OTTOBRE 1996 | UCI LIDKI UtL MtSt^ Giudici, predicatori, poliziotti e buongustai P- Liti N. 9, PAG. 19 Bruce Alexander, Gli occhi del giudice, "Ilgiallo Mondadori" n. 2480, Milano 1996, ed. orig. 1994, trad. dall'inglese di A. M. Francavi Ila, pp. 333, Lit 5.900. Nella Londra del 1768 arriva, in cerca di fortuna, Jeremy Proctor, figlio tredicenne di un tipografo di provincia morto in circostanze tragiche; è stato infatti linciato dai concittadini bigotti e oscurantisti per aver osato pubblicare un opuscolo di Voltaire. In un primo tempo anche la grande capitale sembra rivelarsi a Jeremy non meno ostile e crudele della sua cittadina di origine: accusato falsamente di furto, viene trascinato in tribunale e si trova confuso in una pittoresca folla di guardie corrotte e violente, ladri recidivi e prostitute schiamazzanti. È proprio il tribunale a riservargli l'incontro decisivo della sua vita: nel giudice a cui è affidato il suo caso, sir John Fielding, fratello del romanziere Henry, Jeremy trova una sorta di secondo padre che, riconosciuta la sua innocenza, lo accoglie in casa e lo trasforma nel proprio fedele aiutante. Sir John Fielding, personaggio storico, è una figura originalissima: affetto da cecità, ha sviluppato in sommo grado l'udito, la memoria e l'acume, ed esercita le proprie funzioni di magistrato con una perspicacia e una magnanimità ammirate da tutti. Jeremy fa appena a tempo a insediarsi in casa di sir John che il giudice è chiamato a far luce su una morte misteriosissima: lord Goodhope, libertino, giocatore d'azzardo e amante di una splendida attrice shakespeariana, è stato assassinato nella biblioteca ermeticamente chiusa del suo palazzo. L'indagine di sir John lo conduce, insieme al suo giovanissimo assistente, nei palazzi aristocratici e nelle bische, al ristorante con il dottor Johnson e con il suo vanitoso biografo Boswell e infine a teatro, dove il grande Garrick impersona Macbeth: sullo sfondo, varie atrocità d'epoca, servette stuprate e tratta dei neri, carceri disumane e pubbliche impiccagioni. Il racconto si snoda con accenti piacevolmente dickensiani, ben resi da una traduzione perfettamente intonata. Mariolina Bertini Davis Grubb, La notte del cacciatore, Baldini & Castoldi, Milano 1996, ed. orig. 1953, trad. dall'americano di Maria Teresa Marenco, pp. 257, Lit 12.000. In una cittadina sulle rive dell'Ohio, agli inizi degli anni trenta, fa la sua comparsa una strana figura di predicatore errante, che affascina l'ingenuo pubblico dei coltivatori con una fiammeggiante oratoria biblica, in cui si alternano violente requisitorie contro le abominazioni del peccato e melliflue professioni di fraterno amore del prossimo. Sulle dita della mano destra porta tatuata la parola AMORE, su quelle della sinistra la parola ODIO: il suo cavallo di battaglia è inscenare, a beneficio del pubblico, un drammatico combattimento tra Caino . e Abele, rappresentati dalle sue dita che si torcono con schiocchi sini- stri. Qual è lo scopo segreto per cui il predicatore prima corteggia, poi sposa la sprovveduta Willa, vedova con due bimbi, John e la piccola Pearl? Soltanto John intuisce la verità, legata a un oscuro segreto del passato, e ingaggia con l'uomo un duello senza esclusione di colpi. Se nel film La morte corre sul fiume -tratto da questo romanzo nel 1955 e diretto da Charles Laughton - la figura centrale era senz'ombra di dubbio quella del predicatore folle Maigret. Il Crocevia delle Tre Vedove è un tipico Maigret degli esordi: come Pietr il Lettone (Adelphi, 1993) mette in scena il mondo della criminalità organizzata, delle grandi bande di delinquenti internazionali con cui la polizia si scontra in una guerra spietata ma leale, che non esclude tra i contendenti una reciproca stima. Gli elementi di fascino del Crocevia delle Tre Vedove sono soprattutto due: da un lato lo sfondo, e dall'altro la coppia di Paul Mann, La stagione dei monsoni, Polillo, Milano 1996, ed. orig. 1992, trad. dall'inglese di Maria Teresa Marenco, pp. 328, Lit 27.000. "Una storia così avvincente che la vostra vita si fermerà finché non arriverete all'ultima pagina", recita la recensione del "Toronto Star" in terza di copertina, e di per sé è già una bella presentazione. Se poi si aggiunge che l'autore è un giornali- e malvagio, nel romanzo ha molto rilievo anche il piccolo John; un fratello minore di Tom Sawyer e di Huck Finn, i cui sogni si sovrappongono di continuo all'insostenibile realtà mentre, intrepido e fragile, affronta senza cedimenti le terribili forze del male. (m.b.) Georges Simenon, Il Crocevia delle Tre Vedove, Adelphi, Milano 1996, ed. orig. 1931, trad. dal francese di Emanuela Muratori, pp. 141, Lit 12.000. Prosegue, a cura di Ena Marchi e Giorgio Pinotti, l'edizione adelphia-na delle inchieste del commissario personaggi da cui prende le mosse l'azione. Lo sfondo è un incrocio a una cinquantina di chilometri da Parigi dove si fronteggiano una villa settecentesca mal tenuta, un'autorimessa con cinque pompe di benzina di un rosso sfavillante e l'anonima villetta moderna di un assicuratore che pare incarnare la piccola borghesia più gretta e convenzionale. I due personaggi che danno l'avvio al racconto sono un'enigmatica coppia di aristocratici danesi -fratello e sorella - dall'eleganza misteriosa e teatrale. Il dramma che li coinvolge, mostrando dietro le apparenze una ben diversa realtà, ha ispirato nel 1932 La nuit du car-refour, di Jean Renoir, alla cui sceneggiatura collaborò anche Simenon. (m.b.) sta inglese di orìgine indiana che ambienta il suo thriller a Bombay, la cosa si fa davvero interessante. Nell'ottima traduzione di Maria Teresa Marenco, Polillo presenta un. grande thriller dal ritmo mozzafiato. Un cadavere orribilmente mutilato, tanto che è diventato impossibile riconoscerne il sesso, viene trovato in un lago nei pressi di Film City, la Hollywood indiana, e potrebbe essere solo uno delle dozzine di corpi ritrovati ogni giorno in una delle tante città del paese, troppi perché a qualcuno importi ancora di cercare un colpevole. Ma non la pensa così George Sansi, l'ispettore anglo-indiano dagli occhi azzurri che ha studiato legge a Oxford e che nonostante tutto crede ancora in una possibilità di giustizia. Armato di pochi indizi e di molta determinazio- Baronessa Orczy, Il vecchio nell'angolo. Dodici misteri, Sellerio, Palermo 1996, ed. orig. 1901-1909, trad. dall'inglese di Giuliana Carraro, pp. 275, Lit 15.000. Il più bizzarro rivale di Sherlock Holmes, un vecchio senza nome, "spaurito" ed "esasperante", è nato dalla penna di una grande scrittrice popolare, la Baronessa Orczy, nota per ben altra tempra di personaggi, come l'affascinante Primula Rossa, il cui nome basta da solo a evocare un intero mondo di avventure e sfide cavalleresche. I racconti del "vecchio nell'angolo" compaiono tra il 1901 e il 1909 sulla "Royal Ma-gazine", inseguendo il grande successo di pubblico dei romanzi di Conan Doyle. Ogni racconto prende il via dalla conversazione che si svolge, nell'angolo appartato di un pub, tra uno strano vecchio e una giovane giornalista. La descrizione dei due interlocutori riflette l'impressione poco lusinghiera che l'uno ha dell'altro: l'uomo pallido, magro, dai capelli radi e singolarmente chiari, sembra, .nonostante l'abito di tweed, uno spaventapasseri vivente ed emana un senso di mistero un Movente: l'avidità di Manca Marcellino po' losco; la donna sfoggia un entusiastico quanto sprovveduto interesse per la cronaca nera, e una sicurezza non.confortata dall'acume, che fa poco onore al giornalismo in gonnella. Eppure, nonostante la reciproca diffidenza e gli aspri battibecchi, la strana coppia è tenuta insieme dal comune gusto del delitto, dal fascino ipnotico di un racconto che avvince tanto il narratore quanto l'uditrice. Tra un bicchiere di latte e una fetta di torta al formaggio, l'uomo ricostruisce i fatti clamorosi di cronaca nera che la polizia di Scotland Yard non sa risolvere. Descrive i protagonisti e la cornice dei delitti, analizza i possibili moventi, smonta gli alibi e smaschera i veri assassini. Una forte eccitazione cerebrale spinge le sue dita nervose a giocherellare con un pezzo di corda, intrecciandovi nodi di straordinaria complessità. Il suo talento non è tanto nella capacità di individuare gli indizi e sperimentarne tutte le possibilità deduttive, come nell'accreditato metodo holmesiano, quanto nel sapersi immedesimare nei criminali, nello smascherare il più crudo dei moventi nel più irreprensibile degli uomini. Moventi rappresentati, nel novantanove per cento dei casi, da un sentimento elementare, l'avidità. Gli ambienti -preferibilmente aristocratici e alto borghesi, come vuole la tradizione del giallo inglese -, i personaggi e i meccanismi delittuosi dei dodici racconti non presentano in sé elementi di novità. È invece l'eccitazione gratuita e amorale del vecchio nell'angolo, la sua ammirazione per il genio criminale, l'indifferenza per l'impunità dei colpevoli, a creare una variante singolare nel genere, non solo dell'epoca. È un peccato che l'edizione, meritevole per il recupero di un'autrice tanto popolare un tempo quanto difficile oggi da coltivare, non aiuti i lettori a indagare il finale insidioso del quarto racconto, dove l'assassino rivela una peculiare e sconcertante abilità: fare nodi complicati e complessi come quelli dei marinai. ne, convinto che l'assassino sia uno psicopatico che prova piacere nel torturare e uccidere e che presto colpirà ancora, Sansi ne segue le tracce attraverso un paese tormentato e pieno di contraddizioni, in cui le tracce dell'antico splendore coloniale si mescolano alla miseria e alla corruzione dilaganti. Sansi si troverà così sempre più coinvolto in un'intricata e appassionante vicenda, che affonda le sue radici al tempo della colonizzazione inglese e che inevitabilmente mette in gioco i sentimenti ambivalenti legati alla sua identità di mezzo sangue. Paola Carmagnani Il delitto è servito ovvero quando il cibo si tinge di giallo, a cura di Francesco D'Adamo e Rosaria Guacci, Gambero Rosso, Roma 1996, pp. 163, Lit 18.000. Gustosissima l'operazione del Gambero Rosso che, dopo aver chiesto a quindici giallisti italiani un racconto sul cibo da pubblicare su altrettanti numeri della rivista, li raccoglie in un volume destinato, si direbbe, a celebrare le nozze del giallo e della cucina. Se fosse un menù, non potrebbe che essere quello di un pranzo di nozze, tradizionale, di quelli che ancora usano nelle campagne, sovrabbondante, con indigestione assicurata per qualsiasi stomaco cittadino, avvezzo più ai minuti contati della pausa pranzo che ai piaceri gastronomici. Come in ogni pranzo nuziale che si rispetti, il buongustaio dovrà dosare le fatiche digestive, scegliendo magari di saltare alcune portate, per tornarci in un secondo momento se ha avuto l'accortezza di prelevarne qualche assaggio. Si tratta in realtà di una solida carta di piatti unici - a parte qualche intermezzo che funge da sorbetto: il lievissimo Assolutamente indecifrabile di Pino Farinotti, Il paradiso della birra di Lorenzo Longaretti, che sbriga velocemente la fine di questo pasto con delitti. Se lo stomaco rilutta a passare dai sapori messicani di Pino Cacucci, dove peraltro i 119 ingredienti legano alla perfezione, allo spasimo di tensione domestica che accompagna Trippa, pianura, tenebre di Francesco D'Adamo, servito All'ultimo minuto da Fiorella Cagnoni (se fosse un vino, si dovrebbe dire di questo racconto che è di ottima struttura), il lettore avrà sempre la possibilità di tracciarsi un personale itinerario tra le truci atmosfere noir di Davide Ferrario (Pollo fritto), la torinesità claustrofobia di Elisabetta Chicco (Storia d'amore), l'urbana ipocrisia di Marcello Fois (Qualcosa di caldo) o la baldanza di Stefania Giannotti in Blonde soupe, nonostante un retrogusto politico che sa vagamente di tappo. In definitiva, il Gambero Rosso ci consegna un prodotto eccellente in quanto a rapporto qualità-prezzo: è difficile trovare in così poche pagine una varietà di stili tale da consentire un piacere che non può non protrarsi nei tempo. Sylvie Accornero