei gatti, II Saggiatore, Milano 1996, ed. orig. 1994, trad. dal tedesco di Agnese Grie-go, pp. 100, Lit 16.000. Dopo quell'acherontico regno delle ombre che è il fortunato romanzo lch, in cui si narra del disfacimento dell'io di uno scrittore-spia, caduto nella rete della Stasi, questi quattro racconti di Wolfgang Hilbig (poeta, narratore, saggista, nato nel 1941 a Meuselwitz, vicino a Lipsia) pubblicati due anni fa in Germania e ora tradotti da Agnese Griego per i tipi del Saggiatore, danno l'effetto di una bella boccata d'aria. Sembrano quattro episodi a tesi di un unico divagante ma arioso monologo narrativo, radicato nella civiltà romantica, che segue come via espressiva privilegiata l'epifania dietro le quinte, il sublime dimesso, secondo coloriture, che sono ora perturbanti, ora tragicomiche, ora puramente liriche e drammatiche. La fonte comune è in quel territorio della mente (dell'"anima", dice Hilbig) programmaticamente antigeometrico, verso cui lo stesso Hilbig sembra indirizzarci, quando, in ima sorta di esergo romantico che precede il terzo racconto, ci parla di quei "momenti di sospensione", momenti di felicità, nei quali "all'improvviso crediamo di guardare nel profondo del nostro essere". Ogni volta che il nunc stans delle magiche sospensioni s'interrompe, un sipario cala sui microeventi di queste quattro illuminazioni narrative, un sipario fatto di gocce di pioggia o di fiocchi di neve o di nuvole di nebbia. Così, nel primo racconto, La presenza dei gatti, che dà il titolo al volume italiano, la rimembrante amarezza di un uomo suscita un'allegoria dai tratti perturbanti e grotteschi. Dopo la caduta del muro, un intellettuale torna con la memoria a un frammento della sua gioventù, per capire che cosa fossero quegli anni trascorsi insieme a un gruppetto di amici nella periferia di una squallida cittadina industriale della ex Ddr. La loro deliberata autoemarginazione era una forma di resistenza contro il regime? Il loro rifiuto di inserirsi in pianta stabile nei quadri lavorativi del sistema era davvero, come credeva l'ideologo del gruppo, nel frattempo divenuto uno scrittore importante, una temporanea forma di opposizione, in attesa di un contenuto più attivo, più concreto? Nell'uomo che pensa e ricorda s'insinua una certezza amara. No, quella non era resistenza, era solo indifferenza. Ed ecco il grigio cortile della signora Mùller e i relitti tenebrosi e rugginosi delle fabbriche inattive, situate al di là della strada, trasfigurarsi in un microcosmo degno di rappresentare la realtà funebre e disfatta dell'intera Ddr. Il cortile è un regno di morte, abitato da vite stentate e dolorose (Edmund) e dagli indifferenti, ovvero i gatti (gatti veri e gatti metaforici: i giovani intellettuali), i quali protraggono la loro sonnolenta esistenza illudendosi di resistere al sistema. Ma, il che è peggio, essi non si rendono conto di essersi corrotti interiormente. La lebbra dell'indifferenza li ha contagiati. Il vecchio operaio polac- co Edmund, coi polmoni strozzati dal carbone, muore solo come un cane nel suo appartamentino-cata-comba, ignorato tanto dal regime quanto dai "resistenti", i quali non colgono l'importanza di quella morte. L'ideologo ormai famoso abbandonerà poi la sua ex compagna, gravemente malata e priva di cure, come un inutile fardello. Di qui proviene dunque il richiamo interiore del ricordo: dal desiderio di capire e di rendere giustizia al dolore disperso "nel flusso crepuscolare di indifferenza", nell'aria satura "dell'odore di ombre invecchiate". La rivelazione del secondo racconto, Il lavoro ai forni, è di tutt'al-tro tenore. Qui è l'umorista Hilbig a farsi avanti. Ma il fattore della trasfigurazione che espande il senso della realtà è stato conservato, secondo un procedimento peraltro consueto nella tradizione umoristica. Il protagonista narrante è un fuochista, una figura familiare nel personale narrativo di Hilbig (vedi per esempio Der Heizer, apparso nel 1980); del resto lo stesso Hilbig, che è di origini operaie, tra i vari lavori svolti ha fatto anche il fuochista. Ma il fuochista C. è anche uno scrittore, sebbene i scuoi scritti "fastidiosi" vengano sistematicamente respinti dalle redazioni dei giornali. Un bel giorno gli riesce di trasformare un'operazione, comica- mente segreta, di annientamento di documenti riservati del partito, un'operazione di routine, in una terroristica burla ai danni del sistema, che lo sfrutta e gli impedisce di diventare uno scrittore a pieno titolo. Avendo ricevuto l'ordine di bruciare sacchi e sacchi di documenti nella caldaie, destinate però al carbone, e ben sapendo che queste non tollerano la carta, le riempie a un punto tale da intasarle del tutto e da provocare così quasi un'eruzione vulcanica. Fuligginosi frammenti di carta ricoprono come una neve escrementizia gli edifici dell'amministrazione, simbolo del regime, "un segno oscuro", una premonizione, vorrei intendere, della cenere della storia che avrebbe sepolto la Ddr per sempre. Con il terzo e il quarto racconto torniamo all'epifania nel senso più puro. Il primo ci attrae dentro una fiaba, breve come un respiro, dentro una "bella follia" di gusto sfacciatamente romantico, un dispetto alla civiltà del supermercato. Proprio nell'atrio di un supermercato, infatti, mentre frotte di felici compratori si avventano sulle scale mobili, un uomo si perde estaticamente dentro il paesaggio immaginario, nebbioso e uniforme come il nulla dev'essere, di uno specchio reso opaco dall'umidità. Lo specchio non è niente, beninteso, se non quel totem romantico in cui l'io, felicemente abbandonato a se stesso, "vede" l'altro da sé, mentre la folla, invasata dalla frenesia del consumo, può solo correre "dietro al divertimento, al lusso, alla sua finitu- dine in vendita". L'ultimo racconto, intitolato Nella Schillerstrajie, è un piccolo, splendido carme in memoria della natura ignorata e uccisa dalla stupidità degli uomini e dalla protervia pseudomodernistica del bellicismo industriale, che non è stato certo un'esclusiva della Ddr. Se nella Presenza dei gatti si trattava di salvare il dolore degli uomini nella memoria, qui è 0 dolore della natura che si vuole salvare. Una semplice strada, maternamente protetta da una fila di castagni, diventa un mondo magico, un sogno diurno, in cui la "pallida polpa" della nebbia e il fantastico intrico dei rami di quegli alberi possenti si accoppiano per generare una coltre di silenzio, immensa e impenetrabile, in cui ci si può abbandonare e annullare come in un grembo infinito. Ma un giorno gli alberi vengono abbattuti dalle solerti autorità, e senza nessun motivo valido, con stolto gaudio degli abitanti della strada, i quali così non devono più spazzar via le foglie. La morte degli alberi trasforma la Schillerstrafie, invasa ormai senza più ricovero dai neon bluastri e dai rumori di una fabbrica attigua, in un inferno intollerabile. Scrivere per sopravvivere di Paola Di Cori RUTH Kluger, Vivere ancora, Einaudi, Torino 1995, ed. orig. 1994, trad. dal tedesco di Andreina Lavagetto, pp. 282, Lit 28.000. Viennese, nata nel 1931 e deportata insieme alla madre a The-resienstadt, ad Auschwitz e infine a Christianstadt, da dove riesce a fuggire nel 1945, Ruth Kluger emigra negli Stati Uniti alla fine della guerra; compie studi letterari, insegna germanistica in diverse università fino ad approdare in quella californiana di Irvine. Durante una permanenza a Gottinga nel 1988, in seguito a una caduta che la tiene immobilizzata per qualche mese, comincia a scrivere le memorie della propria giovinezza, che dedicherà poi agli amici tedeschi. Vivere ancora è un libro straordinario, tra i più importanti nel suo genere pubblicati negli ultimi anni. Si tratta anche di un testo complesso, che si discosta da gran parte della letteratura autobiografica esistente sull'argomento per il tono polemico e poco ammiccante, a tratti addirittura ruvido, che lo caratterizza. Ciascun capitolo è attraversato da brani di poesia, inseriti dall'autrice quasi fossero delle foto ricordo, a commentare momenti che la prosa non riuscirebbe a esprimere con efficacia. Un'inquietudine incessante caratterizza lo stato d'animo della protagonista, che lungo quattro decenni si interroga sulla propria esperienza di sopravvissuta, e la confronta con chi l'ha condivisa con lei, con chi non ne vuole più sentir parlare, con coloro che la deformano e pretendono di interpretare o spiegare la Shoah con semplificazioni e censure, con quei pochi che sono capaci di ascoltare, con il figlio che le rimprovera di non avergli mai parlato della sua terribile esistenza da bambina, con i colleghi che ascoltano malvolentieri i suoi interventi in pubblico, con la propria madre infine, a cui è legata da un insanabile conflitto . Il racconto degli anni dell'infanzia, della prigionia e poi dell'emigrazione è continuamente spezzato dai commenti a reazioni di conoscenti, amici e parenti che negli anni hanno accompagnato il diffi- ► Marionette straziate di Franz Haas Ernst jandl, Altrove. Opera parlata in sette scene, a cura di Luigi Reitani, Campanotto, Udine 1995, ed. orig. 1980, trad. di Nanni Balestrini, testo tedesco a fronte, pp. XXIII-225, Lit 25.000. Non è solo colpa degli editori italiani se finora non è mai stata pubblicata la traduzione di un libro di Ernst ]andl ("L'Indice" si è occupato di Jandl nel numero di febbraio del 1995). Questo poeta, nato a Vienna nel 1925, ha raggiunto una popolarità che solitamente non spetta a un autore di opere dal consumo faticoso, tanto difficile da essere evitato dai traduttori stranieri. Jandl viene dallo sperimentalismo della Wiener Grup-pe degli anni cinquanta, un'avanguardia sulla scia della critica linguistica di Wittgenstein e Mauthner; ma presto sceglie una strada individuale nel campo della "poesia sonora", grazie anche alla sua capacità di recitare: l'autore diventa attore dei propri testi. Le letture pubbliche di Jandl sono sempre un rituale, un processo al linguaggio degradato. La critica letteraria inizialmente è scettica, la cultura ufficiale molto ostile. Il grande successo viene soltanto con i testi teatrali alla fine degli anni settanta, in particolare con Aus der Fremde di cui ora è uscita una congeniale traduzione italiana di Nanni Balestrini. Tradurre questa "opera parlata in sette scene" è un'impresa spinosa sin dal titolo. Aus der Fremde parla di qualcosa che viene "da un luogo estraneo", e racconta una giornata nella vita di uno scrittore cinquantenne in crisi creativa che assomiglia moltissimo a Ernst Jandl. Non è esibizionismo ciò che spinge l'autore a parlare di sé; nei primi venti anni della sua produzione non esiste un Io poetico; questo tabù viene infranto solo malvolentieri e in età avanzata. Ma anche in questo testo lo scrittore evita di dire "io", non cerca l'intimismo autobiografico, tiene a distanza lo spettatore voyeur. A questo scopo Jandl congegna un linguaggio di radicale straniamento, parole che sembrano venire da lontano, da "Altrove" - come Balestrini ha tradotto il titolo: i tre personaggi di questo dramma recitano rigidamente in terzine, parlano solo in terza persona, usano esclusivamente il gelido congiuntivo - reso in italiano giustamente con il condizionale. Solo in questo modo si può declamare il proprio tormento sul palcoscenico e sopravvivere alla vergogna. La giornata dello scrittore comincia la sera, con la cena insieme all'amica, la cerimonia delle gentilezze quotidiane. Ma presto i dubbi corrodono le anime e la conversazione. "Lui: parole simili farebbero / venire le lacrime agli occhi / meglio farla finita / lei: lui le avrebbe promesso / di non farlo / lei ne morirebbe". Questi personaggi sembrano marionette, parlano come se fossero legati a fili linguistici fatali, sono tristi e grotteschi, mangiano in terza persona e al telefono si mandano baci nel congiuntivo. Il giorno successivo viene in visita anche un amico; si mangia, si beve, e lo scrittore spiega il testo che sta scrivendo con grande strazio: assomiglia completamente alla pièce in cui ora sta recitando, dalla quale è "radicalmente scacciata" ogni illusione. Peccato che l'editoria italiana solo adesso abbia scoperto questa bellissima opera; peccato che anche adesso sia rimasta fuori dai grandi circuiti librari. Ma meglio tardi e in una piccola collana, in una curatissima edizione bilingue.