L'illirico in esilio OTTOBRE 1996 Enzo Bettiza, Esilio, Mondadori, Milano 1996, pp. 470, Ut 32.000. Enzo Bettiza è un tipico personaggio illirico, di lucida intelligenza associata a una caparbia volontà di affermazione; qualità che, all'ombra di un'apparente fatalistica indolenza orientale di probabile derivazione materna, sottendono il coerente disegno d'una vita concepita, guidata e controllata senza nulla concedere al caso. Illirico, o dalmata, è chi è nato o almeno provenga dall'Illiria, quella regione rivierasca adriatica che i croati hanno sempre considerata propria, i veneziani assoggettarono e organizzarono per secoli al servizio dei loro traffici mercantili, i locali per contro hanno sempre vantato, nel loro insopprimibile anelito a un'identità libera e distinta, come il paradiso terrestre loro concesso dagli dèi, librato nell'aria e pressoché disancorato dalle miserie terrene. Cultura italica? Anche questa è una delle tante sue contraddizioni di fondo. Il celeberrimo Niccolò Tommaseo, nato a Sebenico ma divenuto il grande linguista italiano dell'Ottocento, è considerato dai croati uno dei vertici delle loro lettere, raccoglitore, fra l'altro, del tesoro dei canti popolari di quel paese. E mai Tommaseo, nella sua lunghissima vita, rinnegò la madre e la lingua materna croate. Bettiza è in una posizione non lontana da quella ora descritta, e ha una nobiltà d'espressione in lingua italiana tutta propria. Nato a Spalato, immigrò diciottenne in Italia, prima a Gorizia e a Trieste, poi a Milano, e da quel momento si considerò "in esilio", com'egli ama definirsi, un esilio ben ospitale; conviene aggiungere, se gli consentì di entrare nella carriera del giornalismo, raggiungendone rapidamente le vette prestigiose, quale corrispondente dall'Europa dei mutamenti epocali, e in particolare dal pianeta Russia (del quale è divenuto uno dei massimi esperti). A fianco di questi già di per sé lusinghieri traguardi, egli è stato anche senatore della Repubblica e quindi membro del primo parlamento europeo eletto con suffragio universale. Non è poco, ma gli si farebbe grave torto se al vertice di questa parabola non si collocasse il Bettiza scrittore, già noto per i numerosi libri precedenti, ma salito a maggior fama letteraria col suo ultimo libro, intitolato appunto Esilio, un volume di quasi Claudio De Vecchi, Non di sola guerra, Guaraldi, Roma 1996, pp. 157, hit 18.000. Esordio nella narrativa di un medico milanese, anni cinquantacinque (responsabile del servizio di oculistica dell'Istituto nazionale dei tumori), con trentotto brevi racconti, in forma di monologhi ultimi, sulla morte in guerra. Una Spoon River in prosa e bellica, che ha per teatro non una piccola comunità americana ma la dispersa cinquecento pagine, uscito nelle edizioni mondadoriane, che già avevano ospitato le ristampe di La campagna elettorale e del fantasma di Trieste, e le nuove opere L'anno della tigre e I fantasmi di Mosca. L'Esilio è un libro difficile da assegnare a una delle categorie convenzionali della letteratura. Autobiografia? Libro di memorie? Omaggio all'abbandonata ma indimenticabile comunità dei caduti, soldati e non, su innumerevoli fronti. Spesso l'autore prende lo spunto da notizie di cronaca o da documenti storici per inventare i suoi morituri che danno addio alla vita. Quasi sempre la chiave narrativa è un rovesciamento di prospettiva, come nel racconto intitolato Prof. Ulrich Schmidt. Insegnante di storia, che si compone semplicemente di tre lettere, datate ottobre '42, dicembre '42, maggio '43. Nella prima il professore (tedesco) scrive al figlio Alfred, che combatte a Stalingrado: "Ricorda sempre che tuo dovere è servire la Patria in ogni attimo"; e gli rammenta la gioia provata quando Alfred e il di Manlio Cecovini e indimenticata terra natale? Autobiografia involontaria lo definisce lo stesso Bettiza in quell'"Epilogo" che chiude il libro ma che consiglio di leggere come primo avvio, e comunque in stretta connessione con il "Prologo". È tra questi due stipiti infatti che Bettiza apre la porta per penetrare nei momenti fondamentali della sua vita, sentiti più come luoghi dell'anima che come oggetti di cro- di Alberto Papuzzi fratello Hans si sono arruolati. Nella seconda il figlio gli descrive l'orrore e l'inutilità della guerra: "Io non so se riuscirò un giorno a tornare a casa ma ti voglio dire che se questo accadrà io odierò la guerra per tutta la vita". Nella terza il padre esorta l'altro figlio, Hans, imbarcato su un sommergibile, anch'egli inorridito, ad accettare i doveri del soldato e gli comunica, con un post scriptum, la morte del fratello a Stalingrado: "Nella sua ultima lettera ha ancora inneggiato alla nostra guerra mostrando così di non avere dimenticato il suo dovere di Tedesco e i miei insegnamenti". Il significato del libriccino è naca o, se si preferisce, di narrazione storica, politica e sentimentale. Un libro che - riconosce Bettiza - si è sviluppato, sotto l'impeto rampollante dei ricordi, in qualcosa di diverso dai propositi iniziali, ch'erano quelli di indagare concisamente sulla guerra balcanica ancora in corso, tanto da potersi considerare il risultato di "un grimaldello con cui il presente ha forzato e saccheggiato il passato". questa inversione fra la materialità della guerra e la sua immagine, fra la realtà e la retorica. Provvisto di una robusta capacità descrittiva, che riesce a fermare in una posa, in un gesto, la psicologia delle persone, De Vecchi scrive spinto da una necessità: demitizzare la guerra, spogliarla dei paramenti sacri, disarcionarla dai cavalli equestri. In virtù della sua professione, spesso lascia affiorare scene di malattia, di infezione, di barelle e corsie (tanto da ricordare singolarmente un film non tanto vecchio di Bertrand Ta-vernier: La vita e nient'altro). Uno dei racconti più belli è forse G. T. Sindaco, dove la dinamica e le ragioni di una rappresaglia, in un N. 9, PAG. 12 Autoesiliato, dunque, Bettiza dalla sua terra natale, dove l'antica tradizione veneto-illirica era venuta consumandosi sotto l'inesorabile pressione slava, ancora una volta proiettata nach Westen, nella mitica spinta ch'era già stata dei movimenti panslavisti e panserbisti. Un concetto, questo deU'autoesilio degli illirici, inteso da Bettiza come un'oscura vocazione ancestrale, a far capo addirittura all'imperatore Diocleziano, spalatino, che rinuncia al trono per "murarsi" di sua scelta nella reggia-fortezza di Spalato, ermeticamente chiusa al mondo che le brulica ai piedi. Spalato stessa diviene così il simbolo metafisico di questo straniamento che pesa sui dalmati come un'ossessione, al punto che FlUiria è vista come un'isola, dalla quale ci si salva solo con il murarsi in casa o con l'evasione. I miti sono infranti, dice Bettiza, ma è ancora all'insegna del mito che i serbi combattono oggi, non contro i croati, come generalmente si crede, ma contro i balcanici islamizzati, i traditori di sempre, gli infedeli sacrileghi, gli "alieni per antonomasia". Da ciò il nuovo razzismo serbo, che giustifica oggi la sinistra tradizione serba della "pulizia etnica" con la non meno sinistra pretesa della "pulizia culturale". Il mito serbo: di avere cioè costituito l'antemurale che avrebbe salvato l'Europa dall'invasione ottomana. Sono stato per cinque anni a fianco di Bettiza, membri entrambi del gruppo liberale e democratico del parlamento europeo. Pensavo allora - e continuo a pensare - che per lui la politica attiva sia stata soltanto l'occasione di nuove esperienze, da aggiungere a quelle già accumulate nell'osservazione dei fatti del mondo. Bettiza è un eccellente politologo, ma non, a mio parere, di sua natura un politi-cian. Prevale sempre in lui il gusto dell'indagine, la curiosità delle situazioni intricate, l'allure dello scrittore. Sull'invito all'azione prevalgono insomma le molteplici suggestioni del pensiero. Non è triestino, ma è vissuto a Trieste, ne parla il dialetto, ha scritto su questa città il romanzo II fantasma di Trieste e il saggio Mito e realtà di Trieste. Con onore, dunque, Trieste può considerarlo membro non precario della propria complessa comunità, che parla italiano (ma non solo italiano), pensa europeo, nutre accanto all'amore per l'Italia incancellabili nostalgie mitteleuropee. paesino francese, ultima guerra, galleggiano sul prosciugamento dell'umano sentire. Per difendere il padre, il giovane Robert, ferito e convalescente, schiaffeggia un ufficiale tedesco: "È stato allora che Robert l'ha schiaffeggiato. Anche lui non lo ha colpito con violenza. Parevano due amici che giocassero un vecchio gioco". Che cos'è la guerra se non questo? Un vecchio scherzo, che si continua a praticare, con le sue retoriche e il suo cinismo, per salvarsi dalla vita. Servire la patria