Idei libri del mese| OTTOBRE 1996 Nel cuore dell'ideologia di Romano Luperini Francesco Leonetti, Piedi in cerca di cibo, Lupetti-Piero Manni, Milano-Lecce 1995, pp. 192, Lit 26.000. Se si vivesse in un paese dove esistono ancora la letteratura e un dibattito sulla letteratura, un nuovo romanzo di Francesco Leonetti non potrebbe passare inosservato. A prescindere dal merito del libro, è la storia stessa dell'autore, con la sua costante presenza nei punti-chiave delle vicende letterarie dell'ultimo quarantennio, che reclamerebbe almeno attenzione e rispetto per uno scrittore che ha lavorato da protagonista con Pasolini a "Officina", con Vittorini e Calvino al "Menabò", con Volponi e Balestrini ad "Alfabeta" e che critici non certo teneri, e ben diversi fra loro, come Maria Corti e Franco Fortini, hanno considerato fra i maggiori di questo scorcio di secolo. Ma tant'è; in Italia la critica "militante" non esiste più, e di letteratura c'è solo quella che fa rima con spazzatura. Così Leonetti pubblica un romanzo, e nessuno se ne accorge: neppure per dirne male. In un mondo che non ha più futuro perché non riconosce più alcun passato, la pratica dell'oblio funziona come un meccanismo implacabile, infinitamente più efficace della damnatio memoriae degli imperatori romani e dei burocrati staliniani del nostro secolo. Il romanzo è diviso in quattro parti, unite dal monologare e dal dialogare di due fratelli, che abitano a Milano negli anni ottanta. Ho detto "monologare" e "dialogare", perché è la conversazione la vera protagonista del libro, il vero per-sonaggio-chiave. E la stilizzazione della conversazione, in cui traspare un manierismo vittoriniano, è in effetti la cifra del libro. Di personaggi veri, in carne e ossa, invece, qui non c'è traccia. E d'altronde l'autore ha più volte dichiarato una propria poetica dell'antirap-presentatività. I due fratelli, dunque, sono pure voci, o maschere allegoriche. Sono pretesti di una trama astratta, fatta di idee, non di azioni. La prima parte ci porta nella periferia di Milano, fra sbandati, irregolari, "balossi". Il suo tema è la metropoli postmoderna, vista da un'angolatura che può ricordare quella dei centri sociali. La seconda e la terza parte affrontano la questione della mondializzazione (motivo-cardine del recente libro di Leonetti e Volponi, Dialogo della volpe e del leone, uscito da Einaudi nel 1995): avendo ereditato un negozietto, i due fratelli vorrebbero vendere "oggetti originali" e li vanno a cercare nel Meridione d'Italia o in Marocco, ma dovunque trovano la stessa civiltà (o inciviltà) del consumo e dello sperpero, il trionfo dell'oggetto fatto in serie o, in alternativa, del kitsch. Sempre per la questione dell'eredità e del processo per un delitto a essa connesso (con echi, stavolta, gaddiani, dal Pasticciaccio), i due devono recarsi a San Francisco e hanno l'opportunità di visitare i centri di informatica, di cibernetica e di robotizzazione di Standford a San Diego. Il tema di queste pagine è il trionfo dell'immateriale e del virtuale, non denunciato ideologicamente ma mostrato con tecnica onirica e surreale, che finisce per avere effetti altamente realistici. La quarta parte affronta la questione del cibo e la discussione sulle possibili cause dell'anoressia, rapportate non solo alla questione femminile ma a un'idea generale della vita (tutti mangiano tutti per vivere, a ogni gradino dell'esisten- scatto, per qualche dettaglio imprevedibile, raro o grottesco. La pagina è lavorata nei particolari, con gusto divagante e con tendenza espressionista all'eccesso, non finalizzata a una dimostrazione. Leonetti vi si conferma maestro del frammento, dell'ambivalenza fra prosa e poesia (come nei recenti, splendidi, Foglietti pirati). Il romanzo è stretto fra due forze opposte: quella della pagina lavorata espressionisticamente e quella della costruzione ideologica, che risponde a una concezione materialistica e a una teoria critica della società. A volte esse si compene- N. 9, PAG. 11 Voyeurs della storia di Fabio Troncarelli giosuè musca, II nolano e la regina. Giordano Bruno e l'Inghilterra di Elisabetta, prefaz. ai Umberto Eco, Dedalo, Bari 1996, pp. 400, Lit 30.000. Gli storici hanno il privilegio degli angeli. Conoscono i pensieri degli uomini più degli uomini. Ma gli uomini non amano chi rivela i loro pensieri. Per questo, da millenni Scuola di Lidia De Federicis Di scuola si sta parlando molto. E anche di lettura, e di letteratura. E spesso fuori sede. "MicroMega", nel volume di luglio-settem-bre, stampa in copertina il titolo La verità della poesia, là dove leggevamo fino al 1994 Le ragioni della sinistra. L'immaginazione letteraria può utilmente contribuire al dibattito politico? Lo sostiene Martha Nussbaum, cattedra di etica all'Università di Chicago, che ha scritto un saggio, Il giudizio del poeta (apparso ora da Feltrinelli), dove tratta di insegnamento e del ruolo del romanzo nel combattere i pregiudizi. Dice infatti che il non egualitarismo contrasta con la struttura di un genere "il quale sollecita l'interesse e il rispetto per qualsiasi storia su cui diriga l'attenzione del lettore". Qualsiasi storia. La moralità del romanzo ha un cuore democratico. O sovversivo? Chi insegna, sa che il punto è dolente. "Reset", numero 30, presenta un'inchiesta sul declino della lettura; interrogando parecchi autori, da Ammanniti a Voltolini, e in copertina annunciando Coi libri non si fa carriera. Qui le domande s'affollano. Quale scuola, quale nuova società potrà tenere vivo il bisogno di leggere in un paese che continua a scoprirsi analfabeta? E anche: quali sono le carriere auspicabili per chi scrive? Neil'Autodizionario degli scrittori italiani, 1990, raccolto da Felice Piemontese con duecentodieci voci di scrittori i quali presentano se stessi, risulta che non tutti accennano a quel che fanno "per guadagnarsi da vivere" (limpida formulazione, questa, di Francesco Leonetti). E autoritratto dell'artista esclude le notizie ritenute banali. E pochi ammettono d'aver passato anni a scuola, insegnando. In Italia capita di rado che la scuola sia amata. Dà paga scarsa e nessuna aura. Eppure, uno che scriva, posta la necessità di cercarsi un padrone, dovrebbe preferirlo così: istituzionale, lontano, anonimo. Giuseppe Pontig-gia, che nel 1961 scelse d'insegnare alla sera, ricorda di non avere mai avuto tanta disponibilità di tempo, tanto spazio per sé "mentale e pratico". Chi insegna, tende a giustificarsene. Ma i modi possono essere diversi. Evan Hunter, primo pseudonimo di Salvatore Lombino, in un suo romanzo degli anni cinquanta, tradotto in film con il titolo II seme della violenza, fa dire al protagonista Ri-chie Dadier, insegnante in una scuola professionale di New York, qual è la maggior attrattiva, la motivazione profonda del mestiere: creare insegnando, avere "mentì da scoprire". E una formidabile pretesa pedagogica, molto americana e fiduciosa. (Hunter però smise presto di pensare all'insegnamento; passò al giallo con la firma EdMcBain). Più mite il nostro Marco Lodoli pochi anni fa (su "Panta") annotava "faccio quello che so fare" e "evito un lavoro che mi obblighi a stare con gli adulti", siglando così la propria figura di scrittore in fuga; lo stesso che oggi nel piccolo romanzo Il vento, quasi una fiaba metropolitana, dice "io scrivo per non pensare al peggio". La scuola è un avamposto. Oggi c'è un piccolo numero di narratori che insegnano e si raccontano, mostrandosi (un po' dal vero e un po' per pretesto) in mezzo a quell'eterogeneità di culture e linguaggi contro la quale non valgono esorcismi: Starnone, si sa; Pischedda, in qualche pagina; e il disperato, erotico Picca di L'esame di maturità. za) e della società (quando si perde il significato di vivere, si interrompe il circuito del cibo): siamo, come si vede, nel cuore dell'ideologia materialistica dell'autore - il che spiega la collocazione di queste pagine a chiusura del libro. Romanzo di conversazione e romanzo di idee. Non romanzo-saggio, però. Leonetti vuole dare un quadro complessivo del mondo d'oggi, dalla metropoli italiana all'Africa, dal Sud d'Italia a Standford; ma le figure (ché veri personaggi - già s'è detto - non ci sono) che si muovono e che soprattutto parlano nel libro non sono solo portatrici immobili di problematiche razionali e culturali, ma anche di un corpo, di un vezzo, di una grazia, di un gusto, di una qualche antica sapienza (si pensi, alla fine, a Leonarda), e così gli ambienti, pur non "rappresentati", non sono scenari o sfondi, ma vivono per una bizzarria, per uno trano con grande efficacia (ricordo i capitoli sull'amica finita per strada o sui "balossi", la lettera del parente degli Stati Uniti con una descrizione, di arguzia rara e gioiosamente istrionesca, del gioco del poker, la visione dell'ostia di Standford), a volte la seconda prende il sopravvento non già con un'invadenza dimostrativa, ma con un accumulo di materiali che avrebbero avuto bisogno, a mio avviso, di ulteriore elaborazione (come accade in alcuni degli ultimi capitoli). Ma, così com'è, questa di Leo-netti è pur sempre un'opera fra le pochissime che, in questi anni novanta, ci ricordano che una cultura e una civiltà letteraria, una tensione politica e una ricerca di stile sono esistite, e che ancora possono esistere oggi. hanno confinato ai margini dell'universo gli storici e gli angeli: i primi devono restare alla superficie dei fatti; i secondi devono starsene in cielo, lontano da tutti. Che succede se un angelo scende sulla terra, come in un vecchio film hollywoodiano? Più o meno quello che succede se uno storico cerca di ascendere al cielo. È un'apparizione che illumina un panorama dai colori smorti, con lo stesso effetto di un'alba. Il lettore si chiederà di quali luci mistiche stiamo farneticando. Si rassicuri. Non c'è niente di mistico. Solo la consapevolezza che gli eventi avvolti dall'opacità del tempo possono essere resi trasparenti grazie a una luce più profonda e calda. È quello che avviene col brillante saggio-romanzo di Giosuè Musca, Il nolano e la regina. Un libro dedicato a Giordano Bruno, in multitu-dine solus, e alla multitudo di personaggi straordinari con cui è ve- nuto in contatto negli anni del soggiorno in Inghilterra: prima fra tutti, altrettanto solitaria e geniale, la regina Elisabetta. Come dice Umberto Eco nella prefazione a questo testo inusuale, Musca ci chiede di diventare "non spie, ma casti voyeurs" della storia. È vero. Ci viene riservato un posto migliore di quello di chi sta in prima fila: tra le quinte del palcoscenico del theatrum mundi. Ed ecco allora che lo spettacolo assume un altro carattere: il fasto delle grandi celebrazioni pubbliche, delle feste, delle riunioni di folle multicolori ha lo stesso fascino del segreto, delle parole mormorate in un corridoio, dell'intrigo, della gelosia, della confidenza. Di tutto quello che sfugge allo sguardo di un osservatore superficiale. Ed è così che noi raggiungiamo un grado di consapevolezza maggiore rispetto a chi legge un libro di storia tradizionale. I momenti più affascinanti sono nascosti nelle pieghe della narrazione: sono i tempi morti, le esitazioni, il susseguirsi di pensieri "bizzarri sempre in agguato" che somigliano al volo imprevedibile, leggero, fantastico dei gabbiani. Sì, sono questi pensieri "bizzarri" che hanno "dato sangue e forza alle intuizioni più ardite". Ma questi pensieri nascono da soli, nel caos di una vita randagia e senza regola. Musca ci porta fino nel cuore della rèverie di un personaggio che vive sospeso tra la vita comune e la vita non comune. Il ricordo della pasta di Napoli e del buon vino italiano si mescola con i voli della mente in una fantasmagoria perpetua. L'Inghilterra è un degno sfondo per questo brulicare di idee e di memorie, perché Bruno somiglia a un personaggio di Joyce alle prese con il flusso inarrestabile della propria coscienza. L'aspetto più attraente della narrazione di Musca è che essa è rigorosamente nutrita dalla lettura accurata delle opere del nolano e delle testimonianze che lo riguardano. Dunque, anche gli accenni che sembrano di minore importanza, a cominciare dalle preferenze alimentari, sono solidamente appoggiati su qualche documento. Eppure il quadro di insieme non è realistico e neppure reale: è iperreale. Dissimulato tra i mille avvenimenti sempre do.cu-mentati e documentabili, Musca è un regista che fa dire ai suoi personaggi quello che in fondo essi non osano rivelare neppure a se stessi. Bruno è dunque un'allegoria della condizione umana e Musca è in fondo il suo angelo custode, che ci fa comprendere, con tatto e dolente affabilità, il dipanarsi dell'esistenza che affonda in un modo inquietante e affascinante nell'eternità. "Nulla delle nostre esperienze va perduto: cresciamo su noi stessi come un tronco d'albero e i vari cerchi sono le varie esistenze. Ma non si potrà mai recidere quest'albero di lunghissima vita: la nostra foresta personale durerà fino alla consumazione dei secoli... Nessuno di noi sarà distrutto...".