LUGLIO 1996 schede Mario De Andrade, Il turista ap- prendista, a cura di Andrea Ciacchi, Biblioteca del Vascel- lo, Roma 1995, ed. orig. 1976, pp. 184, Lit 26.000. Brasile, 1927. Un grosso battello a vapore solca le infide acque del Rio delle Amazzoni. A bordo una strana compagnia, composta dal poeta Mario De Andrade, da una mecenate dell'epoca, Olivia Gue- des Pentado, e da due rampolle di buona famiglia. Mario De Andrade, trentaquattro anni, è già conosciuto a San Paolo non solo come poeta, ma come giornalista, musicologo, critico d'arte e come uno dei princi- pali spiriti del modernismo brasilia- no. Durante il viaggio, che dura tre mesi e porta la compagnia in Perù fino quasi sotto le Ande, il poeta prende appunti, annota considera- zioni sulle popolazioni amazzoni- che, si informa sulle loro condizioni di vita. Da buon "turista apprendi- sta", maledice il caldo e soffre di "saudade" per la sua bella San Paolo lontana. Gli appunti disordi- nati di De Andrade, pubblicati in Brasile solo trent'anni dopo la sua morte (avvenuta nel 1946), vengo- no oggi per la prima volta tradotti in italiano dalla Biblioteca del Vascel- lo, in una bella edizione arricchita da una serie di fotografie dell'auto- re, e da un utilissimo glossarietto che facilita la comprensione del te- sto. Roberto Gritella Selma Lagerlóf, L'anello ruba- to, Iperborea, Milano 1995, ed. orig. 1925, trad. dallo svedese dì Silvia Giachetti, pp. 126, Lit 16.000. Concepito come parte di una tri- logia ma apparso, nei 1925, come racconto a sé e solo più tardi segui- to da altri due romanzi, nei quali ri- tornerà, a delineare una saga, il te- ma dell'anello, ecco un bel raccon- to "gotico", con un finale imprevedi- bile e, in apertura e chiusura, i toni lievi dell'ironia ad alleggerirne tinte e tensione. Una storia del XVIII se- colo, raccontata accanto al camino: l'anello maledetto, donato dal re a un generale e trafugato nella tom- ba, rende inquieto e vendicativo lo spettro del proprietario - in linea con i suoi eroici trascorsi - scate- nando una serie di eventi luttuosi che si distendono per generazioni. Ma la dolce Marit prima, che ne è stata vittima, e la fedele signorina Spaak poi, riescono ad arginarne almeno in parte i poteri. Ancora i te- mi, cari alla Lagerlóf, del caso e del destino ineluttabile; e del riscatto amoroso, sia pure incompiuto, affi- dato alle donne - ma l'universo fem- minile è sempre vittima e medium di una qualche redenzione -; e, insie- me, il disincanto - la scrittrice è or- mai settantenne -, la passione per la realtà e il gusto di raccontare creando con apparente naturalez- za le giuste atmosfere. Ma niente a che vedere con le storie di fantasmi all'inglese: qui un cupo Varmland fa da sfondo alla storia, e la supersti- ziosa presenza contadina la colora dell'etica del dramma, come nella più nordica Blixen o nei film di Dreyer. Anna Baggiani La saggia i la sciocca di Giulia Poggi lope de Vega, La dama scioc- ca, a cura di Maria Grazia Profe- ti, Marsilio, Venezia 1996, trad. dallo spagnolo e note di Rosario Trovato, testo originale a fronte, pp. LXII-137, Lit26.000. Chi è la "dama sciocca" ovvero, Idei libri delmese| de Vega è un'appassionata esperta e del teatro spagnolo un'indiscussa au- torità. Esperienza e autorità che lo studio introduttivo al volume riflette in pieno, non solo per l'attenzione dedicata ai problemi ecdotici della commedia (primo fra tutti il rappor- to fra manoscritto e stampa, riconsi- derato dalla Profeti alla luce della di- namica propria del testo teatrale au- reo), ma anche per la prospettiva re- torica in cui essa viene analizzata e che è quella, singolarissima, di un pe- trarchismo reso maniera, di un liri- smo cristallizzato in scene e azioni quotidiane, di un "cultismo" che, se -da un lato vorrebbe smentire i pre- N.7, PAG. 16 della sua opera, le sue argomentazio- ni anticultiste, si sofferma giusta- mente la Profeti a indicare sia il co- stante travaso di codici lirici e dram- matici connotante il teatro aureo, sia sull'abitudine alla riscrittura e all'au- tocommento che investe, nel baroc- co, il concetto stesso di letteratura. L'attenta traduzione di Rosario Trovato è la prima traduzione in versi della commedia, condotta con leggerezza, rispettando la dia- lettica in essa stabilita fra registri alti e quotidiani, tra amore e dena- ro, tra ideali filosofici e lessico pseudoscientifico (come quello a- strologico, da intendere in con- L'Olanda di uno spagnolo di Elisabetta Niccolini cees nooteboom, Sulle montagne dei Paesi Bassi, introd. di Enzo Siciliano, Iper- borea, Milano 1996, ed. orig. 1984, trad. dall'olandese di Fulvio Ferrari, pp. 172, Lit 18.000. Tra i romanzi di Noot eboom, Sulle monta- gne dei Paesi Bassi è giocato sulla riprodu- zione quasi metastatica della figura del dop- pio, inteso come scissione e raddoppiamento, ma anche come coincidenza dei contrari. Ful- cro di poetica attorno al quale si dispongono tutti i romanzi dell'autore, il doppio è qui di- chiarata finzione. Tiburón de Mendoza, così si chiama l'io narrante, è un ingegnere spa- gnolo, ottimo conoscitore della lingua e cul- tura dei Paesi Bassi, che nel tempo libero da- gli impegni lavorativi scrive romanzi. L'inci- pit del racconto ricalca il modello della favo- la, con il suo "C'era una volta ...", facendo credere al lettore che sta per addentrarsi nel mondo sognante della fiaba. In verità il libro racconta sì una favola a lieto fine, ruotante intorno a temi come la bellezza assoluta, la perfezione, la felicità completa, ma quasi a volerne smontare la credibilità o, per dirla in altro modo, la macchina letteraria, l'autore fittizio interrompe di continuo il flusso del racconto con riflessioni poetologiche. Ti- burón, rileva per esempio la stretta analogia che intercorre fra la costruzione di un roman- zo e la costruzione di una strada, la lettura di un libro e la contemplazione di un paesaggio. A più riprese l'io narrante cerca di definire il genere della favola, fin quando leggiamo che la favola è solo un modo per rendere più in- tensa la realtà. Cinterò romanzo è costellato di considerazioni sulla scelta di un genere let- terario piuttosto che di un altro, così come sui numerosi io che l'autore fittizio Tiburón, ci- tando l'inizio dell'I ienri Brulard di Sten- dhal, trova imbarazzanti e penosi. La riflessione poetologica cuce insieme gli spezzoni della fiaba, nella quale si racconta il destino di Kai e Lucia, trapezisti olandesi, legati l'uno all'altra da un amore perfetto in senso platonico. I due protagonisti sono per- fetti, sia dal punto di vista estetico che mo- rale: belli e felici, essi hanno qualcosa che va al di là dell'umano. Sono dei personaggi in- ventati, la cui perfezione allude forse allo stato dell'uomo prima della cacciata dal pa- radiso. Nati nell'ambiente del circo, Kai e Lucia sono la coppia ideale e perfetta, in grado di ricostituire l'armonia perduta, l'an- drogino primordiale. A più riprese viene ci- tato il Simposio di Platone, soprattutto l'idea di due esseri racchiusi e uniti in una persona, due metà separate che si cercano e possibilmente si trovano, fino a diventare una cosa sola. Come in ogni favola che si ri- spetti, anche qui i personaggi devono supe- rare una serie di prove prima di giungere al lieto fine. Per concludere è importante ri- cordare la gestazione del romanzo, risalente a due diverse fasi, lontane quindici anni l'una dall'altra. Il nucleo originario della fa- vola di Kai e Lucia nasce verso la metà degli anni sessanta, sotto forma di copione per un film, con la regia di Frans Weisz, mai realiz- zato. Negli anni ottanta poi Nooteboom tira fuori il manoscritto dal cassetto e ne frantu- ma la storia per montarla nel racconto dell'ingegnere Tiburón de Mendoza. come nell'originale spagnolo, la "da- ma boba"? E Finea, una ragazza da marito la cui vicenda può riassumersi in due rapidi tratti: poco sale in zucca e molti beni in dote. All'inverso la so- rella Nise, pur non potendo vantare un ricco patrimonio, è saggia e intel- lettualmente emancipata. Il destino, o meglio il gioco degli equivoci sa- pientemente dosato dai meccanismi propri della commedia aurea, farà in modo che sia il pretendente di Nise, Lorenzo, a impalmare Finea (dive- nuta nel frattempo, sotto l'influsso dell'amore, accorta e raffinata) e che Liseo, già promesso sposo di Finea, finisca per invaghirsi, ricambiato, della più colta sorella. Su questo schema scontato, inter- cambiabile e vagamente favolistico (il rapporto speculare tra sorelle è, si sa, uno dei più sfruttati motivi arche- tipici) si basa la commedia di Lope de Vega: una delle tante che ora vede la luce in un'edizione italiana curata da Maria Grazia Profeti, che di Lope supposti della difficoltà, dall'altro si premura di divulgarli, rielaborarli nelle loro immediate ripercussioni. Spia di quest'atteggiamento volto a interessare il pubblico, ma anche a renderlo partecipe di un'esperienza letteraria allargata, sono i riferimenti libreschi contenuti nella Dama scioc- ca e soprattutto quelle allusioni al parlare oscuro che, se si pensa alla data di composizione della comme- dia (1613), non possono non riman- dare alla controversia che segnò, for- malizzò quasi, il proverbiale conflit- to fra il suo autore, già teorizzatore di una "comedia nueva", e Góngo- ra, il poeta di Cordova cui toccò, proprio in quegli anni, la difesa di una "nueva poesia". Allusioni che non impediscono al drammaturgo di riciclare frammenti di lirica gon- gorina nella Dama sciocca, né di ag- gregare la molteplicità dei suoi toni attorno a un sonetto di ispirazione neoplatonica. Su questo sonetto, cui lo stesso Lope affiderà, in altri luoghi trappunto con la dottrina della predestinazione celeste). Rispet- tando, insomma, quella varietà di modulazioni metriche e linguisti- che che lo stesso Lope prescriveva per il testo drammatico e che, nella commedia in questione, è la "dama sciocca" a interpretare, passando da un'insipienza che non le conce- de di andare oltre la lettera delle parole a una consapevolezza che le consente, non solo di simulare, a fini amorosi, una presunta igno- ranza, ma anche di attingere a un repertorio metaforico sempre più elaborato. Come quando, con un'immagine di ascendenza tere- siana e ancora neoplatonica, para- gona la sua anima a un grande spa- zio tappezzato di specchi che ri- flettono l'amato (w. 2407-2418). Tanto può, ora come allora, il linguaggio, specie quando a impa- dronirsene sono le donne: anche quelle che sono - o fingono di esse- re - sciocche. Disperazione coniugale di Bruno Ventavoli attila jozsef, Flora, amore mio, Bulzoni, Milano 1996, trad. dall'ungherese di Tomaso Kemeny e Nicoletta Terroni, pp. 130, Lit 20.000. Da giovane fu mozzo su un bat- tello, garzone di pasticceria, stril- lone. Riuscì a leggere la propria povertà in chiave universale e pub- blicò alcune tra le più belle poesie comuniste e rivoluzionarie del no- stro secolo. Poi Attila Jozsef co- minciò a perdere l'appoggio del partito, ad avvitarsi in una spirale di depressione, solitudine, incer- tezza. Finché non intrawide uno spiraglio di redenzione in una gio- vane donna, Flora Kozmutza. Fra- gile, colta, intelligente. Ma anche questa destinata promessa, nella Budapest ferita degli anni trenta, era destinata al naufragio. Non sbocciò un amore completo, rea- lizzato: restò tuttavia intrappolata in un lungo ciclo di poesie. Una scelta di liriche del poeta unghere- se, accompagnate da epistole quo- tidiane che ne spiegano il trava- glio, esce ora in Italia dall'editore Bulzoni col titolo Flora, amore mio. Il primo incontro tra Attila e Flora avviene il 20 febbraio 1937. Due giorni dopo il poeta le telefo- na. Poi la invita in una caffetteria nei pressi del Museo Nazionale. Per chiederla in sposa, per parlarle di versi, per bisticciare su lettera- tura e filosofia. Nell'arsenale poe- tico di Attila Jozsef, sfiorato dall'a- more, le masse, i volti scavati dalla povertà, i sobborghi macilenti non sono più fonte d'ispirazione. Af- fiora invece l'isolamento di un uo- mo che non riesce a trovare lavoro, che sbanda nella follia, che perde amicizie e rispetto, che s'avvelena di gelosia per Flora. Attila potrebbe telefonare alla sua amata. Ma preferisce incidere nella carta da lettera la sua inquie- tudine, la sua speranza coniugale, i suoi appuntamenti. Ma ogni detta- glio gronda il dolore, l'insopporta- bile dolore, che le anime dolenti scorgono nella quieta banalità del- le cose quotidiane. Chiede a Flora qualcosa che è più dell'amore: le chiede un'àncora di certezza per arrestare la sua deriva. Flora s'ammala, si rintana in sana- torio. Attila Jozsef vive dei pochi de- nari che riesce a distillare dalle sue poesie. Vede intorno a sé più schie- ne voltate che mani tese. Smotta nel- la depressione, nel dolore, nella fol- lia. Le lettere d'amore sono un con- tatto forte con la realtà. Sebbene in- sufficienti. Anche perché la ragazza incrocia Gyula Illyes, lo scrittore e poeta che sarà suo futuro sposo. Dopo una dolorosa malattfa, At- tila Jozsef accoglie i consigli degli amici e si trasferisce sul Balaton, presso le sorelle che gestiscono una pensione. Flora lo viene a tro- vare. Gli porta delle mele in rega- lo. Gli lascia il vuoto di un senti- mento irrealizzabile. Il poeta scri- ve al dottor Bak, che l'ha curato, "Lei ha provato l'impossibile". Si reca alla stazione, guarda un carro merci in sosta, e si suicida gettan- dovisi sotto, a trentadue anni. E un venerdì sera. 117 dicembre 1937.