P- Liti N. 9, PAG. 31 mespeterì Umberto Terracini? Forse, per qualcuno. Leo Valiani? Sicuramente, per altri. Augusto Segre? Senza dubbio, per chi aveva una maggiore inclinazione religiosa. Vittorio Foa, con crescente intensità, lo è diventato soprattutto dopo la pubblicazione delle memorie (ma lo era già, credo senza margine d'errore, per chi avesse riflettuto sul titolo di una sua raccolta di scritti, Gerusalemme rimandata). A Trieste l'attributo di Halo-mespeter si adatta a Svevo, non a Saba, che lo avrebbe considerato un insulto (giudicava "orribile" soltanto il suono della parola Kibbntz*.). Non si adatta al "loico" Giorgio Voghera, forse più al padre Guido, le cui simpatie socialiste ci sono note attraverso tante testimonianze. Chi fu sicuramente uno Halomespeter, per lo meno negli ultimi anni della sua vita, è Bruno Pincherle, "lo stendhalesco dottor Pincherle" che di Saba fu amico e cliente della libreria. Non estraneo all'universo della nevrosi, Pincherle era immune da quell'autolesionismo ebraico che invece affliggeva Saba. Il suo illuminismo era una garanzia per affrontare il problema dell'Io, senza autoflagellazioni, anzi con orgoglio, quando le leggi del '38, o un rozzo consigliere comunale democristiano negli anni cinquanta, lo costringevano a ricordarsi da dove veniva. Su Pincherle esce adesso questa agile monografia di Miriam Coen, già autrice di studi sul rapporto Sa-ba-Pincherle. Medico pediatra, ultimo discendente di quella genia di medici socialisti cari a Turati e a Treves, Pincherle, agnosdco almeno quanto Foa, incarna bene, soprattutto negli ultimi anni della sua esistenza (morì nel 1968 a Trieste, dove era nato nel 1903) il modello del socialismo vieux style. A bordo della sua Topolino, o nel cortile della sua casetta piena di cimeli stendhaliani, rigoroso ma non rigido nelle proprie idee socialiste (dalla sinistra del Psi, come Foa, esulò nel Psiup), vicino davvero agli umili quando soffrivano (soprattutto i piccini, da lui curati con i disegni più che con le punture), Pincherle rivive in queste pagine di Miriam Coen, dove si dà conto delle sue molteplici attività: lo studioso di storia della medicina, il bibliofilo (si veda la postuma raccolta Piazzetta Stendhal 1 Trieste, All'insegna del pesce d'oro, 1968), l'antifascista, il consigliere comunale che per "il semplice fatto di esistere suscitava irritazione, scandalo" (Tullio Ke-zich). "Un dottore un po' matto", amava definirsi nei velenosi distici che adornano il suo contributo personalissimo all'arte tipicamente antifascista delle caricature e dei pupazzetti "alla maniera" di Ernesto Rossi, di cui il volume della Coen offre un'ampia campionatura. OTTOBRE 1996 Idei libri delmesei 31 le dottrine religiose e filosofiche da essi abbracciate; tutti e tre, infatti, si occuparono di critica testuale non solo per amore dello studio, ma "per quello che essi vedevano come un più elevato fine ideologico"; come stupirsi, allora, se tutti e tre, proprio a causa del loro impegno militante, abbiano dato "mostra di uno spirito critico molto meno acuto allorché passa- La guerra del vero e del falso di Gian Giacomo Fissore Anthony Grafton, Falsari e critici. Creatività e finzione nella tradizione letteraria occidentale, Einaudi, Torino 1996, ed. orig. 1990, trad. daWinglese di Sergio Minucci, pp. 142, 11 tavv. nel testo, Lit 28.000. Il breve e piacevole saggio dell'autorevole studioso americano, noto per i suoi studi sul Rinascimento, affronta in modo brillante il tema della falsificazione nella tradizione letteraria occidentale, ponendosi da un punto di vista di interessante novità. "Da più di duemila e cinquecento anni l'arte della falsificazione diverte gli osservatori neutrali, irrita le vittime umiliate, continua a prosperare in quanto genere letterario e, cosa sommamente strana, stimola importanti innovazioni negli stessi procedimenti tecnici dei filologi". In queste parole dell'introduzione è la chiave di lettura di un'arte che (malgrado la connotazione negativa, certo meglio resa, nel sottotitolo, dall'originale "du-plicity" che non dalla "finzione" della traduzione italiana) trova una sua collocazione nella sfera dell'attività letteraria, in stretta e positiva interazione con l'evoluzione della filologia. Il quadro offertoci va dall'età greco-alessandrina ("il primo, vero periodo d'oro tanto dei falsari quanto dei critici") ai primi decenni del nostro secolo, ed è ricchissimo di episodi gustosi e di personaggi sorprendenti: basterà forse citare un Erasmo da Rotterdam che cede - anche lui! - alla tentazione del falso, a dispetto delle sue riconosciute qualità di sottile ed eticamente spietato indagatore delle falsificazioni altrui. Ma l'esempio di Erasmo non si deve leggere come una piccante eccezione: esso in realtà si pone, proprio come i molti altri personaggi presi in esame, su una linea di continuità che dà conto, ben oltre forse le stesse intenzioni di Grafton, della fondamentale duplicità insita negli intellettuali che si dedicarono alla critica testuale, dall'antichità a oggi. Perché tutti gli esempi o quasi, proposti nel saggio riguardano uomini calatisi pienamente entro i problemi dell'analisi filologica, di cui elaborano regole e tecniche valide tanto per decrittare i falsi quanto per costruirne di nuovi. Così egli, da un lato, può scrivere di uno dei più noti falsificatori di fonti medievali, il frate domenicano Annio o Nanni da Viterbo (1432-1502), che "creò non solo testi falsi ma anche regole generali e verosimili per la valutazione stessa delle opere, regole che a loro volta funsero da punto di riferimento per tutta la successiva riflessione sulla valutazione delle fonti", tanto da farlo definire "un falsario [che] assurge al ruolo del primo teorico davvero moderno del metodo critico di lettura degli storici". Dall'altro, nel trattare in parallelo l'opera di tre grandi studiosi e decrittatori di falsi: Porfirio (III secolo d.C.), Isaac Casaubon (1559-1614), Richard Reitzenstein (1861-1931), a buon diritto può osservare che essi impiegarono tutte le loro grandi doti critiche anche, se non soprattutto, per affermare l'autorità dei- di "funzioni" sociali o intellettuali, bensì a mescolanze e a intrecci che caratterizzano le attività di studio e di analisi delle fonti, nell'arco della storia millenaria dell'occidente: potremmo, dunque, dire che è all'interno delle scienze filologiche che opera, come corpo organico e non estraneo, il filone del falso. E questo è certamente un risultato stimolante e in parte provocatorio, un'occasione di riflessioni utili non solo in ambito filologico, ma anche in quello più ampio delle ricerche storiografiche alle prese con la valutazione e l'uso delle fonti. ro, e furono numerosi anche in Italia, che sognarono il riscatto dei diseredati, vagheggiando un'emancipazione che non fosse esclusivamente ebraica. Halomespeter è l'antagonista del biblico "signore dei sogni" (baal halomot), che incuriosì Freud. Dunque è da escludersi ogni attinenza con la psicoanalitica interpretazione dei sogni: "Peter il sognatore" non è il terapeuta. È, se mai, l'utopista che non si rassegna alle sconfitte della politica, archetipo di molti socialisti, battaglieri in giovinezza, i quali, giunti al ter- rono a occuparsi di testi conformi alle loro idee e desideri", sostenendone l'autenticità contro l'opposto e motivato parere di altri critici? Alla fine del libro, dopo una successione incalzante di personaggi di scintillante e proterva creatività, e di avvincenti battaglie di ingegni per il trionfo del vero sul falso o viceversa, per il lettore incuriosito la linea di demarcazione tra critici e falsari appare perlomeno ambigua: i falsari non furono programmaticamente, e l'autore lo ha ampiamente dimostrato, solo dei falsari: essi ci appaiono, nella quasi totalità, degli studiosi, dei filologi che fanno, più o meno occasionalmente, anche i falsari; e la reciprocità delle interferenze "disciplinari" (non più, allora, "cosa sommamente strana", come afferma Grafton nell'introduzione) non appare dovuta a una contrapposizione netta Un dottore un po' matto di Alberto Cavaglion Miriam Coen, Bruno Pincherle, Studio Tesi, Pordenone 1996, pp. 125, Lit 10.000. Halomespeter è un'espressione ebraico-tedesca in voga alla fine del secolo scorso. Al comunissimo nome Peter, non per dileggio ma come affettuoso appellativo si soleva aggiungere l'attributo di "Ha-lomes", che in ebraico sta a indicare "sognatore". Più dell'inflazionato "sognatore del ghetto", più dello Schlemiel, Halomespeter meriterebbe una riabilitazione perché sembra ritagliato apposta per colo- mine della loro vita, amavano contemplare il passato con la fantasia del disincanto. Anche a prescindere dalle altre realtà europee, solo a voler rimanere entro i confini nazionali, si sarebbero potuti definire così uomini come Claudio Treves, Emanuele Modigliani, Riccardo Bauer, Leone Ginzburg? E chi a Trieste? Angelo Vivante, Eugenio Colorni? Per la generazione precedente alla nostra c'è l'imbarazzo della scelta. Coloro che sopravvissero alle persecuzioni razziali e arrivarono a raccontarci la loro giovinezza, erano un po' tutti Halomespeter. Per noi che invece siamo nati negli anni del cosiddetto boom, fra crisi di Suez e guerra dei Sei giorni, cresciuti fra speranze dei primi anni Sessanta, albori del Sessantotto e successive delusioni, chi onestamente possiamo dire che sia stato, veramente, in Italia, il nostro Halo-