GIUGNO 1996 cile e doloroso processo della protagonista per riuscire a scrivere sull'esperienza dei lager, per dar conto di come è diventata, di com'era prima, e durante, e adesso. Il libro è pervaso da una tormentata interrogazione sulla propria scrittura, e sugli interlocutori reali e ideali, in primo luogo i tedeschi. Le domande più brucianti, intorno a cui i problemi dell'identità attuale e passata si intrecciano con la volontà di impedire la pacificazione e il silenzio, tagliano il libro esattamente a metà. "Per chi scrivo in verità? Certamente non per gli ebrei, perché allora non lo farei in una lingua che un tempo, quando ero bambina, era parlata, letta e amata da tanti ebrei da esser considerata da molti la lingua ebrea per eccellenza, ma che oggi pochissimi ebrei conoscono bene. Scrivo allora per coloro che non vogliono o non possono dividere i sentimenti degli assassini e quelli delle vittime, scrivo per coloro che giudicano poco sano per la psiche leggere e informarsi troppo sui delitti degli uomini? Scrivo per coloro che trovano che io emani un'aura di estraneità impossibile a superarsi? Detto altrimenti, scrivo per i tedeschi. Ma lo siete veramente? Volete veramente essere così?". L'esistenza fuori dal lager si presenta per Kliiger, che la ripercorre ormai in età matura, come l'inizio di un tempo senza fine in cui non potrà evitare di continuare a riflettere sull'esperienza vissuta, sulla mostruosa incredulità degli altri, sul perché e come sia riuscita a salvarsi quando sono morti in milioni, impossibilitata a perdonare, a pacificarsi, a dimenticare, "in mezzo ai fantasmi che [la] assediano"; e così sarà per gli anni che le restano ancora da vivere. All'amica che la invita a mettere da parte il rancore replica infatti: "Solo nelle mie inconciliabilità mi riconosco, a loro mi aggrappo. Lasciamele". La tormentata indagine di Ruth Kluger esprime magistralmente un elemento essenziale nell'esperienza dei lager, già evidenziata in uno degli studi più importanti degli ultimi anni su questi temi, la ricerca di Lawrence Langer sulle "rovine della memoria" (Holocaust Testimo-nies. The Ruins of Memory, Yale University Press, 1991): che questa esperienza, per ogni singolo essere che l'ha vissuta, ha assunto un carattere del tutto unico; è stata diversa ed eccezionale per ciascuno/a. L'unicità si rivela la chiave principale per comprendere a fondo la moltiplicazione delle testimonianze, il bisogno di ciascuno di raccontare la propria storia e di continuare a raccontarla incessantemente, quasi che soltanto impegnandosi in questa narrazione ininterrotta, e nella trama ideale di un infinito racconto, fosse possibile ai sopravvissuti distogliere temporaneamente lo sguardo dalla presenza dei fantasmi, per un momentaneo sollievo. Émile e l'adultera di Claudia Moro Jean-Jacques Rousseau, Emilio e Sofìa o i solitari, a cura di Giuseppe Merlino, Cronopio, Napoli 1996, pp. 88, Lit 15.000. Postuma, quest'opera incompiuta di cui ci è giunto un moncherino, lo è sotto più rispetti. In sen- so editoriale, perché vide la luce nel 1780, due anni dopo la morte di Rousseau, e diciotto dalla data di stesura. Poi perché vuole essere l'epilogo delì'Emile, e non riesce a cancellare del tutto quel sentore di posterità dimidiata che ha il seguito di un libro famoso. Ma è postuma anche per l'atmosfera di cordoglio che la pervade. Abbiamo lasciato Émile e Sophie in stato di grazia coniugale; ora ritroviamo il solo Émile, sopravvissuto alla sventura e narratore affranto dei suoi casi in due lettere destinate al vecchio pedagogo che l'ha educato: la seconda lasciata a mezzo da Rousseau, che non smise però di affabulare intorno a finali possibili, raccontandoli agli amici e talora invitandoli a provvedere essi stessi alla bisogna. Siamo grati a Jean Dusaulx e Bernardin de Saint-Pierre di essersene presi guardia. È infatti proprio l'incompiutezza a scongiurare l'effetto di sequel, a isolare I solitari come nitido frammento narrativo dalla ganga degli sviluppi e delle diramazioni romanzesche. Maggiore gratitudine va al curatore di questa prima traduzione italiana integrale, Giuseppe Merlino, che tratta il frammento alla stregua di un rotolo papiraceo esumato da una villa di Ercolano: lo maneggia con cura, ne compita magistralmente il detto e il non detto. E non potrebbe far meglio; se modi e luoghi del dramma - l'adulterio femminile, con confessione e annesso figlio della colpa - non sono originali e mostravano già allora una certa consunzione, reazioni e propositi del protagonista tradito distano dal contemporaneo galateo di ménage quanto le virtù stoiche dalle affettazioni dei cicisbei. Un neostoicismo tutt'altro che generico e di maniera, il suo. Come Pierre Hadot nelle Diatribe di Epitteto (Esercizi spirituali e filoso- | dei libri del mese! fia antica, Einaudi, 1988), così Merlino riconosce nel calvario di Émile le fasi tecniche degli esercizi spirituali che devono risanare l'anima appassionata e dolente; la fondamentale prosoché, l'attenzione per il presente che conduce a invigilare se stessi, a "non fare mai una cosa fantasticandone un'altra"; la mnéme o rammemorazione, che fa tesoro di massime icastiche per disporne all'occorrenza: la meléte o meditazione, che si rappresenta le difficoltà per imparare a padroneggiarle. Nei cinque libri dell 'Émile il precettore non si era speso invano. Anche all'adultera Sophie, pur non addestrata alla ragion teoretica, e forse neppure a quella etica, ma cresciuta nel rispetto delle convenienze sociali, tocca la sua modesta parte di megalopsychia, di grandezza d'animo. Tanto più che la vediamo agire attraverso il ricordo ferito di Émile: all'inizio invocare inconsolabile i familiari morti; quindi corrompersi in una Parigi malfida, dove la distrazione del marito la abbandona alle trame di amici insinuanti; infine sparire e riapparire, docile alle intermittenze del soliloquio maschile che la evoca nelle mosse e contromosse di un'incalzante psicomachia. "L'indulgenza mi avrebbe umiliato... Sofia poteva essere colpevole, ma lo sposo che aveva scelto doveva essere al di sopra della bassezza. Queste sottigliezze dell'amor proprio erano nella sua natura e forse spettava solo a me coglierle". L'impossibilità insieme di perdonare e di cedere al risentimento, e la prospettiva della solitudine, una solitudine che subentra al legame spezzato e nel plurale del titolo suona senza speranza, diventano elementi di stilizzazione: rendono eloquenti i dilemmi di Émile, frugali i suoi bisogni, fermo il suo passo, abile la sua mano. L'angosciosa fuga per la città dopo lo "schianto del cuore" non tarda a distendersi nei ritmi ritrovati del vagabondare lontano da Parigi, mentre all'attardarsi sfinito e inoperoso viene in soccorso l'antico talento del lavoro manuale. Il novello falegname impara a dissipare a suon di pialla la malia preromantica del "sublime funesto" in cui è immersa la sua disperazione. Ma I solitari non si chiude su quest'immagine cristologica. Il gusto settecentesco per la peripezia esotica impone il "nomadismo del dispatrio": ecco Émile addirittura schiavo e capo di una rivolta in Algeria, occasione ulteriore per saggiare le virtù sociali della morale stoica. Il poco che sappiamo dei due finali fantasticati - dalle testimonianze di Pierre Prévost e Bernardin de Saint-Pierre, accluse da Merlino al frammento - non fa rimpiangere che siano rimasti allo stato di progetto. Entrambi prevedevano un'isola su cui far approdare Émile e fargli ritrovare una Sophie ravveduta e loquace, pronta magari a fornire dettagli sulle circostanze rococò del suo sviamento tlibri licenziosi, cibi afrodisiaci, boschetti galeotti). In una versione la donna si dava schiava volontaria del marito, nell'altra moriva dopo averlo condiviso con una nuova moglie... Non ce ne voglia Rousseau, ma preferiamo congedarci da Émile un po' prima, quando è ancora impegnato, secondo il precetto della Stoà, a "regolare il cuore sul proprio destino". N. 6, PAG. 11 schede Voltaire, Tutti i romanzi e i racconti e Dizionario filosofico, Newton Compton,' Roma 1996, trad. dal francese di P. Angioletti e M. Grasso, pp. 720, Lit 10.900. Quella di mettere insieme (e a prezzo stramodesto) tutto il Voltaire "popolare" mi sembra una brillante idea. Naturalmente quasi tutti i testi sono singolarmente noti; ma ci sono delle sorprese che fanno saltare di gioia. Perché di gioia si tratta quando si leggono gli scritti di Voltaire, specie quelli narrativi. Sorprende a ogni rilettura quale maestria di stile sorregga una scrittura così altamente comunicativa e gustosamente suasiva. Neppure Diderot raggiunge questa sveltezza e leggerezza e torna facile capire perché Voltaire ammirasse come sommo il divino Ariosto. Forse non esiste un altro letterato, pieno di sapienza retorica fino all'orlo, che sappia usare l'arte della narrazione con altrettale disincantata scaltrezza. Voltaire è il filosofo della comunicazione, del rapporto privilegiato col lettore, il quale è invitato a partecipare a questa frizzante avventura della parola come fosse un commensale colpito dalla grazia. La grazia e la spontanea eleganza non sono compensazioni nei confronti di un pensiero gracile o modesto. C'è una parità e compenetrazione che sembra innaturale per lo stile filosofico (e la scrittura filosofica successiva lo confermerà). La verità è che considerare, come è d'obbligo, Voltaire un padre della modernità, con tutte le contraddizioni, i pericoli e le decisive conquiste liberatorie, ci costringe a constatare quale perdita di stile mentale ne sia, ahimè, seguita. Carlo Madrìgnani Gianni Iotti, Virtù e identità nella tragedia di Voltaire, Champion-Slatkine, Paris-Ge-nève 1995, pp. 242, s.i.p. Il titolo di questo studio di vasta portata - titolo che sembra preannunciare un'analisi di taglio tematico - rischia di occultarne un poco i veri contenuti, che investono una serie di problemi appassionanti e centrali per la storia letteraria del Settecento non soltanto francese. Ammiratissimo dai contemporanei, e oggetto di eccessivo discredito a partire dal romanticismo, il teatro tragico di Voltaire è un punto cruciale dell'estetica settecentesca: è infatti il terreno su cui si scontrano (e ambiguamente coesistono) classicismo formale e pathos romanzesco, sublime aulico di ascendenza corneliana e nascente realismo psicologico, nostalgie per l'ethos aristocratico e valori emergenti della borghesia in ascesa. Nel campo di tensione istituito da queste istanze in conflitto, un tema privilegiato -quello dell'innocenza perseguitata -assume nell'analisi di lotti un particolare rilievo. È un tema che, al di là delle sue risonanze settecentesche (si pensi a Sade), proietta sui secoli a venire una serie di ombre inaspettate, che emergono in queste pagine con grande efficacia: "Mentre il tragico antico, legato all'idea di colpa, motiva sotterraneamente il sa- crificio dell'eroe in funzione di una logica dell'espiazione, una delle forme dominanti del tragico moderno risiederà proprio nella drammatizzazione dell'innocenza misconosciuta dell'eroe. Innocenza che -dai personaggi voltairiani fino a Joseph k., passando attraverso tutti gli innocenti misconosciuti del me- ' lodramma e del dramma romantico - finirà per equivalere a una messa in questione della liceità stessa della punizione sociale... Laddove l'antichità faceva del sacrificio del singolo il pegno della stabilità sociale, la modernità ha ribaltato i termini del conflitto, prendendo le difese dell'individuo contro l'ordine sociale". Mariolina Bertini Louise d'Epinay, Ferdinando Ga-liani, Epistolario 1769-1782, a cura di Stefano Rapisarda, pre-faz. di Giuseppe Giarrizzo, Sel-lerio, Palermo 1996, 2 voli., pp. 1135, Lit 80.000. Nel 1769, l'abate Galiani dovette lasciare Parigi dove per dieci anni aveva svolto le funzioni di segretario di ambasciata e aveva frequentato intensamente l'ambiente degli enciclopedisti, acquistando la duplice reputazione di profondo economista e di spiritosissimo uomo di mondo, in cui coesistevano - come ebbe a scrivere Marmontel - lo spirto d'\ Arlecchino e \a mente di Ma- chiavelli. A Napoli, Galiani ebbe l'impressione di dover affrontare un intollerabile isolamento: "Immaginatevi - scrisse a Mme d'Epinay -Confucio trasportato nello spazio di una sola notte a Parigi, dove non conosce nessuno e non sa altra lingua che il cinese. Non parla che con se stesso, e la sua unica consolazione, il suo solo rimpianto, è quello di sapersi adorato in Cina". Per lo sconsolato abate, ormai parigino d'adozione, l'unica consolazione fu l'intenso scambio epistolare con gli amici di Francia: Grimm, Diderot, d'Alembert, d'Holbach. Ma la sua più assidua corrispondente fu Mme d'Epinay, autrice di un romanzo e di diversi trattati pedagogici, che sinché visse gli fornì un animatissimo gazzettino, spesso frivolo e irriverente, della vita culturale e politica di Parigi. L'edizione Sellerio di questa corrispondenza d'eccezione - fondata su diverse edizioni critiche, nessuna delle quali a tutt'oggi.completa - è messa a punto con la più grande cura e con apparati eccellenti. (m.b.)