OTTOBRE 1996 P- Liti N. 9, PAG. 13 Testi e contesti Silvia Albertazzi, Scuola di scrittura, Marsilio, Venezia 1996, pp. 237, Lit 24.000. Il risvolto ci informa che Silvia Albertazzi è nata a Bologna, vi insegna letterature anglofone all'Università, ha tre lavori di saggistica usciti fra il 1987 e il 1993, pubblica ora il primo romanzo. E di che cosa tratterà questo romanzo, se non di letteratura e insegnamento? E delle difficoltà, oggi, a Bologna, di una generazione di quarantenni, le cui inquietudini restano tuttavia dentro gli schemi socialmente ammessi. La protagonista si chiama Marta, ma il nome Silvia "era quello che avrebbe voluto portare", perché era sicura che "la sua vita avrebbe preso un'altra piega". Siamo nel genere della confessione ambigua, dell'autobiografismo negato; e a chiarimento o a provocazione ulteriore, l'autrice aggiunge una nota per dire che studia da anni la letteratura "come arte della menzogna". L'insegnante Marta, volendo aprirsi una via di fuga dal solito mestiere (alle magistrali, in provincia), accetta d'insegnare in una "scuola di scrittura": nuovo luogo del romanzesco, che permette di riunire storie e figure diverse in provvisori incontri. Come Marta riesca a destreggiarsi fra amicizie e amori, fra l'autorità dello scrittore di successo Moraglio (ovviamente "ironico, distaccato e poco incline agli psicologismi") e la seduzione del ventenne esordiente Nico Bloch ("un grandissimo bugiardo", secondo Moraglio), è quel che il libro racconta. Nel tessuto narrativo, e attraverso i ricordi e i pensieri di Marta, trova posto il tema più vero, del mutamento, che pertiene non tanto alla realtà quanto alla sua. rappresentazione. Con la rassegna di testi e film d'epoca, dagli anni settanta ai novanta, con una ricca colonna sonora di canzoni, e una garbata polemica verso formule e mode del costume ' accademico e della critica letteraria. Per ogni cosa, e ogni variare di gusti e ambienti, Marta e Silvia hanno le citazioni appropriate. È il giorno del compleanno, quarant'anni appunto, a mezzo novembre: "Il pomeriggio ora pascoliano ('Gemmea l'aria, il sole così chiaro / che tu ricerchi gli albicocchi in fiore') avrebbe presto assunto, col primo buio, sfumature carducciane ('La nebbia agli irti colli...')". Così due incipit e un giro di frase bastano per ricreare un'aula e un bel programma d'italiano. Silvio Guarnieri, Corrispondenze, introd. di Franco Petro-ni, Lupetti / Piero Manni, Milano 1996, pp. 302, Lit 32.000. Silvio Guarnieri, di Feltre, nato nel 1910 e morto per incidente nel 1992, in uno di quei vagabondaggi in bicicletta che gli occupavano le giornate. Il Guarnieri ragazzo di buona famiglia, passato dalla giurisprudenza padovana ai fiorentini studi letterari negli anni di "Solaria", e di Montale e Vittorini. Un letterato dunque, e presto però dal groviglio di fascismo e antifascismo uscito comunista e, a differenza di Vittorini, per sempre. Insegnante di professione, ma in tanti posti. Prima a Timi§oara e a Bruxelles; poi a Rovigo e preside a Feltre; e infine, toccati i cinquant'anni, all'Uni- versità di Pisa, dove occupandosi di letteratura moderna e contemporanea ebbe senza far carriera un compito che lo appagava e amareggiava, e con discepoli di qualità, Luperi-ni o Tabucchi,.che poi se ne staccavano. Soprattutto, un narratore, anzi un narratore saggista: perché a questo mirava, a raccontare ma facendo coincidere il racconto con la verità della memoria e il travaglio dell'analisi. Il volume che ora si pubblica, introdotto da Franco Petroni, altro allievo pisano, ha per tema l'amicizia, un rapporto solidale e antagonistico in cui Guarnieri laicamente vagheggia l'unico soccorso nell'irrazionalità a-troce degli eventi. Sono dieci ritratti di amici, dei quali solo quattro hanno nomi illustri (Elio Vittorini, Niccolò Gallo, Mario Tobino, Antonio Tabuc-chi); e uno solo s'intitola a una donna, una belga altrimenti ignota, Maria José, ma per la mole delle riflessioni, sul senso della vita e sui destini di persone o libri, ha il maggior rilievo. Sono storie tormentate, e con la morale. Il volume segue il filo conduttore dell'autobiografia, centrata su qualcosa che l'autore considera il proprio carattere, e protratta fino a una definizione di sé, là dove Guarnieri conclude d'essere stato il "caso anomalo" in diverse attività, ma con "una coerenza che le univa". Guarnieri vuol rendere testimonianza. E ne risulta invece un documento (quasi non voluto) della società borghese e letteraria, così ristretta e riconoscibile, nei caffè e nelle cene, in casa o in trattoria, a Feltre o a Firenze, così nostrana. Negli anni trenta o cinquanta, prima comunque dell'oggi. Il vero anacronismo, o forse l'utopia, di questo libro sta infatti nella sua lontananza dai relativismi etici e culturali. Il pedagogico Guarnieri propone una gerarchia rocciosa, di valori. Fedele all'Impegno umano", che difende con accenti più manzoniani che marxisti. Sempre esplicito. (E Petroni però giustamente complica e rovescia quando nota che, per la sua unilateralità e, appunto, coerenza, un siffatto atteggiamento diventa "sperimentale"). Maria Teresa Cometto, La Marchesa Colombi. La prima giornalista del "Corriere della Sera", Blu Editoriale, Torino 1996, pp. 182, Lit24.000. La prima che pubblicò regolarmente articoli sul "Corriere della Sera" fu Maria Antonietta Torriani, moglie del fondatore Eugenio Torelli Viollier. Firmava però come marchesa Colombi, lo pseudonimo con il quale era già nota e che finì per so- straordinaria, come spesso le donne letterate, rivolte o per scelta o per necessità all'anticonformismo. Nel suo caso questo comportamento produsse un intreccio di rapporti, di amicizia e anche di polemica e contrasto, con altre donne emancipate (dalla protosocialista Anna Maria Mozzoni a Matilde Serao); e di conoscenza, amicizia e anche d'amore con gli uomini del tempo (da Pan-zacchi a Carducci, Verga, Tarchetti, Salvatore Farina). Ora un'altra nova- vrapporsi al nome anagrafico. Pseudonimi, doppie identità; maschere che le discusse donne letterate amavano portare. La marchesa Colombi, nata nel 1840 a Novara da piccolissima borghesia, narratrice sovrabbondante (quarantacinque libri) e poi dimenticata, ha ritrovato una notorietà di culto da quando Italo Calvino l'accolse presso Einaudi pubblicando nella collana "Cento-pagine" Un matrimonio in provincia (ora in Interlinea, 1993): un bel testo di fredda scrittura femminile del 1885, un breve romanzo straordinario e in parte autobiografico. La marchesa infatti era davvero una figura rese e redattrice del "Corriere", Maria Teresa Cometto, ne racconta la storia, avventurandosi in quel genere infido che è la biografia romanzata, con la scorta però di lunghe ricerche e di materiali inediti, rimasti negli archivi, o cassetti, di famiglia. Ne è venuto un libro suddiviso in due parti. Nella prima, dove Cometto usa un espediente immaginando che sia la protagonista stessa, da vecchia, a raccontarsi e ripensarsi, abbiamo il romanzo. Nella seconda troviamo invece raccolte le "note storiche", cioè i testi d'epoca e i documenti, così ricchi da appagare il lettore erudito, o soltanto curioso. Quasi due Daria Canessa, Il rogo del Pe-truzzelli, Muzzio, Padova 1996, pp. 187, Lit24.000. Due domande d'apertura. Chi sarà Daria Canessa, pseudonimo di chi? E dov'è il segreto, dove la qualità del suo kitsch sfrontato? Che è quanto offre appunto, al primo sguardo, questo romanzo, dove l'estetica sembra chiamata a nobilitare le stravaganze del sesso. Dove, a gara con la pornoscrittrice spagnola Almudena Grandes che è uno dei personaggi, l'autore si concede ogni capriccio, dagli oggetti agli atti, dal micidiale fallo in legno dorato e decorato, alla masturbazione di un ministro con il ti-ralatte - in una toilette. Tacchi a spillo, citazionismo e Almodovar, siamo nel banale, forse nel volgare. Ma, attenzione, manca la volgarità che ci offenderebbe, quella dei sentimenti. Ma l'autore (attenzione) ha esperienza e conoscenza, del mondo e del romanzo, del teatro e della comune teatralità nella quale capita a tutti di affacciarsi, per guardare ed essere guardati. Diciamo intanto che l'ironico kitsch cresce su un evento serio. Il rogo del Petruzzelli di Bari, 27 ottobre Di quella pira 1991. Noi lettori abbiamo il privilegio di sapere subito chi è il colpevole: primo capitolo intitolato Zip-po\ e, ben introdotti da una citazione di Bachelard, non ci stupiremo di apprendere a metà libro che il "vero testo" del romanzo vuol essere centrato su mentalità e motivazioni dell'incendiario. Attorno al nocciolo s'aggroviglia l'intreccio; o meglio si dilata uno spettacolo che include i plurimi scenari a cui ci hanno abituati i racconti della realtà o della (tele)visione: politici e mafia, donne, albanesi, e un commando di terroristi che dovrebbero stare in un'altra storia, e per concludere "traffico di droga, organi e opere d'arte". Ci troviamo per forza tentati dall'elencazione caotica, volendo riassumere una vicenda che propone la sua materia con caotica, e ragionata, esuberanza. Chi sia interessato al contesto, e quindi a fatti e personaggi presi dalla cronaca, si appassionerà al mistero dell'au- tore - di cui ha già scritto a giugno Luciana Sica su "Repubblica" - e ai ritagli di giornale inseriti qua e là: e tenga d'occhio specialmente il ministro Gamba. Chi vuole la trama del delitto, segua senza lasciarsi distrarre il percorso della valigia che compare a pagina 22 in mano al regista Giuliano Vega. Agli amatori di arredi e dipinti, e della descrizione come tecnica di scrittura, segnalo un luminoso giudizio sugli interni di Hopper: "uomini e cose tenuti insieme dalla luce immobile e categorica". Infine, poiché il gioco di scambio tra verità e finzione è il tema dominante, sono destinate agli esperti nella fabbrica di romanzi, o verità romanzesche, le digressioni più numerose. Con molto Strarobinski e a volte Eco e sotto sotto Genette e un Jakobson sfiorato nel punto critico della metonimia: essendo in effetti la narrativa, scrive Daria Canessa, "una ininterrotta metonimia". E le tensioni, anche intellettuali, e le pulsioni, anche di morte, sono contenute nei limiti segnati dal divertimento.' Dunque, questo romanzo tende all'eccesso o alla medietà, elegante tuttavia e riservata a interlocutori complici? Si legga, per decidere. modi, che si fronteggiano, di comporre una Biografia. Risulta scarsa finora l'attenzione critica alla marchesa Colombi. Colpa dell'oscurità che ha avvolto tutta la cultura democratica dell'Ottocento lombardo -sostiene il qui citato Cesare Berma-ni - mes-sa ai margini dal predominio idealistico. Isabella Bossi Fedrigotti, Magazzino vita, Longanesi, Milano 1996, pp. 181, Lit 25.000. Isabella Bossi Fedrigotti avrà pensato a Casa "La vita"di Savinio nell'intitolare il quinto romanzo? O a La vita istruzioni per l'uso di Pe-rec? I modelli sono molti e illustri. E basta spostare la metafora dalla casa al magazzino per produrne il fatale slittamento verso un'idea di vita ridotta a cianfrusaglia. Bossi Fedrigotti, che vive e lavora in Milano, ma è nata a Rovereto da madre austriaca, e di buona ascendenza aristocratica, è lei stessa -la narratrice - un personaggio. Dopo il successo ottenuto nel 1980 grazie all'antirisorgimento della bisavola Leopoldina in .Amore mio uccidi Garibaldi (Longanesi), ha continuato a raccontare storie di famiglia intrattenendo il lettore sulla frontiera austro-tirolese; e restringendosi nella cerchia privata per meglio enfatizzarne i destini e gli amori. Fino a quest'ultimo, nuovo libro. Qui le persone hanno ceduto alle cose, il romanzo d'amore ha lasciato il posto a un discorso per frammenti che fanno emergere nuclei svariati di romanzesche vicende, sospese e riprese con elegante sprezzatura. Magazzino vita si presenta infatti come esclusiva descrizione di una casa, paesana e padronale, fabbricata nel Seicento e raffigurata qual è oggi. Come minuzioso inventario degli arredi, e di memorie e figure, una folla di nomi. E in ogni stanza e arredo, e in ogni resto di vita, sempre il duplice segno: l'erosione senza rimedio del tempo e le deboli impronte di interventi riparatori. L'ordine (della società e dell'educazione o anche della scrittura) sempre combattuto e vinto dallo sgretolio. Isabella Bossi Fedrigotti, romanziera e giornalista, utilizzata dal '"Corriere della Sera" in elzeviri e rubriche di lettere, occupa i tradizionali generi e ruoli riservati alle donne che scrivono, scrittrici minori. Eppure, questa cronista dei sentimenti non vuole essere una scrittrice sentimentale. Là dove il vissuto potrebbe irrompere, lo elude con una formula reticente, una breve mossa sintattica, un punto interrogativo. Vedi a proposito della casa, quando sarà in vendita: "chi metterà in ordine, chi salverà o butterà via, chi avrà il coraggio di affrontare la massa dei ricordi?" (Lo stesso movimento espressivo quando ha parlato, altrove, della malattia che, toccando al figlio, è toccata a tutta la famiglia. Per riequilibrare "quali privilegi", si è chiesta in Mi riguarda, 1994; e insomma "chi lo vuole un bambino senza età"?). ,