GIUGNO 1999 Vita pantanosa BIANCAMARIA FRABOTTA Carlo Emilio Gadda Giornale di guerra e di prigionia pp. 438, Lit 39.000 Garzanti, Milano 1999 La carriera letteraria di Carlo Emilio Gadda, indiscusso campio- ne dell'antiromanzo novecentesco italiano, cominciò con un atto di fede, un gesto di risolutezza epica, una scelta di obbedienza e di adempimento che lo gettarono an- cora giovanissimo, nel fuoco della Grande Guerra, cui partecipò co- me volontario dal 1° giugno del 1915 fino al 3 ottobre del 1919, giorno in cui fu definitivamente collocato in congedo. Congedo, per modo di dire, più burocratico che effettivo, dal momento che Gadda, per di più stroncato dal dolore per l'eroica morte dell'ama- tissimo fratello Enrico, non si ri- prese più dalla frustrazione e dal- l'amara disillusione di una guerra vissuta a denti stretti, nella mace- razione interiore e nel castigo di un ideale che lo rasentò lasciandolo nell'amara consapevolezza di una psicologia obliqua e tortuosa, del tutto inadeguata alla sua aspirazio- ne al rigore e al severo esercizio dell' autodisciplina. Quando Gadda si risvegliò da quell'incubo era certo un altro uo- mo. Altro almeno rispetto alla uto- pica proiezione di sé che l'irripeti- bile esperienza del fronte gli aveva messo a disposizione, per riscattar- si dai penosi strascichi di un'infan- zia travagliata, di un carattere iper- sensibile e ipocondriaco, tormen- tato e insufficiente. Per il sottote- nente Gadda quella doveva essere "una guerra giusta e santa" e ma- gari lo spunto per "una morte utile e bella". Fu invece un martirio, un supplizio personale e collettivo, e infine, dopo la disfatta di Caporet- to, l'ignominia di una prigionia da cui, almeno interiormente, non si sarebbe mai più liberato. In molti modi dunque si può leggere la puntigliosa puntualità con cui Gadda decise di scrivere la sua guerra, prima quasi di viverla e quando era certamente ignaro del processo di stilizzazione estetica cui avrebbe in seguito sottoposto i suoi ricordi, a partire dalla squisite prose del Castello di Udine, che gli permisero almeno di rivivere dal- l'alto della sublimazione linguisti- ca ciò che la vita gli aveva sottratto. Scrivere la guerra significò in pri- mo luogo descriverla, catalogarla, fornirle il paranoico ordine di una cronaca cocciuta e minuta, una ri- gorosa trascrizione dell'essenza stessa della vita militare, come la poteva intendere un uomo d'ordi- ne, aspirante all'azione e alla virile pragmaticità di un eroismo senza retorica. E certo così voleva sentir- si il giovane Gadda, marciando alla testa dei suoi soldati, nella fatica delle esercitazioni, nella focosa ab- negazione di un riscatto non lette- rario, ma reale. "Noi non abbisognamo di Ter- mopili, vogliamo Magenta e Solfe- rino", andava appuntando nella prosa spoglia, scarna, romanamen- te icastica di quel Giornale di guer- ra e di prigionia cui il futuro autore della Cognizione del dolore decise di affidare i più contraddittori mo- venti che lo avevano sospinto in trincea. Bisognava intanto dar tre- gua ai soprassalti del cuore in tu- multo ogniqualvolta "la vita panta- nosa della caserma" lo costringeva alla tortura dell'inazione e alla "morbosa sensibilità" di una intel- ligenza analitica sempre oscillante fra "nevrastenia" e "apatia". "Il pasticcio e il disordine mi annien- tano", scrive con profetica chiarez- za il futuro cantore del gnommero, del supremo pasticcio che pulsa nell'inerte materia del cosmo. L'apocalisse storica della guerra è già in questo diario la premessa di una catastrofe metafisica, da cui Gadda trarrà ben altro che una pur lucidissima capacità di autoanalisi, cui infatti non farà più ricorso in seguito. Almeno non con queste modalità stilistiche e psicologiche. Mai più Gadda vorrà una scrittura così virtuosamente innamorata del reale e vogliosa di catturarne l'inaf- ferrabile "ordine", di spremerne la verità fino a disseccarne la linfa in una divorante brama di autocon- trollo. Per la prima e ultima volta le emergenze pubbliche e private combaciano, anche se in negativo, e il problema Gadda, il nucleo esi- stenziale della sua futura, grandio- sa inconcludenza, mostra qui le sue nude radici. La verità gli appare proprio nel momento in cui si ripiega, si accar- toccia su di sé con lo sfrigolante at- trito del giovane virgulto gettato nel fuoco ancora verde. Ed ecco che il diario trascende se stesso e diveiìta un cinegiornale dell'anima, po- tremmo dire, un appassionante do- cumento storico e un preziosissimo incunabolo della futura narrativa gaddiana. Del resto un diario, an: che non esplicitamente bellico, è sempre una scrittura di trincea, ov- vero lo scavo fangoso e putrido del- la verità propria e altrui. E in queste allarmanti pagine, non sempre amabili, spesso spietate e grotte- sche (i feretri come casse di biscotti, le trincee piene di merda, i soldati che colgono l'erba che dovrà mime- tizzarli come vecchiarelle che fanno l'insalata) si raggruma una sorta di sinossi del Gadda prossimo ventu- ro, sublime nell'uso sistematico e ossessivo dell'antisublime. Senza escludere lo straordinario interesse di un interventismo, né nazionalistico, né umanitario, anzi costituzionalmente estraneo alle "diarroiche ideologie" spesso in- vocate per celare l'ignoranza e l'in- capacità degli alti comandi, la loro ciarlataneria, o l'inafferrabile qua- lità etica di un popolo con cui Gad- da non potrà mai identificarsi fino in fondo. Ecco dunque un'altra possibile fruizione di questi diari, leggibili come un trattatello sul ca- rattere degli italiani, o sulla "porca rogna italiana del denigramento di noi stessi", da cui Gadda non è cer- to indenne, soprattutto quando è contro di sé che rivolge le sue acu- minate metafore. Sognarsi diversi da quello che si è, è una indicibile sofferenza. E Gadda non fa altro nella prosa di questo Giornale di guerra e di pri- gionia, che assai opportunamente Garzanti ripropone ora in un solo volume di compatta e incisiva pre- gnanza storica e letteraria. Si vuole altro da sé, diverso, irriconoscibile, tutto d'un pezzo, magari: come cit- tadino, come soldato, come italia- no, come scrittore. E lo stesso pre- tenderebbe dalla odiosamata razza dei suoi connazionali, volta per volta prototipo dell'"italiano caro- gna", o della divina "serena" sua gente, ma sempre assai distanti, nella effettuale realtà di una lunga, inarrestabile decadenza, dall'in- transigente rigore del patriottismo gaddiano. Ed ecco che per molti anni quei diari proiettarono sulla turbata coscienza di Gadda l'om- bra lunga di un parziale discono- scimento. Soltanto negli anni cinquanta, fra mille dubbi e reticenze, si deci- se a pubblicarne una parte, anche se, per leggere il cosiddetto Taccui- no di Caporetto che con inesorabile precisione inchiodava il comando militare italiano alle sue responsa- bilità, bisognò attendere la morte di Alessandro Bonsanti, cui Gadda aveva affidato il manoscritto, "per- ché lo custodisse proteggendolo col più rigoroso segreto". Bonsanti obbedì: "I vecchi amici, come i fa- migliari, possono diventare l'in- gombro più pesante", diceva per giustificare la sua scelta di fedeltà. Poi, per decisione unanime dei po- steri, i diari di Gadda furono final- mente rimessi in libertà: a cercare, al di là del loro stesso autore, sem- pre nuovi e diversi interlocutori. N. 6, PAG. 10 Modernità e violenza NOVELLA BELLUCCI Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale a cura di Andrea Cortellessa prefaz. di Mario Isnenghi pp. 514, Lit 24.000 Bruno Mondadori, Milano 1998 Destino singolare è toccato all'antologia di Andrea Cortelles- sa. Nata da poco, mentre è ancora nella condizione di libro attuale, anche grazie a un'ottima (e ben meritata) accoglienza, di quella at- tualità si trova a sperimentare un imprevisto rilancio: la guerra sarà pure "un asintoto mentale", come scrive l'autore à conclusione delle dense pagine introduttive, sarà pu- re "un concetto-limite", "l'assolu- ta negatività concepibile", ma non è poi detto che "abbiamo final- mente imparato a conoscerla", se oggi, ancora oggi, molto vicino a noi le bombe cadono e devastano, ufficialmente legittimate da "scopi umanitari" e soprattutto guidate da una rassicurante "intelligenza". Se mai sorgerà una letteratura in- torno a questa ultima guerra, allo- ra un'eventuale antologia che vo- glia ispirarsi ai criteri tassonomici utilizzati da Cortellessa per ordi- nare lo sterminato materiale poeti- co prodotto intorno al primo con- flitto mondiale dovrà certo elimi- nare qualcuna delle sue caselle, ma sarà autorizzata ad aggiungerne al- tre; e potrebbe trattarsi di veri e propri virtuosismi ossimorici: La guerra intelligente e La guerra uma- nitaria. Tutto questo per dire che Le notti chiare erano tutte un'alba è un libro che non riusciamo più a leg- gere come quando è uscito, solo pochi mesi fa, alla fine del 1998, e cioè come un volume appartenen- te al genere della critica letteraria: un'antologia tematica relativa alla produzione poetica delle genera- zioni primo-novecentesche, origi- nale occasione per fare il punto sulla letteratura di quei decenni. Slittamento di prospettiva che dipende anche da Cortellessa, il quale del suo ruolo di selezionatore e ordinatore dei testi ha accettato tutta la responsabilità, non facendo nulla per raffreddare l'incande- scenza della materia, non privile- giando un'asettica analisi letteraria rispetto all'urgenza del giudizio critico e morale. Se questa antolo- gia mette in campo una produzione tematica per la quale i termini della difficile coppia storia-letteratura trovano una indiscutibile tangenza, il suo ideatore ha letto la poesia senza mai perdere di vista la trau- maticità dell'occasione specialissi- ma che di tale poesia è stata fonte. Risultato è che questo libro si presenta insieme come una rifles- sione originalmente ricca sul No- vecento alla luce del nesso ineludi- bile "modernità-violenza"; come una osservazione storico-antropo- logica del fenomeno guerra e dei suoi orrendi risvolti ideologici e ►