OTTOBRE 1996 Cr N. 9, PAG. 50 La tesi di Dionne, un celebre giornalista del quotidiano "Washington Post" è che "gli Stati Uniti sono alla vigilia di una seconda era progressista. Gli approcci alla politica che gli americani probabilmente giudicheranno importanti negli anni a venire hanno le loro radici nelle aspirazioni di Theodo-re e Franklin Roosevelt, Woodrow Wilson e Harry Truman, non nelle idee di William McKinley e Calvin Coolidge". Il titolo del libro "Sembrano morti" si riferisce ai democratici, aggrappati alla Casa Bianca mentre i repubblicani controllano il Senato, la Camera dei rappresentanti, la Corte Suprema e tre quarti delle amministrazioni locali. Fatta questa premessa, Dionne riprende le tesi del suo libro di quattro anni fa Why Americani Hate Politics, in sostanza l'idea che gli americani sono stati costretti negli ultimi anni a una serie di "false scelte" tra governo compassionevole ma spendaccione proposto dai libera Is e governo assente o crudele voluto dai conservatori. "Gli elettori sono arrabbiati con il governo non solo per ciò che ha fatto ma anche per ciò che ha mancato di fare. Più che una rivolta contro il governo onnipotente c'è una ribellione contro il cattivo governo, un governo inefficace nell'affrontare le crisi politiche, economiche e morali che hanno scosso il paese". Partono da qui le 352 pagine in cui Dionne spiega che proprio i recenti successi repubblicani costringeranno i progressisti a modernizzare il proprio programma, a prendere in considerazione nuove soluzioni, a costruire nuove coalizioni elettorali. In quest'opera Bill Clinton è visto come un precursore, una specie di Achille Occhetto che ha avuto il coraggio di rompere con il passato ma non è riuscito a godere i frutti della svolta: "La tragedia del primo mandato del presidente Clinton, specialmente i suoi primi due anni, è che ha affrontato molte delle questioni importanti senza produrre i risultati in cui sperava o le alleanze politiche che potessero portare avanti un programma a lungo termine di ricostruzione sociale". I "nuovi democratici" in cui spera Dionne saranno guidati da un Clinton rinnovato e imbaldanzito dalla eventuale vittoria alle elezioni del prossimo novembre, oppure da un altro leader che faccia tesoro della sua esperienza se Clinton sarà sconfitto dal repubblicano Bob Dole. La campagna elettorale del 1994 Il letargo dell'orso di Fabrizio Tonello E. J. Dionne jr., They only look Dead Simon &Schuster, New York 1996, pp. 352 (che ha portato i repubblicani a controllare la Camera per la prima volta dal 1954) e quella di quest'anno sarebbero quindi solo le manifestazioni odierne di un conflitto tra "due serie tradizioni politiche" esattamente centenarie: i repubblicani che vogliono tornare al "capitalismo senza regole della fine del XIX secolo" e i democratici non solo di Johnson e Franklin Roosevelt ma anche di Theodore Roosevelt che agli albori del secolo si batté contro i trust. Fin qui la tesi di Dionne, che merita attenzione, ma anche alcuni rilievi che proverò a sintetizzare come segue: 1. E vero che gli americani sono insoddisfatti del loro sistema politico e che sono convinti che, nonostante l'ammirazione degli altri paesi, esso non funzioni. Una percentuale che oscilla attorno al 60 per cento degli americani à convinta che chi controlla il governo federale siano in realtà i lobbisti. Il numero di cittadini che ritengono di essere rappresentati dal presidente che stanno per eleggere è minimo: nel 1994 soltanto il 6 per cento degli americani riteneva che il presidente fosse davvero l'uomo che prende le decisioni. La percentuale di americani che ritengono di poter avere fiducia nel governo per fare ciò che è giusto è passata da poco meno dell'80 per cento nel 1964 al 19 per cento del 1994. Il presidenzialismo che qualcuno vorrebbe introdurre anche in Italia si è dimostrato un meccanismo estremamente efficiente per ridurre le opzioni democratiche e allontanare i cittadini dalla politica: malgrado gli sforzi dei consulenti politici per farli sembrare attraenti, Bill Clinton e Bob Dole sono candidati che piacciono a una piccola minoranza di americani. Se non entrerà in lizza un indipendente (Ross Perot o altri) è facile prevedere che meno del 50 per cento degli elettori si recherà alle urne. Non è affatto detto, tuttavia, che questa crisi del sistema politico produca un rinnovamento delle idee e dei movimenti progressisti: al contrario, la ricetta di Clinton consiste in un'abile navigazione a vista, in tatticismi piuttosto che nell'aperta rivendicazione della tradizione storica della sinistra americana. Clinton non perde occasione per distanziarsi da quella tradizione e proclamarsi un "nuovo" democra- tico, un democratico "diverso". 2. Questo ci porta alla questione di come Clinton fu eletto nel 1992 e di come potrebbe essere rieletto quest'anno. Quattro anni fa vinse precisamente nello stesso modo in cui Romano Prodi ha vinto il 21 aprile scorso: grazie alla divisione della destra. Le analogie sono profonde ed è strano che nella discussione post-elettorale italiana l'esperienza difficile e sofferta dell'amministrazione Clinton non sia mai stata nominata. Prodi ha vinto con il 43 per cento dei voti (come Clinton) contro un candidato che ha ricevuto il 41 per cento (Bush ebbe il 37,4 per cento) mentre una parte sostanziale degli elettori conservatori si è diretta verso un partito "estremista di centro" come la Lega (11 per cento) che ha giocato da noi il ruolo dell'indipendente Ross Perot (19 per cento). La divisione della destra è stata determinante per la vittoria dell'Ulivo; la maggioranza politica maschera tuttavia una condizione di minoranza nella società. E opinione di Prodi e Veltroni, immagino, che un governo efficiente e mo-demizzatore, che faccia le riforme attese dai cittadini, sia in grado di "svuotare" il consenso della Lega e, in parte, di Berlusconi. Alla prova dei fatti il governo dovrebbe mostrarsi "forte e compassionevole", cioè riuscire nella stessa strategia in cui Clinton (che voleva attirare il 19 per cento di Perot) è invece fallito. Dionne non lo dice esplicitamente, ma fa capire che Clinton è mancato come leader: un politico abile e astuto, ma non un leader carismatico. Questa spiegazione, tuttavia, non è sufficiente: la paralisi dei progressisti americani viene da una questione più profonda e cioè dal non aver riflettuto a fondo sulla violenza delle trasformazioni in corso nell'economia. Questo è un problema che si porrà anche da noi. 3. Il problema dei governi di centrosinistra è che si trovano di fronte a una fase in cui l'economia (con l'aiuto delle scelte politiche compiute negli ultimi vent'anni) polarizza la società a un ritmo non sostenibile dalla normale dialettica democratica. Negli Stati Uniti l'indice di concentrazione della ricchezza è cresciuto tra il 1983 e il 1989 a un ritmo "senza precedenti se non per il periodo tra il 1922 e il 1929" che condusse alla Grande Depressione degli anni trenta, come rileva Edward Wolff (Top Heavy: A Study of the Increasing Inequality of Wealth in America, Twentieth Century Fund Press, New York 1955). L'intero importo della crescita economica degli ultimi quindici anni è stato inghiottito dal 5 per cento più ricco della popolazione. Questa polarizzazione crea un'ansia inestinguibile nella classe media e nella classe operaia tradizionale, sempre esposte al pericolo di vedere ridotto il proprio stipendio o eliminato il, posto di lavoro. Crea, soprattutto, un'intera generazione di giovani con un inserimento puramente marginale o saltuario nell'economia, privi di istruzione e di qualificazione professionale sufficiente per entrare nell'élite. I progressisti vorrebbero usare il governo per migliorare le sorti di quell'80 per cento della società che non ha tratto benefici dalla crescita economica, ma rispetto agli inizi del Novecento si trovano di fronte a due ostacoli estremamente ardui. Il primo è che le leve tradizionali di governo sono state gravemente indebolite dai trasferimenti di sovranità verso istituzioni internazionali (l'Unione Europea nel caso dell'Italia) o verso i mercati finanziari. Qualsiasi New Deal basato su alti deficit di bilancio, per esempio, sarebbe impossibile oggi tanto per Clinton quanto per Prodi. Il secondo è che l'era progressista iniziata con la presidenza di Theodore Roosevelt arrivò dopo un decennio di intensa mobilitazione di massa da parte di operai e agricoltori americani, che nel 1896 arrivarono a un capello dalla conquista della presidenza con il loro candidato William Bryant, sconfitto dal repubblicano William McKinley. Oggi, nessuna delle due condizioni che favorirono l'emergere dei progressisti un secolo fa è presente: i movimenti sociali sono scomparsi, o schierati dalla parte dei conservatori; gli ingranaggi della macchina governativa sono seriamente arrugginiti. Se Clinton e Prodi hanno delle ricette per farla funzionare nel senso auspicato da Dionne dovranno tirarle fuori in fretta. Contese e abbracci di Bruno Bongiovanni AdrÉ Fontaine, Après eux le Déluge, Fayard, Paris 1995, pp. 658 André Fontaine, già responsabile dei servizi esteri, redattore capo e infine autorevole direttore (fino al 1991) di "Le Monde", è anche noto al vasto pubblico che si interessa alle vicende delle relazioni internazionali per una ormai classica Storia della guerra fredda, pubblicata in due volumi nel 1965-66 e tradotta in italiano nel 1969 dal Saggiatore. In sintonia con l'altrettanto celebre Storia della guerra fredda di Fleming (Feltrinelli, 1961), Fontaine, in quel lavoro di trent'anni fa, fece iniziare l'intero processo nel 1917. A partire dall'anno della rivoluzione bolscevica, pur non essendo indulgente, a differenza del "revisionista" Fleming, nei confronti dell'Urss, Fontaine descrisse poi il costituirsi dell'inevitabile frattura che aveya caratterizzato e che continuava a caratterizzare le relazioni internazionali. Il 1917 si rivelava cioè necessario per afferrare un fenomeno insorto nel 1946 e definito "guerra fredda" nel 1947 da Lippmann, allora columnist au- torevole del "New York Herald Tribune". Non si aveva però ancora a che fare con il dibattito sulla "guerra civile europea" e poi "mondiale", surriscaldato nella seconda metà degli anni ottanta da Ernst Nolte, anch'egli "revisionista" e di tut-t'altro orientamento, a dimostrazione della flessibilità polisemantica e ormai ambigua dello stesso concetto di "revisionismo". Andrebbe del resto ribadito che la "guerra civile europea" era stata una griglia concettuale elaborata in Germania negli anni venti per descrivere, ciò che Nolte si è guardato bene dal segnalare, l'arco storico iniziato con 0 1914 (la causa) e non con il 1917 (l'effetto). Fontaine, ad ogni buon conto, allora e in seguito, con un gusto cartesiano per la clarté, movimentato di tanto in tanto da qualche brillante paradosso (com'è caratteri- stica dei giornalisti di gran razza), ha lavorato sulla storia dei fatti e dei rapporti tra gli Stati senza piegarsi ai drogati filosofemi sui nessi causali con cui, corteggiatissimo dai media assetati di sensazioni forti, lo stesso Nolte ha poi avviluppato il cosiddetto Historiker-streit, owerossia la tempestosa polemica sul passato che non passa. Nel 1981 fu la volta di un altro libro di Fontaine, Un seul lit pour deux réves: histoire de la détente, dove si affrontavano le insormontabili difficoltà incontrate dalla strategia della coesistenza pacifica (termine proprio dell'"ideologico" punto di vista sovietico) e della dissuasione (termine proprio del "realistico" punto di vista statunitense). Con tale strategia le diplomazie avevano infatti affannosamente inseguito e talora provvisoriamente domato gli sviluppi tor- tuosi di quella contrapposizione tra le due superpotenze che ha fatto degli anni 1945-89 il più lungo dopoguerra della storia. Si arriva ora, con il presente volume, alla fase finale e conclusiva dell'intero processo, una fase che è in grado di rifornire di senso una buona parte degli eventi del XX secolo, come si conviene allo scioglimento di un dramma. Concerne infatti, quest'ultimo volume, il periodo che lega il Natale del 1979 e l'invasione dell'Afghanistan all'estate del 1995 e all'assestarsi sanguinoso del precario status quo che ha bloccato e "cronicizzato" la tragedia dell'ex Jugoslavia. Tale periodo, pur fatto iniziare con il 1973 e quindi con lo choc petrolifero succeduto alla quarta guerra arabo-israeliana, è stato da Hobsbawm definito Landslide - ►