OTTOBRE 1996 Frantumi di vita di Gianni D'Elia Silvio Ramat, Numeri primi, Marsilio, Venezia 1996, pp. 186, hit 28.000. Anna cascella, Piccoli campi, introd. di Giovanni Giudici, Stamperia dell'Arancio, Grot-tammare (Ap) 1996, pp. 63, hit 15.000. Alberto Bertoni, Lettere stagionali, prefaz. di Giovanni Giudici, Book, Castel Maggiore (Bo) 1996, pp. 108, hit 20.000. "Un proemio scontato? C'è uno spettro / (il Duemila) che s'aggira nei sogni / dei poeti... Così presto? Una svolta? / veramente una svolta? (...) E vero, non si pasce / unicamente di poesia, un poeta: / ma dove ha il mondo una più viva sémina / che nei solchi della scrittura? (...) La gioia che fiorisce sulla noia: / schietta rima italiana, su cui darci / appuntamento, poeti. (...) Fra letterati / ci si scanna anche per molto meno. / Epidemie sottili: manifesti /e contromanifesti; retroguardie/e avanguardie... Nodi maligni, fitti. / Verranno al pettine, ma quale mano / augurarsi, che li districhi? (...) D'un bel nome, infine / riconfortata, frondeggi la Cosa". Così parla, piegando la voce al discorso e all'interrogazione, una poesia del nuovo libro di Silvio Ramat, Numeri primi. Ramat (nato nel 1939), fiorentino, critico e saggista, ha esordito come poeta nel 1959, seguendo una linea poster -metica aperta al confronto con la storia. La lunga citazione dal suo Sproloquio eugubino, testo che occupa nella forma del poemetto una centralità anche fisica in quest'ultima raccolta, ci può servire a non svicolare nel discorso sul discorso poetico, e cioè nel discorso secondo, senza appoggi concreti. Scegliendo un colpo d'occhio, che vorrebbe restituire il senso integro di un'opera. E questa di Ramat è un'opera compatta, divisa in sette sezioni, con ulteriori partizioni interne (o partiture, dato l'alto tasso di svolgimento musicale dell'argomentazione, quasi a riprodurre nel genere della scrittura in versi la forma-sonata). Nel brano citato ritroviamo tutti i nodi della poesia di Ramat: il tono alto del lessico (proemio, si pasce, viva sémina, fiorisce, districhi, riconfortata, frondeggi), piegato a un'illustrazione discorsiva, in cui rientra anche la criptocitazione marxiano-engelsiana del manifesto comunista; la metrica regolare (i "numeri primi" dell'endecasillabo lirico), però con apporti riflessivi e spezzature da prosodia saggistica; il suo muoversi dalla poesia alla prosa, dalla parola (e dal suo culto ermetico) alla Cosa (sia pure con la maiuscola); la sua fede estetica nella "viva sémina", e l'obbligo a incarnarla in esistenza o memoria, domanda di realtà e rovello conoscitivo, occasione lirica ("la traccia dal vivo") e contesto storico. Da questo altalenare, nasce l'opposta impressione di ipoteca sublime ("Intorno all'arte e nel grembo dell'arte") e di volontà di svolta più appassionata ed esistenziale. Chi fa invece il contrario, tecnicamente, piegando il discorso alla vo- ce amorosa e singolare del colloquio in assenza, è Arma Cascella (1941), romana, una poetessa importante quanto appartata, che lo stesso Giovanni Giudici, nella nota introduttiva al suo recente Piccoli campi, ritiene "non abbia ancora ricevuto dalla critica e dalla pur ristretta fascia delle persone che leggono i poeti il giusto riconoscimento". Assaggio di un libro futuro più ampio, questa raccolta d'amore e d'ossessione, "leggera e vaga", di grazia giocosa e tonale, tutta sul rovescio della sofferenza solitaria e del male psichico (per voler riprendere la chiave acuta di un lettore co- me Fortini, che la premiò e favorì la pubblicazione di Tesoro da nulla, nel 1990 da Scheiwiller), prosegue del primo libro la verità metrica. E proprio di verità, di corrispondenza intensa, tra "piccolo campo" affettivo (e proiettivo di rovello e pensiero sull'altro) e soluzione metrica e compositiva, si tratta. È come se Anna Cascella facesse a metà i versi di Penna, ma con il flusso narrativo di Palazzeschi o Caproni: "mi godo la mattina - / sono stata con un / uomo e non c'è stata / brina - spazzolo / la gatta - accarezzo / il gatto - è un atto / così semplice -è / un dato di fatto -/ nessun percorso / né un'invocazione / lasciata / alla mente - facile / il predente -". E viene in mente un appunto della Cvetaeva che, dialogando con Pa-sternak, indicava nel trattino metrico un tratto di respirazione segnata. Una fisica d'amore (e di morte, nelle poesie esoreistiche sul dopo la cremazione) segna l'emistichio del- i dei libri del mese | JO, la Cascella, risvolto formale del singulto, e del contrappunto offerto alla lacerazione e alla "serena disperazione" del rapporto vitale, in rime oblique e interne. Ancora discorso, ancora voce piegata al discorso, nei versi epistolari (prefati da Giudici) di Alberto Bertoni (1955), modenese, critico e saggista, animatore delle riviste "Gli immediati dintorni" e "Frontiera" (segno di vitalità dell'area emiliana, con autori giovani come Elio Tavilla, Vitaniello Bonito, Giancarlo Sissa). Tra catalogo e diario stanziale e di viaggio, le Lettere stagionali di Bertoni ci restituiscono, nella "falsa prosa" che è già stata la via di Bertolucci e Sereni, scampoli di vissuto, di amori e di amicizie, alea di tavoli e di ippodromi, cene e nottate d'autostrada. Ma anche e soprattutto la radice intersoggettiva della parola comune, e certe epifanie di perdita: "La goccia trema piano / senza coraggio né slancio / come il profilo che l'osserva / non ha luce abbastanza / si sfalda nel paesaggio / d'acacie, pioggia e rose". Questo sfaldarsi per debolezza è coscienza del relativismo percettivo e biologico. Contro ogni arcadia mitologica o avanguardia d'ordine, l'attenzione torna ai frantumi di vita, al bisogno di continuazione sulla pagina, indicando il luogo vero fuori di noi, dove quello che chiamiamo poesia esiste e si rivela: "Adesso sul mio tavolo c'è il vuoto", scrive, nella sua diagnosi, Bertoni, bene armandoci contro noi stessi. N. 9, PAG. 8 Dietro il muro di Paolo Zublena condizione di appartato, dunque, che riunisce il poeta (il separato per eccellenza) e, più generalmente, l'uomo di oggi, ma anche un restringimento della virtù conoscitiva, comune a tanta poesia contemporanea (basti pensare al "muro della terra" di Caproni), in difficoltà nella decifrazione di questo "mondo terribile" (per dirla ancora con Blok), ormai privo di punti di riferimento. L'io assediato si ritira in seconda fila, a volte per consentire il ricorso a un nitido timbro apodittico di epigrafica imparzialità, a volte per lasciare spazio alle diverse voci (con o senza gli indicatori del discorso diretto), con esiti in qualche caso plurilinguistici. La ferocia del mondo in cui l'uomo è prigioniero viene sovente stigmatizzata in testi pervasi da una profonda indignazione (anche politico-civile), che contrappongono all'offesa dell'ingiustizia una disperata, ma dignitosissima eticità (la memoria non può in questo caso fare a meno di andare a certe poesie del Caproni di Res amissa). In questa terra guasta emerge a volte una tenue luce, debole ma unica fonte di speranza per i pochi "non ancora devastati": "luce inerme, irredenta luce / che bruci nel mondo inospitale // tra i solchi scellerati e i cancelli / fissati dalla mente criminale, // nell'angolo cieco o nel vuoto delle stanze / tu sei, o nel pianto del luminìo campale... // il faro ipocrita illumina le bande / ma tu esisti e cerchi i tuoi fratelli". È questo il massimo esempio di una forte tensione etica che comunque pervade tutto il libro. Questo materiale a tratti rovente è contenuto in una forma assai curata, sapientemente orchestrata con giochi fonici e rime ora insistenti, ora dissimulate. Il metro è moderatamente libero, con una forte sensibilità ritmica che spesso si conforma al suono familiare dell'endecasillabo, oppure vi gira intorno accennandolo in forme ipometre e ipermetre. Nonostante la sintassi sia lineare e il lessico non compia evoluzioni espressionistiche, rimane l'impressione di una lingua non di rado irta, specie in virtù di accostamenti non banali, di iuncturae che non temono di apparire acres, di spostamenti semantici che tentano di ridefinire uno strumento espressivo sentito ormai come inadatto a seguire il pensiero. Questo comportamento nei confronti della lingua acquista la massima visibilità nella suite in dieci parti posta a conclusione del libro, Memorandum per la vista-, spetta ai pochi non corrotti dalla società e dalla sua lingua granitica cercare una parola rigenerata, capace di tenere dietro alla vista, sempre più sollecitata; stante però la finitudine della lingua, si tratta di trascegliere la sua parte meno compromessa, spogliandola degli orpelli servili, per ottenere una parola nuda, capace di affratellare, di creare contatti interumani, una parola che sia soprattutto legame con l'altro. più grande poeta civile della sua generazione", si sono uniti i pareri entusiastici di molti recensori, Giovanni Giudici tra i primi. Non si vorrebbe però che questa immagine di De Signoribus come grande poeta civile ne condizionasse unidirezionalmente la lettura. Quella politico-civile non è, infatti, che una delle corde a disposizione dell'autore di Istmi e chiuse, la cui latitudine tematica tocca altri punti nodali come il problema gnoseologico e il rapporto tra lingua e immagine visiva. "Il secolo finiva, senza avere / risolto i suoi enigmi tormentosi...". Così l'epigrafe blokiana, in apertura di un libro che questi enigmi di fine secolo vuole sondarli con sguardo sbarbarianamente impietoso: "ha cambiato pelle per sopportarsi, / s'è ristretto prudente nel fortino // e non apre, smiccia dallo spioncino / la sghemba orrenda faccia del mondo". Una Eugenio De Signoribus, Istmi e chiuse, Marsilio, Venezia 1996, pp. 193, hit 28.000. Una meritata fortuna critica sta incontrando finalmente l'opera poetica di Eugenio De Signoribus in occasione dell'uscita del suo terzo libro, Istmi e chiuse: all'autorevole voce di Giorgio Agamben, che nel 1992 lo definiva "forse il