< la nostra interpretazione del Machiavelli, mi sembra che si debba all'ingrosso rispondere così. L'esperienza storica della quale siamo stati partecipi, attori e vittime, esclude in noi l'indifferenza, nonché l'indulgenza, per il concetto che il Machiavelli propose della violen- za come di uno strumento, non soltanto inevitabile, ma necessario e pertanto legittimo, dell'azione politica. Di più, la fiducia che il Ma- chiavelli nutriva, ingenuamente e contro la lezione stessa dei suoi tempi, nel successo, sia pur temporaneo, della violenza, deve appa- rire a noi con tutta evidenza infondata. D'altra parte la nostra espe- rienza ci avverte di cosa che non era entrata forse mai nel calcolo dei precedenti interpreti: che cioè l'uso della violenza nell'azione politi- ca può essere tale da ridurre al confronto quello sperimentato e teo- rizzato dal Machiavelli alle proporzioni di un gioco crudele di fan- ciulli male educati. Cesare Borgia finisce per essere quél che era nel- la storia economica e del lavoro un industrioso artigiano di quattro secoli fa, solo a bottega, di fronte a una grande industria dei giorni nostri. In contrasto con le obiezioni e riserve che al Machiavelli fu- rono opposte in altri tempi, noi siamo oggi consapevoli del fatto che la civiltà umana avanza a un tempo stesso sulla via della solidarietà e della legge e su quella della violenza e del sopruso, e che il progresso dell' una parte non esclude, anzi, il progresso, o regresso che dir si voglia, dell'altra. Di qui il riconoscimento che a noi riesce pieno e spontaneo come forse non mai in passato, non della legittimità, ma della realtà e in certo senso della inevitabilità storica della violenza. Perciò anche il riconoscimento della giustezza e della formidabile ampiezza del panorama aperto dalla dottrina machiavellica quale che sia la giustificazione da lui tentata: il panorama di una vicenda politica tutta percorsa da distruttive forze demoniache, alle quali null'altro può opporsi che la ragione armata (non propriamente la ragione delle armi). Anche ci fa subito consenzienti, nel rileggere oggi l'opera del Machiavelli, la rinuncia sua alle facili, oziose, infon- date illusioni, il bisogno che egli sentì e affermò di voler vedere le cose come sono. Poco importa che in realtà il Machiavelli abbia poi spesso e volen- tieri preso equivoco nella considerazione dei fatti, sia stato cioè uno storico di gran lunga inferiore al teorico dell'azione politica. I suoi errori importano sì, ma non a discapito del principio dal quale egli partiva. Finalmente, alla luce della nostra esperienza, nuovo risalto prendono due antinomie fondamentali nell'opera machiavellica e nella tradizione stessa degli interpreti di quell'opera: la prima è posta dalla coesistenza di elementi tirannici e repressivi da un lato e di ele- menti liberali e rivoluzionari dall'altro; la seconda è posta dalla coe- sistenza nell'opera del Machiavelli di elementi umani puri di ogni qualificazione nazionale e d'altra parte di elementi indubbiamente nazionalistici. Non vi è stata mai e non vi è questione sul fatto che questi contrastanti elementi esistano nell'opera del Machiavelli. La questione è tutta nel loro rapporto, e qui la nostra viva e dolente esperienza può insegnarci qualcosa, che ad altri forse nel passato non poteva insegnare la loro. Concludendo, non mi sembra ci sia og- gi necessità alcuna di tornare al Machiavelli piuttosto che ad altri au- tori; ma ove si torni a lui, mi sembra che non manchi materia di utili e nuove considerazioni. Il punto è che si applichi allo studio del Ma- chiavelli il principio stesso che egli volle applicato allo studio della vita politica, di veder cioè le cose come in effetto sono, non come do- vrebbero essere, nei loro vari aspetti, non soltanto in quelli che rie- scono più ovvi e più chiari. Ovvio, ad esempio, è che si legga di Ma- chiavelli il Principe, e questa lettura può sembrare, a prima vista, chiara. Meno ovvio è che si leggano i Discorsi. Come dimostra il fatto che di quest'opera, pur da tutti riconosciuta fondamentale, non esi- ste, neppure in Italia, una edizione commentata. Ecco ora una nuova traduzione inglese, che insieme per la prima volta fornisce l'indi- spensabile commento. Basterebbe ciò a stabilire il pregio di questo lavoro. Chi lo ha com- piuto non è uno specialista di studi italiani. Tanto meno è un ammira- tore senza riserve del Machiavelli. È un uomo che ha voluto veder chiaro in una dottrina della vita e della storia umana, diversa e in parte avversa a quella che egli stesso fermamente professa. E per veder chia- ro non ha risparmiato fatica. Ha preso la via lunga e disagevole della traduzione e del commento. E di un commento si tratta che non è fon- dato su personali sbrigativi giudizi, ma su di un paziente e preciso con- trollo dei fatti storici ai quali il Machiavelli si riferisce nei Discorsi, del- le opinioni da lui espresse qui e nelle altre sue opere, delle fonti parte dichiarate e parte sottintese delle quali egli si è valso, di talune più im- portanti reazioni alle quali le opinioni sue hanno dato luogo. Tutto ciò, cui ancora si aggiungono sedici tavole cronologiche, genealogiche e riassuntive delle fonti, delle sviste, della terminologia e due indici dei nomi propri e dei soggetti, costituisce un sussidio di incalcolabile uti- lità per chi legga i Discorsi. Riserve e obiezioni particolari potrebbero farsi. Mi limiterò ad una che può invece applicarsi generalmente al commento e alla introduzione, dove è un largo riassunto critico della vita e della dottrina del Machiavelli. Indubbiamente non è facile stabi- lire una linea divisoria netta fra il lavoro del traduttore e quello dell'in- terprete di un'opera. Una differenza tuttavia esiste. Ora a me sembra che il lavoro di Fr. Walker rappresenti piuttosto una "dimidiata conta- minatici" che non la somma di una traduzione e di un'interpretazione. Mi spiego: se il suo lavoro si considera come quello di un traduttore che al tempo stesso è tenuto a fornire le necessarie informazioni sul te- sto tradotto, parrà a tutti evidente che egli ha fornito molto più di quanto fosse lecito attendersi. E la riprova è nel fatto che anche chi possa fare a meno della traduzione e sia in grado di leggere l'originale volentieri ricorrerà, anzi dovrà ricorrere, a questo primo indispensabi- le commento. Ma se si considera il lavoro di Fr. Walker come quello di un interprete che è tenuto a dare un'interpretazione adeguata allo sta- to attuale degli studi, non soltanto inglesi, sul Machiavelli, altrettanto evidente parrà in tal caso che egli dà, forse di proposito, meno di quel che fosse lecito attendersi. Ne consegue, ad esempio, che un lettore inesperto rischia di ricavare l'impressione che sul Machiavelli l'ultima parola degli studi italiani sia tuttora rappresentata dalle opere del Vii- lari e del Tommasini, apparse nel secolo scorso, e che altre opere criti- che moderne, degne d'essere lette e discusse, non esistano, all'infuori dei quattro libri di Mr. Foster e dei professori Butterfield, Whitfield e A.H. Gilbert e di un articolo del professor Hancoch. Grazie a quest'ultimo, è entrato una volta per incidenza nell'introduzione di Fr. Walker (p. 71) il nome del Croce, e una volta anche, per incidenza e in parentesi, vi ricorre il nome del Meinecke. Dubito che il lettore ine- sperto possa farsi di qui un'idea dell'importanza che i giudizi del Cro- ce e del Meinecke hanno avuto e hanno per l'interpretazione del Ma- chiavelli. Analoghe osservazioni potrebbero farsi sul commento stori- co, di regola fondato sulla sola Cambridge History e sulla Storia del Pa- stor; o sui riscontri con altri autori contemporanei (osservo a questo proposito che le opere minori del Guicciardini sono ancora citate se- condo le edizioni del secolo scorso). Questa informazione bibliografi- ca limitata o arretrata fa sì che a volte anche il giudizio di Fr. Walker non riesca persuasivo. Desidererei ad esempio maggior cautela nel de- finire "pagani" atteggiamenti in apparenza non cristiani del Machia- velli, come di molti altri autori del Rinascimento. Gli studi moderni hanno di molto mutato il quadro della cultura italiana di quell'età, in rapporto per l'appunto col problema religioso. Si trattò senza dubbio di una grave crisi religiosa, ma, con pochissime eccezioni fra le quali non credo fosse il Machiavelli, si trattò di una crisi religiosa interna del Cristianesimo, non all'infuori e contro di esso. Allo stesso modo e per le stesse ragioni non mi persuade quel che Fr. Walker dice a p. 28 della sua introduzione, che cioè "the true cause of Italy's decadence was not the Church, but the Renaissance". Che non fosse la Chiesa, è certo, ed è anche giusto quel che Fr. Walker osserva circa la profonda differenza che si verificò allora fra la classe dominante e la massa della popolazio- ne (non direi però che questa fosse migliore di quella; direi semplice- mente che non vi era fra luna e l'altra una sufficiente intesa e un suffi- ciente scambio). Ma sembra a me un paradosso che si continui ad at- tribuire la responsabilità della decadenza italiana proprio al Rinasci- mento, che pure, per comune consenso, fu la forza e la gloria dell'Italia in quella età. Il fatto che questa forza e gloria civile si sia accompagna- ta da un lato a debolezze morali e dall'altro a debolezze politiche non giustifica la conclusione che questi due ordini di debolezze stiano fra loro in un rapporto di causa e di effetto. È il caso di dire che "non om- nia possumus omnes". Ed è il caso anche di meditare, sul testo stesso del Machiavelli, il rapporto fra politica e morale. Sul testo del Machia- velli e sulla nostra esperienza storica. Sappiamo che il dispregio della legge morale si converte in debolezza politica e contribuisce alla meri- tata catastrofe di chi lo professa, ma non abbiamo ragione di condivi- dere la tesi cara al governo di Vichy che attribuiva all'esprit de jouissan- ce la disfatta politica e militare della Francia nel 1940.