OTTOBRE 1996 N. 9, PAG. 5 H mio primo soggiorno negli Stati Uniti risale alla fine degli anni cinquanta, quando da noi il congiuntivo era ancora di moda, e io uscivo da un ottimo liceo di provincia (il "Ba-gatta", di Desenzano del Garda). Benché provinciale, non ero del tutto ingenuo, e arrivando in California mi aspettavo un robusto trauma culturale. Questo ci fu, ma non perché nessuno, là, avesse mai sentito nominare quei minori latini e greci su cui tanto ci eravamo affaticati al liceo (questo l'avevo previsto, con qualche sicumera: pochi anni dopo, a Berkeley, avrei scoperto un Latin Club con latinisti migliori del liceale medio). Ciò che non mi aspettavo era che nessuno, ma proprio nessuno nella mia high school conoscesse la sacra trimurti della nostra letteratura ottocentesca, Foscolo-Manzoni-Leopardi, la cui poesia, lungo tutto il liceo, ci era stata crocianamente illustrata come di valore universale. In compenso tutti (si fa per dire) conoscevano l'altra trimurti ottocentesca, Bellini-Donizetti-Verdi, che il liceo aveva invece ignorato perché appartenente a un genere doppiamente inferiore (la musica, e addirittura il melodramma, pfui). D'altro canto la high school californiana, il cui livello culturale medio era francamente inconsistente, offriva agli ho-nors students dei corsi di matematica e fisica che a me, prodotto della cultura classica, sembravano avanzatissimi e comunque inawicinabili. Sull'altro fronte, ancora oggi Steven Lukes, uno dei maggiori pensatori politici contemporanei, che da anni vive in Italia dove i suoi figli frequentano il liceo, considera una delle bizzarrie di questo paese sprecone il fatto che da noi la scuola pubblica (il liceo appunto) fornisca gratuitamente quella cultura di élite che in Gran Bretagna solo poche scuole private (le inevitabili public schools) forniscono a caro prezzo. Chiunque conosca di prima mano qualche sistema scolastico straniero è in grado di arricchire que- Licei e liceali sta casistica, aggiungendo aneddoti prò o contro il liceo classico. Ma così non si va molto lontano. Neppure mi convince del tutto la tesi di Beniamino Placido (e lo dico con la coscienza tranquilla di un placi-diano inossidabile) che, in sostanza, accusa il liceo di insegnare cose inutili perché, pochi anni dopo la maturità nessuno è più in grado di decifrare una lapide in latino, per non dire del greco. Certo le lingue non usate si dimenticano: ma lo stesso vale per qualunque materia. Io ho dimenticato tutto quello che avevo imparato di matematica, fisica e chimica (appresi, lo ammetto, peggio del latino e greco). Lasciamo allora da parte gli aneddoti, e guardiamo al liceo nel suo insieme: mi sembra che i principali punti a suo favore siano almeno tre. Innanzitutto almeno negli intenti, e quando funziona, il liceo propone un approccio complessivo e sistematico allo studio della nostra cultura, con i continui, reciproci rimandi fra storia, filosofia, letteratura, storia dell'arte (troppo poca, è vero, quest'ultima). Ciò gli consente (e siamo al secondo punto) di insegnare una logica e un metodo di studio svincolati da contenuti specifici, utilizzabili in campi disparati, e in quella che oggi si chiame- rebbe la formazione permanente. Infine esso propone, in maniera più o meno esplicita, un'idea di eccellenza nella formazione individuale o almeno nella conduzione degli studi. Si tratta, è chiaro, di punti discutibili. Questa cultura integrata è molto parziale: ignora la musica (per non dire del cinema) lascia poco spazio all'arte figurativa, considera la cultura scientifica come qualcosa di inferiore. Quanto al metodo, forse si potrebbero ottenere gli stessi risultati studiando argomenti e materie più vicine alla realtà contemporanea, per esempio le lingue e letterature moderne. Infine, questa idea di ec- Le immagini di questo numero Pisanello, a cura di Paola Marini, Electa, Milano 1996,200 ili. in b./n., 127 a due colori, 40 a quattro colori, pp. 540, Lit 80.000. he celebrazioni del sesto centenario della nascita sono occasione, dopo la grande esposizione del Louvre, per la mostra di Verona (8 settembre - 8 dicembre 1996) e per cataloghi che raccolgono studi articolati e organici sul pittore. Le immagini documentano la felice rivoluzione compiuta dall'artista agli inizi del Quattrocento, l'armonioso compromesso tra lo stile gotico internazionale e l'inizio della rappresentazione di una realtà già definita nello spazio, mobile e vivente. Al descrittivismo secco ed emblematico della natura - che è di Altichiero, e ancora di Michelino da Besozzo e di Stefano da Verona - Pisanello sostituisce gli animali vivi e naturali, le colombe e i cani dalla grazia quasi selvaggia. All'eleganza lineare degli angeli-uc- ì; % celli dei suoi predecessori, le figure umane idealizzate, dall'incarnato di seta, dalle capigliature minuziose. Finezza tecnica, incanto e vibrante animazione, e anche dettagli "di moda" - come gli abiti di foggia orientale -: un meraviglioso repertorio di figure di straordinaria eleganza popola le opere di Pisanello, e accresce lo splendore del mondo. cellenza non rischia la sterilità, non produce retori provinciali? Sarebbe assurdo negare la fondatezza di queste e di critiche analoghe: ciononostante credo che il liceo presenti ancora la migliore (o comunque la meno peggiore) raffigurazione del nostro patrimonio culturale compatibile con le risorse disponibili di persone (insegnanti) e quadri concettuali (questa è una ragione per cui, fra l'altro, non avrebbe senso esportarlo). In un momento in cui il problema dell'identità nazionale è di nuovo, prepotentemente, al centro dell'attenzione, nessuno dovrebbe pensare a cuor leggero di scaricare un tale patrimonio per sostituirlo: e con che cosa? Ciò non significa propugnare l'immobilismo e l'intangibilità di una scuola concepita settantanni fa: significa però ritenere che le tante modifiche ormai impellenti possano essere introdotte senza snaturare il liceo nel suo complesso, o addirittura abolirlo. I problemi maggiori (su ciò concordo con Angelo Panebianco) non sono tanto nel liceo, quanto nel resto del sistema scolastico, e soprattutto nella quasi totale assenza di una scuola professionale. Questa è una delle peggiori lacune del nostro sistema, importante concausa del fatto che l'Italia si trova al quartultimo posto in Europa per l'istruzione secondaria (solo il 28 per cento della popolazione fra i 25 e i 64 anni consegue un titolo post-elementare: fanno meglio di noi anche Grecia e Irlanda, solo Spagna, Portogallo e Turchia fanno peggio. Non si lamenti poi, la scarsa tiratura di libri e giornali...). Riflettere seriamente su questo aspetto conduce all'ultimo punto, quello dell'eccellenza: la malintesa concezione di egualitarismo che ha presieduto alle riforme degli ultimi trent'anni ha portato ad abbassare il livello delle scuole eccellenti, per adeguarle alle altre. Sarebbe opportuno invertire la tendenza, e innalzare quelle mediocri. Franco Ferraresi Lettere Riceviamo da Bruno Pischedda questa lettera con la quale interviene nel dibattito che si è aperto sul suo libro Com'è grande la città, recensito da Mario Barenghi sullo scorso numero dell'Indice". Modernità. Vedo che le reazioni suscitate un po' disordinatamente da Com'è grande la città tendono sempre più a presentarsi come ennesima baruffa tra apocalittici e integrati. Non era questa l'intenzione quando lo scrivevo. Perché non mi pare simile il contesto. Negli anni sessanta, quel dibattito testimoniava di una forte spinta modernista, anche in senso letterario. Attraverso di esso, l'Italia si metteva al passo con la civiltà letteraria europea e statunisten-se. E mentre il boom economico travolgeva gli ultimi residui di una plurisecolare tradizione contadina, lasciava anche spazio a ristretti gruppi di intellettuali umanisti per rifunzio-nalizzarsi all'interno di una ormai compiuta civiltà mediale. Una terza via, collocata al centro della modernità culturale, tra avanguardismi e letteratura di consumo, sembrava possibile e auspicabile. Ora quella spinta e quell'entusia- mo appaiono per lo meno offuscati. Gli integrati di ieri si sono fatti legione: nel senso che l'universo multimediale ha ormai creato autonomamente un suo ceto allargato, quasi del tutto affrancato da quei percorsi umanisti di formazione che ancora negli anni cinquanta e inizi sessanta venivano richiesti. Dall'altra parte, mentre la modernità occidentale sconfiggeva storicamente l'antitesi socialista-statalista, e portava i processi di massificazione culturale su scala globale, nel ceto umanista si è venuto accentuando un senso di smarrimento e una crisi di ruolo che se non assume i toni dell'apocalisse, certo mostra sempre più spesso il volto della deprecazione risentita. Tra i due litiganti, insomma, il terzo non ha goduto. Lo spazio per posizioni analitiche, reattive ma non pregiudiziali, si è anzi ridotto. Su un terreno strettamente letterario, questo mi viene da dire quando leggo testi recenti come quelli di Sangui-neti, Ferroni, Leonetti-Volponi (Per una critica dell'avanguardia, Dopo la fine, Il leone e la volpe). Mi viene cioè da pensare che una parte non esigua degli umanisti di sinistra ha creato una sorta di alleanza trasversale. In forza della quale gli avversari di un tempo, neo-classicisti, neo-avanguardisti, neo-sperimen- tali, hanno raggiunto una finale intesa sulla morte della letteratura. Né le cose mi sembrano molto diverse su un piano più generale: diciamo di antropologia culturale delle moderne società di massa. Nei mesi in cui scrivevo Com'è grande la città, un testo mi aveva particolarmente interessato: Destra e sinistra, di Bobbio. Qui, difendendo la persistenza e la validità di quella dicotomia politico-ideologica, si scandivano con grande efficacia alcuni concetti che ora posso solo schematizzare: è di sinistra chi tende all'uguaglianza, è di destra chi lavora per le distinzioni, le gerarchie, le differenze. Poi, nei giorni del trionfo berlusconiano, nel '94, presumibilmente sconfortato, Bobbio si lasciò sfuggire una frase glaciale: era prevedibile, disse, "perché la civiltà televisiva è una civiltà naturaliter di destra". Ma perché, mi domando, l'uguaglianza per l'intellettuale di sinistra è un valore quando è uguaglianza politica, giuridica, tendenzialmente anche economica, ma quando diviene uguaglianza culturale è oggetto solo di aborrimento e ripulsa sdegnata? Dicendo uguaglianza culturale, intendo compartecipazione a un unico grande contenitore: la modernità di massa, appunto, che ha riassorbito in un rapido decorso storico le culture emarginate e subalterne. Un contenitore estremamente segmentato e polifunzionale, ma unico: in cui tutti siamo immersi, senza più rapporti di sottomissione e di minorità istituzionalizzata. Tanto il grande intellettuale che prima o poi butta distrattamente l'occhio sul "Costanzo show", quanto l'impiegato deH'Ibm che nelle pause di lavoro legge Le vite parallele di Plutarco in edizione Adelphi. È evidente che in questa condizione di condivisione culturale si deve vivere da svegli: la responsabilità nelle scelte, per i soggetti singoli o collettivi, aumentano anziché diminuire. E ben venga una critica della cultura che sappia pensare in grande, come auspica Berardinelli ("Corriere della sera", 7-9-96). Ad alcuni patti ben chiari, però: il laicismo, il democratismo di massa. Da quello che leggo, purtroppo, mi pare che la pratica intellettuale quotidiana sia un'altra: dalla critica della cultura, si passa sempre più spesso, e senza nemmeno avvertirne la banalizzazione teorica, alla critica di costume. Che è l'ambito in cui davvero tutte le vacche sono nere: in cui gli anatemi di Fofi entrano in sintonia con quelli di Ceronetti, e le querele di Citati o Zolla con quelle di Consolo. Non credo, con questo, di confondere valori intellettuali e appartenenze ideologiche, come paventa Massimo Onofri ("L'Unità", 18-9-96). La mia domanda è esattamente invertita, e in sintesi suona così: ma perché intellettuali umanisti di fede democratica, a prescindere da metodi e specificità individuali, devono convergere nel loro lavoro quotidiano su posizioni che sono appannaggio tradizionale, storico, della destra antimoderna, aristocratica, conservatrice? Come può essere che sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci vi sia chi, come Sandra Petrignani, scrive un articolo intitolato in tutto candore Un romanzo non deve essere democratico (13-9-96)? Non è un processo ad alcun nemico del popolo, quello che auspico. Se mai è un bisogno di assi di riferimento ben esplicitati, e possibilmente coerenti, nel momento del ragionamento. Perché, attenzione, la modernità è tutto ciò che abbiamo. E non gode nemmeno buona salute. Se la critica alla cultura di massa viene espressa nei termini di un neo-elitarismo umanistico lo si dica ben chiaro, e mi si spieghi cosa ci dovrebbe essere di progressivo. Bruno Pischedda