OTTOBRE 1996 N. 9, PAG."51 Nuove guerre fredde di Susanna Bóhme-Kuby Daniela Dahn, Westwarts und nicht vergessen Rowohlt, Berlin 1996, pp. 207 L'autrice berlinese del libro-de-nuncia A chi appartiene l'est (cfr. "L'Indice", 1995, n. 6) lancia un'altra protesta attraverso un resoconto personale dell'esperienza nella realtà della Ddr prima e nella Germania unita poi. Il "disagio nell'unità tedesca" è articolato attraverso diversi punti di vista, quello della cittadina munita di coscienza politica autonoma e antifascista e, al tempo stesso, quello di donna e madre. La scrittrice dà voce, in questo modo, al disagio diffuso nei confronti di atteggiamenti colpevolizzanti e discriminanti da parte degli occidentali verso l'est, come ad esempio l'imposizione di una disciplina politica come condizione necessaria per l'erogazione delle pensioni degli statali, secondo modalità che superano i limiti di uno stato di diritto. L'autrice tocca i punti dolenti della nuova guerra fredda interte-desca mettendo in rilievo le stridenti discrepanze con l'immagine propagandata delle libertà borghesi. La sua analisi non è astiosa né lamentosa o nostalgica, ed è priva di quel giustificazionismo devoto che si avverte in altri commentatori. Daniela Dahn non solo rivendica il diritto al proprio passato, ma lo esercita individuando una parità sostanziale fra i due livelli di esperienza a est e a ovest. Si oppone, quindi, a quel "divieto di difesa" imposto ai cittadini dell'est come biglietto di ingresso nella società tedesco-occidentale e lancia così una sfida che tocca proprio quei pilastri della morale politica dell'ovest sui quali si fonda la pretesa superiorità morale di Bonn. Uno dei pilastri della visione occidentale è la definizione della Ddr come Unrechtsstaat, ossia uno stato "fuori dal diritto", di fatto accostato alla dittatura nazionalsocialista nonostante le evidenti differenze strutturali ricordate dai più avveduti. Da questo dogma deriva quello della colpa esistenziale di tutti coloro che non si sono opposti alla dittatura attraverso l'emigrazione all'ovest o il ritiro in una interiorità apolitica. L'autrice sfata queste "false alternative" a proposito dell'integrità intellettuale -e oppone a esse la propria esperienza di scrittrice critica all'interno della società dell'est, per la quale ribadisce comunque un coinvolgimento civile degli scrittori più sostanziale che nelle società dell'ovest. Essa propone un metodo di valutazione dell'onestà e del coraggio civile degli intellettuali applicabile all'est come all'ovest: la loro concreta opposizione pubblica nei confronti di ogni tipo di violazione dei diritti. La Dahn fa riferimento a quel processo di avvicinamento tra intellettuali dell'est e dell'ovest in atto negli anni ottanta, caratterizzato dalla capacità di dialogare, e bruscamente interrotto proprio dall'unificazione. Da allora regna infatti un'atmosfera da inquisizione (in Italia si ricorderà la polemica intorno a Christa Wolf, Che cosa resta). Vorrei aggiungere che è proprio il Pen tedesco occidentale, nel quale si suppone riunita l'élite culturale della Brd, ad aver respinto ancora , nel maggio '96, la proposta di unificazione con il rinnovato Pen tedesco orientale, dando un altro triste spettacolo di arroganza e di provincialismo. La domanda che potrebbe sorgere in un lettore non tedesco circa i motivi di tanto accanimento nella delegittimazione di una società che non esiste più e che nessuno vorrebbe far risuscitare, non trova risposta, ma Dahn formula qualche ipotesi: c'è forse la necessità di trovare un nuovo capro espiatorio per poter smaltire quarantacinque anni di odio e di paura anticomunista contro un nemico che - di colpo - non c'è più. ■ ■k. - * Esorcismi sulla Ddr di Anna Chiarloni Il "disagio" evocato da Daniela Dahn nel saggio qui recensito da Susanna Bòhme-Kuby non è un fenomeno isolato. Tocca anzi più generazioni di intellettuali dell'est, dal vecchio Hermlin, esponente dell'esilio antifascista, a Kerstin Hensel, scrittrice appena lanciata da Suhrkamp. Soprattutto l'accostamento tra nazismo e socialismo d'oltre muro - assai in voga nella discussione politica interna successiva alla riunificazione - si rivela bruciante per molti tedeschi orientali. Sia chiaro: in ambito scientifico tutti — salvo la destra più accanita - sono disposti, a distinguere tra Hitler e Honecker. Di fatto però il vocabolario di molta stampa occidentale istituisce una continuità tra i due periodi. E 10 fa servendosi di un certo lessico. 11 fenomeno è interessante anche perché consente di rilevare come la storia tedesca abbia marcato il linguaggio ben più di quella nostrana. Mi spiego. Dicendo passato italiano da noi si pensa a un orizzonte indefinito di memorie scolastiche. Ma provate a chiedere a un tedesco - anche ventenne - cosa gli evoca l'equivalente deutsche Vergangenheit: il passato nazista, vi risponde immancabilmente. Un passato che sventaglia quella catena analogica di parole - Hdftling, Opfer, Tàter, Schuld (prigioniero, vittima, reo, colpa) - capace di proiettare un'inconfondibile ombra semantica, quella dell'orrore hitleriano appunto. Ora, è proprio questo il lessico al quale spesso nella Germania riunificata si ricorre per designare la storia della Ddr. Certo, il 1989 costituisce una vera e propria cesura storica: con la caduta del muro si è formato innegabilmente un altro "passato tedesco": sono appunto quei qua-rant'anni di Germania divisa che ci stanno ormai alle spalle. Ma, osserva anche Manfred Hellmann, noto linguista di Mannheim, spenta l'euforia della riunificazione, la terminologia della deutsche Ver-gangenheit viene oggi usata per liquidare gli intellettuali della Ddr. Un dispositivo che consentirebbe agli occidentali non solo di mettere finalmente una pietra sul passato nazista ma anche di evitare una severa analisi interna delle esplosioni di razzismo culminate nel rogo di Mòlln. Si sposta cioè lo sguardo individuando altri "colpevoli": chiusa la riflessione sulla Nazi-Vergan-genheit e sul Terzo Reich si apre ora il processo alla Ddr-Vergan-genheit. È qui che sta la radice del disagio lamentato da Daniela Dahn. Perché mettendo sullo stesso piano linguistico le due dittature s'insinua un'equivalenza tra Staatsdiener (servitori dello stato), ossia tra gli intellettuali fedeli a Hitler e quelli iscritti alla Sed. Non importa che l'intellighenzia della Ddr fosse censurata e sorvegliata dai servizi di sicurezza, importa il fatto che abbia creduto fino all'ultimo, anche dopo il crollo del muro, di poter far da sé - proponendo una confederazione - senza gettarsi nelle braccia unificanti di Kohl. Un esempio tratto dalla critica letteraria ci aiuta a capire come operi questo slittamento. Recensendo sullo "Spiegel" (1994, n. 14) l'ultima raccolta di saggi di Christa Wolf (Congedo dai fantasmi, nel titolo dell'edizione italiana pubblicata da e/o) Marcel Reich Ranicki definisce i cittadini della Ddr come Hdftlinge (prigionieri, ma il termine rimanda inequivocabilmente ai campi di concentramento) e la scrittrice come Staatsdienerin. Detto questo, la spirale analogica tra i carcerieri dei lager nazisti e gli intellettuali della Ddr è avviata. Si tratta ora di designare la Schuld-, nella penna del noto critico televisivo chi come la Wolf non ha abbandonato lo stato socialista non può che essere per un verso o per l'altro Tàter. La Wolf sarebbe cioè doppiamente "colpevole": ieri di non essersi battuta per la liberazione dei "prigionieri" di Honecker, oggi di non voler condannare in to-to quel Reich des Bósen (regno del male). E allora, la Ddr come Quarto Reich? Ma no, troppa grazia, anche nelle intenzioni dei suoi detrattori. Semmai come grigia appendice dell'era fascista. Tanto più si capisce il disagio della Dahn. Perché è evidente che, caduto il confine, il linguaggio continua a dividere il cielo della storia tedesca. "frana" - nel suo Secolo breve (Rizzoli, 1995). Vi è un'evidente consonanza "metaforica" con il Délu-ge di Fontaine, ma le dinamiche e le scansioni temporali sono diverse: la "frana" di Hobsbawm è infatti, sul terreno della storia sociale, lo sgretolamento dell'età dell'oro del Novecento (gli anni 1947-1973) e quindi, politicamente, la dissoluzione dell'equilibrio della guerra fredda e della pax armata sovietico-americana, mentre per Fontaine il "diluvio" è la conseguenza della fine della guerra fredda, vale a dire, volendo far riferimento al convitato di pietra evocato nel titolo, dell'Antico Regime del Novecento. Il tracollo di un Antico Regime -si pensi al cortocircuito analogico tra il 1789 e il 1989 - suscita d'altra parte paure, pericoli, crisi, rudi re- gressioni barbariche, ma anche entusiasmi, speranze, aperture, volontà riformatrici. Questo è appunto lo stato d'animo dell'epoca che Fontaine, muovendosi con una sontuosa padronanza della materia sul terreno della politica internazionale, ha inteso riprodurre. Al centro, naturalmente, vi è la caduta dei comunismi, e in particolare di quello sovietico, con l'Armata Rossa, l'esercito che aveva umiliato il Terzo Reich, stretta, all'inizio della narrazione, tra la bandiera verde dell'Islam afghano e la Madonna Nera di Czesto-chowa. Già Engels, del resto, aveva definito l'Afghanistan, per la sua inespugnabilità, la "Polonia dell'Oriente". Fontaine si sofferma poi sull'amministrazione Reagan e sul liberismo degli anni ottanta, sull'America centrale e sul conflitto Iran-Iraq, sul Libano e sull'intera que- stione mediorientale. Si conclude così la prima parte, definita "il tempo delle contese" (1979-85) o anche l'ultima fase "calda" della guerra fredda. Viene poi "il tempo degli abbracci" (1985-90), con la fine della guerra fredda e con Gor- bacév protagonista indiscusso. Indiscusso è però anche il fallimento della perestrojka. Ed ecco profilarsi allora, contro tutte le speranze, "il tempo degli sbandamenti" (1990-95), con la guerra del Golfo, il disintegrarsi disordinato del- Aryeh Kaplan La meditazione ebraica Una guida pratica Bruce Jay Friedman Stern Una visione «ebraica» dell'America Editrice La Giuntina - Via Kit-asoli 26, Firenze l'Urss, la ripresa dei nazionalismi e dei fondamentalismi più efferati, l'incapacità euro-nippo-americana di assicurare un "nuovo ordine mondiale", la globalizzazione crescente dell'economia e 0 sempre più frenetico e incontrollabile movimento di uomini, merci e capitali. Il pianeta è sfuggito di mano alla grande politica. E rispuntato, su scala mondiale, nonostante il bilancio per Fontaine "globalmente positivo" dell'Onu, lo spettro dell'anarchia internazionale, come all'inizio degli anni venti, quando si vollero europeizzare i Balcani e si finì con il balcanizzare l'Europa. Fontaine si augura naturalmente che la storia non si ripeta. Ritiene tuttavia che si debba conquistare, nella libertà di tutti e per tutti, il potere di governare politicamente le laceranti spinte centrifughe del sistema-mondo.