Idei libri del mese! OTTOBRE 1996 civile che dà loro respiro, nascondere i crimini magari in nome di un'assurda par condicio dell'orrore non significa "svelare", ma anzi dare nuova voce alle propagande belliche. E significa appiattire un intero popolo sulle scelte del ceto di potere che lo dirige è che - nel caso serbo più che in altri - lo affama. Mi stupisce la testarda volontà di accostarsi al conflitto evitando l'analisi politica, economica e sociale. Ma forse proprio la paura della politica è la questione capitale. A pagina 21, dopo un embrione di analisi condivisibile sulle responsabilità croate a Vukovar, salta fuori l'elemento dirimente: "la guerra è la guerra" dice Handke, null'altro si può dire al di là di questo "grido primordiale". Chi ha altro da dire sulla guerra si fermi qui, non legga oltre, l'ennesima porta stagna di questo libro. O di qua o di là, liquidati tutti i tentativi di analisi, di comprensione, di intervento, come "sdegnati movimenti di labbra... ricattatori". Uno Stato si è dissolto, le carte geografiche a trecento chilometri da Ancona sono state ridisegnate secondo coordinate etnico-religio-se, il diritto di cittadinanza, assassinato, è stato sostituito dall'appartenenza di clan. Davanti a tutto questo non c'è che il grido primordiale: la guerra è un temporale, un fenomeno di natura, sgorga dagli istinti e dai precordi di un popolo a essa votato, non dalle forze del mondo economico, non dai sussulti di una crisi di transizione a un capitalismo selvaggio, non dalla necessità di rapida accumulazione primitiva da parte di classi dirigenti incapaci di perpetuarsi e rilegittimarsi altrimenti, non da ingerenze di diplomazie straniere attente agli equilibri che un conflitto può creare. Non è altro che, in forma letteraria, la teoria del tribalismo, analizzata da Paolo Rumiz nel suo Maschere per un massacrò (Editori Riuniti, 1996): "La più astuta delle bugie costruite dai . massacratori per nascondere le loro responsabilità e raggiungere i ' loro obiettivi. Essa ci porta alla follia geopolitica di erede-rè che smembrare un tessuto sociale in parti etnicamente pure sia indispensabile alla sua pacificazione. Solo a scomposizione av-venuta scopriamo che ciascuna delle sue parti non solo riproduce, ma accentua al suo interno le tensioni di prima: c'è più banditismo, più corruzione, più sradicamento, più squilibri sociali, più armi, primitivismo, repressione, censura, fondamentalismo, povertà, odio". Se non mette capo ad altro che al "grido primordiale", l'operazione di Handke, allora, è tutt'altro che di minoranza: è lo stesso modo di rappresentare i Balcani offerto in pasto all'opinione pubblica dall'informazione di massa, quello di chi ha bevuto i messaggi conniventi, opportunisti e interessati delle cancellerie, di chi ha creduto alle propagande belliche e alla favola bella degli organismi sovranazio-nali e delle truppe di pace. Non importa, allora, a quale delle varie propagande si è prestato l'orecchio, e poi, come Handke, la voce. Importa il modo di accostarsi. Può darsi che il letterato abbia diritto all'ingenuità, ma non sono sicuro che l'ingenuità sia innocente, né che l'innocenza sia innocua. Contro l'embargo intellettuale di Hannes Krauss Poiché l'edizione italiana esce a ridosso di un infuocato dibattito sulla stampa tedesca e francese può sembrare ingenuo proporre una lettura non prevenuta. Tuttavia è doveroso farlo, visto che la polemica ha finora riguardato quasi esclusivamente le convinzioni politiche - supposte o palesi -dell'autore, perlopiù ignorando il testo vero e proprio. E questo in al- zo quando Handke tenta di confutare i pregiudizi di una parte con quelli dell'altra, quando attenua le pecche morali di Milosevic enunciando quelle di Tudjiman, o quando prende esplicitamente partito per uno dei due contendenti. Ma è anche vero che lo fa raramente. Il più delle volte si limita a descrivere la vita quotidiana di chi vive dietro lo scenario mediatico della guerra Peter Handke scende in campo con la forza della letteratura. Il suo sguardo dichiaratamente soggettivo e al tempo stesso pensoso riattiva forme quasi dimenticate di un impegno politico intellettuale: il dubbio e la domanda. Lo scrittore parte per la Serbia per rintracciare dietro le immagini televisive se non delle risposte quanto meno delle domande più precise. Il suo collo- Con la valigia sempre pronta di Claudio Magris Miljenko JergoviC Le Marlboro di Sarajevo, Quodlibet, Macerata 1995, ed. orig. 1994, trad. dal croato di Ljiljana Avirovic, pp. 137, Lit 16.000. Il nuovo Andric della Bosnia: così Paolo Rumiz, uno dei più incisivi cronisti-scrittori dell'atroce e folle guerra balcanica, ha definito Miljenko Jergovic, il giovane e fulmineo autore delle Marlboro di Sarajevo. Entrambi, come molti altri scrittori, narrano di quel composito crogiolo balcanico di popoli, fedi e culture diverse che dovrebbe e potrebbe essere - e in parte è stato, dando una grande lezione di civiltà -un esempio di convivenza, tolleranza e reciproco arricchimento umano ed è invece divenuto un laboratorio dell'infamia e dello sterminio. Anche il mondo di Andric è percorso dalla tragedia, che lo rende indecifrabile ma non assurdo e non toglie senso all'esistenza; perciò è possibile per lui il gesto epico, il lungo respiro, il grande racconto della totalità e della continuità della vita. Pure Jergovic è uno scrittore epico, capace di far parlare l'oggettività delle cose e degli eventi, di cogliere in un concretissimo dettaglio, con asciutta essenzialità e col suo artiglio di grande narratore, l'istantanea in cui riassume la storia di un individuo o di un paese. Ma la tragedia che investe il mondo di Jergovic è insensata, grottesca; nei suoi racconti la violenza sanguinosa mostra il suo orrore attraverso l'indifferenza, l'apparente normalità dell'accadere più mostruoso, la caotica indeterminatezza, la sbandata casualità. E una violenza che arriva d'ogni parte senza che si sappia da quale e che viene continuamente mistificata, attribuita ad altri, sino a non essere più identificabile e ad essere di tutti contro tutti. E una violenza che si accompagna alla falsificazione dell'ideologia, dell'informazione e del giudizio che vorrebbe chiamare i correi a priori, additare i colpevoli prima che essi abbiano commesso colpe. Mai come nella guerra balcanica violenza e menzogna si accompagnano e s'identificano. Il respiro epico dello scrittore si fa allora necessariamente breve e convulso; il narratore racconta non una vita e neppure un'intera giornata, come Babel' diceva di Tolstoj, ma icinque minuti-che Babel' riconosceva come sua misura - in cui una vita e una giornata si condensano e si frantumano. La guerra, la grande protagonista di questi straordinari racconti, non si vede; non è in primo piano, ma è la cornice, lo sfondo che tutto abbraccia, e trapela nei dettagli, in qualcuno che non torna a casa o viene d'improvviso colpito mentre va a prendere acqua, nei particolari ai un trasloco improvviso, nei disguidi e ostacoli che d'un tratto impediscono un amore. Il mondo di Jergovic è sanguigno e insieme spettrale: sanguigno per le colorate vicende di individui inconfondibili e per la picaresca familiarità di osterie e di chiacchiere col destino, e spettrale per l'assurdità che avvolge e distrugge tutto questo, per l'astrazione che la terrificante e imbecille violènza viene ad assumere. C'è pietà in Jergovic, e tanto amore per la vita sensuale e fugace, volatilizzata da una guerra che è incomprensibile perché non ha una ragione che possa essere compresa. Anni fa - sembra un 'era lontana - girando, nelle mie scorribande danubiane e limitrofe, per la Bosnia sono stato felice. Nel mondo di Jergovic - come in nessun altro, del resto -non può certo esserci felicità, eppure paradossalmente la si sente; si sente come essa potrebbe essere vicina, il che rende ancora più feroce la sua impossibilità. E allora non resta che l'esilio dalla vita vera, la precarietà: "A questo mondo - scrive Jergovic- per come esso è fatto, c'è una regola di base e si riduce a una valigia sempre pronta". lineamento al tono generale della discussione sulla Jugoslavia, dominata da uno schematismo che tende a ignorare la riflessione, la sfumatura del ragionamento o anche lo sconcerto individuale. Ma è proprio su questo terreno che opera il diario di viaggio di Handke. Il libro suscita un misto di simpatia e tristezza ma anche di sollievo perché persino dietro le immagini più disperate del "nemico" s'intravedono degli esseri umani. Le istantanee occasionali - consapevolmente non esemplari della vita quotidiana di quel popolo serbo ormai bollato da molti europei come erede del nazismo tedesco -si costituiscono come piccole tessere di mosaico utili a correggere la visione corrente di un orrore insensato. Una visione nella quale si sono stranamente mescolate tragiche verità, paralleli storici azzardati e rudimenti di anticomunismo. Certo, anch'io mi irrito e mi scandaliz- nei Balcani. Questo candore quasi provocatorio con il quale Handke ci espone una realtà marginale sollecita uno sguardo riflessivo sugli esseri umani che stanno dietro il conflitto. Persone che vengono percepite dall'opinione pubblica internazionale solo attraverso i loro rappresentanti politici, cioè come carnefici o come vittime. E vero: l'ottica parziale dello scrittore non può sostituire l'analisi politica. Ma la deve completare. E Handke lo fa arricchendo anche quel certo giornalismo che ha determinato la nostra immagine della guerra in Jugoslavia ma che - in tempi di accanita concorrenza - non sempre ha rispettato i tradizionali principi di serietà professionale. Mentre altri intellettuali hanno quasi sempre solo appoggiato la comprensibile rabbia e l'odio legittimo delle vittime bosniache condividendone l'astio con dichiarazioni di grande effetto sui media, carsi nell'angolo morto dell'obiettivo non l'ha condotto - come pretendono i suoi critici - a una presa di posizione incondizionata a favore della parte opposta. Lo scrittore trasmette piuttosto meno certezza e determinazione delle immagini televisive sollecitando nel lettore una visione più complessa. Questo aspetto si è reso particolarmente evidente nel corso delle pubbliche letture nei teatri e nelle università di Amburgo, Francoforte, Monaco, Lipsia, Essen, Vienna, Lubiana e altrove. Certo, una lettura in versione ridotta, quella di Handke, ma tuttavia densa di quel suo provocatorio soggettivismo, della violenta vis polemica contro i mezzibusti televisivi e soprattutto 'di quella sua ansia di porsi domande, di sollecitare il dubbio. Il pubblico ha ascoltato per ore inchiodato alla sedia, afferrando che cosa Handke intendesse con "approccio decisamente ignaro" alla que- N.9, PAG. 15 stione jugoslava. E anch'io mi sono reso conto, più ancora che attraverso la mia prima lettura, che per Handke non si tratta di posizioni -prò o contro -, ma di un atteggiamento di fondo. Un atteggiamento che s'inserisce nella tradizione di quel testardo non-voler-accettare-l'orrore che è privilegio della letteratura, perlomeno a partire dalla reazione di Voltaire allo shock del terremoto di Lisbona. La conversazione con l'autore ha lasciato emergere anche alcuni motivi autobiografici legati a esperienze lontane, come la fede infantile di vincere la paura profonda attraverso la domanda e l'esplorazione di dettagli marginali. È vero, tutto questo può apparire eccessivamente semplice, ma come può contribuire un poeta alla soluzione del conflitto nei Balcani se non con la semplicità? "È forse rassegnazione cessare di essere megalomani?" ha recentemente risposto Ju- rek Becker a chi gli chiedeva perché non si esprimesse sulla Bosnia? È immorale, si potrebbe aggiungere, se uno veste il proprio sgomento di parole che non provengono dal dizionario della politicai correctnessì Handke viene punito con la diffamazione e l'esclusione dai media perché ha infranto un embargo intellettuale. Curiosamente proprio da coloro che non trovano niente di scandaloso nel fatto che Milosevic sia stato una figura chiave sia a Dayton che a Roma. Chi però guarda oltre la fine dello stazionamento delle truppe Ifor e la campagna per le elezioni americane può sentite una certa affinità con lo sgomento di Handke. D'altra parte, che non si tratti di un passivo defilarsi dai problemi lo ha efficacemente dimostrato l'autore stesso, devolvendo l'incasso complessivo delle sue presentazioni del testo - oltre 45 milioni di lire - a favore del Comitato per i diritti fondamentali e la democrazia, una sobria iniziativa tedesca a malapena recepita dai media, che da anni con il motto "Soccorrere invece di sparare" distribuisce molteplici aiuti all'intero territorio della ex Jugoslavia, assistendo bambini profughi e sostenendo gruppi pacifisti e sanitari in Bosnia, Croazia e Serbia. Con il ricavato del suo libro Handke sogna ora di aprire con il regista Emir Kusturica, nelle zone devastate dalla guerra, un bar in cui possano incontrarsi per uno slivoviz i gruppi etnici ostili. Delle innumerevoli follie che la guerra nei Balcani ha già dato alla luce, questa mi sembra una delle più accattivanti. (trad. dal tedesco di Monica Pedrocco)