SETTEMBRE 1996 Di obik'tsCr cte,L 77\ eoe N. 8, PAG. 6 Vendere il corpo? di Maurizio Mori Giovanni Berlinguer, Vol-nei garrafa, La merce finale, Baldini & Castoldi, Milano 1996, pp. 197, Lit 24.000. Berlinguer e Garrafa hanno scritto un libro importante per richiamare l'attenzione su un problema cruciale troppo spesso dimenticato: negli ultimi anni è aumentata in modo straordinario la presenza del mercato nel mondo sanitario, mostrando "tendenze invasive, che giungono ora a coinvolgere il nostro stesso corpo". La questione presenta vari aspetti, ma quello più preoccupante riguarda la compravendita di parti separate del corpo, che costituisce il tema centrale del volume. Con candore gli autori confessano che "mai, pur avendo ambedue scritto spesso di crudi argomenti relativi alla salute, alle malattie e al rapporto fra la scienza e la vita umana, ci siamo sentiti così profondamente coinvolti e sconvolti come nel raccogliere, analizzare e commentare i fatti e le idee di cui parla questo libro". Il volume presenta molti fatti "strani" ed è importante dal punto di vista documentale per l'imponente massa di dati raccolti, anche se l'insistenza su tali aspetti può indurre il lettore poco accorto e credere che gli autori sostengano una qualche versione delle varie prospettive antitecnologiche oggi di moda. Al contrario il volume è scritto per difendere l'avanzamento tecnico-scientifi-co, e gli autori vogliono evitare il rischio di quegli abusi che suscitano "una diffusa repulsione verso molti aspetti del progresso scientifico, quelli che toccano più da vicino l'esistenza umana". Il loro obiettivo è trovare una "terza via" tra la Scilla di coloro che vedono nella tecnica la panacea di tutti i mali, e la Cariddi di chi vede invece nella tecnica un Moloch che stritola ogni valore. Scienza e tecnica apportano grandi vantaggi e soprattutto i trapianti (ma anche le fecondazioni artificiali, ecc.) sono cose buone, ma tali pratiche devono essere strettamente soggette all'etica che vieta la compravendita delle parti del corpo umano: queste possono essere cedute e scambiate solo per pura benevolenza (o per solidarietà), ma non dietro la sollecitazione di incentivi economici. Questa tesi di fondo è difesa con brio e vigore, mostrando una straordinaria capacità informativa che tiene conto del dibattito internazionale. Dei numerosi (e spesso difficili) temi trattati solo quello relativo alla "morte corticale" mi pare sia stato affrontato un po' frettolosamente. Tale proposta viene liquidata come priva di "giustificazioni scientifiche", mentre una discussione più ampia avrebbe forse consentito un giudizio più meditato. Per il resto il volume è ben argomentato, e devo confessare che il mio cuore simpatizza con la posizione di Berlinguer e Garrafa: anche a me piacerebbe vivere in un mondo in cui le parti del corpo fossero sottratte alla logica del mercato. Un altro grande pregio del libro sta nell'aver rivolto specifica atten- zione al problema della giustificazione dei divieti proposti, fornendo un importante contributo all'attuale dibattito bioetico. Gli autori criticano con cura i due principali argomenti a favore del mercato e cioè: a) quello di chi in nome dell'autonomia giustifica anche la proprietà e la vendita di parti del proprio corpo; b) quello di chi la giustifica ricorrendo all'ana- za verso la compravendita, in tutto o in parte, di noi stessi e di nostri simili": questa non è una mera emozione soggettiva derivante dall'educazione ricevuta, ma individua un principio etico fondamentale. Infatti, quand'anche il mercato dovesse far aumentare la disponibilità di organi, questo "fatto non potrebbe comunque giustificare la caduta di un fonda- vuol dire che non ci sono più altri argomenti da addurre e che il dibattito è giunto al capolinea: chi coglie la validità del principio capirà anche la conclusione, altrimenti la riterrà assurda ma non resta altro da dire. Gli autori, comunque, si appellano al principio perché suppongo che esso sia ampiamente (se non universalmente) condiviso, e logia con altre pratiche già permesse, come la vendita di altre funzioni corporali (nel lavoro salariato e nella prostituzione). Le osservazioni in proposito sono sempre acute, anche se a volte si ha l'impressione che la disamina sottenda l'implicito assunto che la compravendita non sia in realtà strettamente necessaria, per via dell'esistenza di valide alternative che attraverso sistematiche campagne a favore della donazione renderebbero comunque possibile il reperimento degli organi necessari al fabbisogno. Questo assunto empirico è tuttavia controverso, perché in tutti i paesi c'è carenza d'organi e la pura donazione non sembra sufficiente a colmare il divario. Su questo, quindi, la discussione resta aperta. Ma il punto davvero importante del volume sta nell'aver individuato che la ragione ultima dei divieti dipende da "un'istintiva ripugnan- mentale principio morale e giuridico, che consiste nel rifiuto di considerare il corpo umano come oggetto di proprietà e di commercio. Su questo principio si è costruita gran parte della civiltà moderna, dal-Vhabeas corpus all'abolizione della schiavitù, dal diritto alla salute alla liberazione della donna. La sua abolizione ci farebbe perciò arretrare di molti secoli" (il corsivo è mio). L'aver affermato che il divieto di commercio del corpo umano dipende da uno specifico principio morale è uno dei risultati più importanti del libro. Questo ci consente di chiarire la natura del dibattito in materia e di dire che -ove insorgesse un disaccordo -non si può far altro che prendere atto della sua radicale insanabilità. Infatti, un principio sta all'inizio dell'argomentazione e non è ulteriormente giustificabile (in quanto serve per giustificare), per cui quando ci si appella al principio su questo si può convenire. I problemi, quindi, riguardano le sue specifiche applicazioni, per cui diventa indispensabile chiarire con precisione l'ambito del principio stesso. Esso concerne tre aspetti diversi: "Il mercato del corpo umano in foto, l'uso mercantile delle funzioni corporee dell'uomo (e sopratutto della donna), il mercato di parti separate dal corpo". Forse andrebbe considerato anche un altro settore, ossia la salute, ma ciò solleverebbe nuovi problemi che non posso poi qui esaminare. Gli ambiti individuati bastano per osservare che fino a pochi anni fa il principio poteva essere applicato solo nei primi due casi, dal momento che era fisicamente impossibile usare le parti del corpo separate dal tutto. Tale principio dice poco o nulla circa la disponibilità delle parti separate del corpo, semplicemente perché questa è una pratica del tutto nuova: è uno di quei "dilemmi inediti di fronte alla morale" derivanti dall'attuale "condizione di assoluta novità rispetto al passato" su cui insistono più volte Berlinguer e Garrafa. Sottovalutando questo punto, essi invece instaurano una stretta analogia tra la disponibilità del corpo in toto e la disponibilità delle singole parti, per cui - forti del divieto di schiavitù - possono affermare anche il divieto netto e generale di commercio delle varie parti. Ma è proprio vero che il principio che vieta la cessione del corpo in toto è immediatamente applicabile anche a ogni parte separata? Di fatto, sino a pochi anni fa era impossibile usare tali parti: era possibile ridurre una persona in schiavitù, ma il padrone non poteva in nessun modo usare il corpo dello schiavo per sostenere la propria vita fisica (o salute). Pertanto le ragioni che hanno portato all'affermazione del principio che vieta la schiavitù non sono le stesse che possono vietare la cessione di singole parti. Poiché esiste una differenza significativa tra la disponibilità del corpo in toto e la disponibilità delle parti separate dal tutto, quando si esamina quest'ultimo problema si devono tracciare ulteriori distinzioni relative alle diverse parti del corpo coinvolte: come peraltro ricordano gli autori a p. 41, sembra ci siano differenze significative tra l'uso temporaneo del proprio corpo per ricerche mediche su protocolli controllati, la cessione di parti che si rigenerano (il sangue, ecc.), di parti doppie (reni, ecc.); oppure la cessione di parti vitali vcuore, fegato, ecc.). Ciascuno di questi casi pone problemi specifici, che vanno trattati separatamente, per cui diventa difficile stabilire quel divieto netto e generale derivante dal principio specifico. Ma, lungi dall'indebolire la posizione, queste specifiche distinzioni ci consentono di individuare meglio quella "terza via" da tutti ricordata. Non potendo esaminare qui le varie questioni poste dai singoli casi, considero solo due esempi che mostrano come già oggi, in Italia, si tracciano le distinzioni sopra proposte. Primo caso: nel nostro paese la cessione del sangue a ben vedere non è totalmente "gratuita" (non dipende da puro altruismo). Infatti, i lavoratori dipendenti possono usufruire di una giornata di riposo: questa non è una ricompensa in denaro sonante ma è certamente un "incentivo" all'azione. Secondo caso: che fare con i "volontari sani" che si sottopongono a ricerche mediche, le quali non sono dannose per l'organismo (altrimenti non sarebbero nemmeno proponibili), ma richiedono dei sacrifici e tempo. Alcuni affermano che il volontario sano deve offrirsi per puro altruismo, ma solo dei "santi" accetterebbero tale condizione, perché le persone "normali" (cioè dotate di un livello medio di benevolenza o altruismo) non sacrificano le vacanze o il tempo libero tra prelievi e controlli per puro