N. 12 51 P che moi uskin è come l'eterno festeggiato di un giubileo senza fine, un poeta che non fa altro cne morire (il duello, la morte, le ultime parole allo zar, l'addio alla moglie ecc.)". Nel bicentenario della nascita di Puskin questo monito di Marina Cve-taeva è un sicuro antidoto contro la riduzione del poeta a servo di quella plebe consumista generata dal nuovo affarismo russo (con il suo bric à brac puskiniano), dopo che il settan-tennio socialista ha tentato di ridurlo a servo del potere sovietico. Negli anni venti Cvetaeva avvertiva come un pericolo il fatto che l'aridità filistea (sia mercantile, sia bolscevica) si impossessasse del culto del sommo poeta russo, riducendolo a icona del luogo comune sull'artista da romanzetto rosa: un eccentrico dandy vinto dal vuoto della noia, che in un eccesso di folle gelosia si fa uccidere in duello. Puskin ha smascherato anzitempo in II poeta e la plebe la crudele stupidità filistea, allontanandola da sé con un atto di sovranità: "E col cretino non discutere". La grandezza di Puskin consiste, invece, nel-l'aver saputo eseguire il mandato del proprio tempo e, in tal senso, è nostro contemporaneo, perché fa parte di quella esigua minoranza nella quale si epito-mizza la "compresenza del meglio". In tal senso Puskin è stato l'autentico protagonista del Novecento russo, e senza il retaggio puskiniano non ci sarebbe stata "l'età d'argento" d'inizio secolo, e il continente sommerso della cultura russa, esiliata e perseguitata, non sarebbe sopravvissuto all'età d'acciaio sovietica. Ora che la Russia sta vivendo uno dei suoi evi estremi ed è alla ricerca di un destino e di un'identità, ancora una volta Puskin diventa il tema centrale di quest'epoca torbida e crudele, perché è il poeta degli smarrimenti della Russia. Nel corso del Novecento Puskin è stato il Virgilio russo, una guida per quegli intellettuali e artisti che in epoca sovietica hanno ripercorso (non metaforicamente) il cammino infernale di Dante, attraversando le tragedie di quello che Mandel'stam (morto nel gulag staliniano) ha definito il "secolo belva", essendone il più delle volte divorati. Secondo Chodasevic (considerato da Nabokov "il più grande poeta russo" di questo secolo, il cui talento fu oscurato dalla "notte europea" dell'emigrazione forzata), il Novecento russo, costretto a vivere nella Necropoli dell'emigrazione o della deportazione nel gulag, ha avvertito la "pressante necessità" e un'"impetuosa aspirazione" a sentirsi prossimo di Puskin (il poeta esiliato in patria che aveva coltivato come un fuggitivo la propria "libertà segreta") nell'epoca della diaspora e dello smarrimento. Questa "impetuosa aspirazione" è alla base dell'ultimo romanzo scritto in lingua russa da Vladimir Nabokov (del quale ricorre quest'anno il centenario della nascita), Il dono (Adelphi, 1998), pubblicato nel 1937 quasi a voler celebrare degnamente il centenario della morte di Puskin. 1799-1837 La libertà segreta del fuggitivo Roberto Valle Puskin. Concepito nel travaglio dell'"odissea di una tribù mitica", l'intelligencija russa perseguitata dal potere sovietico e sconosciuta agli intellettuali occidentali stregati dalla propaganda comunista, il romanzo di Nabokov è pervaso dall'impeto e dalla circolazione dell'"idea puskiniana" identificata con l'idea russa tout court. Per Nabokov, ciò che rimane della Russia prerivoluzionaria è la "viva presenza" del Puskin che ha fatto dei conti speciali con il fato, per cui dalla sua opera si possono desumere "tragiche riflessioni sul futuro". Secondo Nabokov, Puskin è "la riserva aurea" della cultura russa; tuttavia II dono non fa l'apologia del sommo poeta: la sua grandezza risulta, secondo la tecnica del contrappunto, dalla parodia del radicalismo rivoluzionario. Il protagonista del romanzo di Nabokov, Godunov-Cerdyncev, scrive un saggio sulla vita di Nikolaj Gavrilovic Cernysevskij, capostipite AeWintelli-gencija rivoluzionaria ottocentesca, autore di Che fare?, dal quale discende per linea diretta Lenin. Con sapiente ironia, il saggio di Godu-nov-Cerdyncev spoglia il personaggio di Cernysev-skij di qualsiasi retorica rivoluzionaria, riconsegnandolo alla storia come un ottuso materialista incolto, un austero monaco rivoluzionario che ama la posa eroica e che, invece, somiglia a "un povero eroe gogoliano", a un travet della rivoluzione che "fa ridere tra le lacrime". Nel Dono Nabokov traccia una puskinana "linea invalicabile" tra la stirpe di Puskin (alla quale egli stesso appartiene) e la stirpe di Cernysevskij (alla quale appartengono i bolscevichi). Il retaggio di Cernysevskij (fautore dell'utilità rivoluzionaria dell'arte) ha influenzato enormemente i giudizi burocratici della critica letteraria sovietica, che non è mai riuscita a omologare ideologicamente Puskin. Nei confronti dell'opera di Puskin, secondo Nabokov, Cernysevskij si era comportato in maniera non dissimile dalla polizia zarista, denunciandola per lesa maestà della causa rivoluzionaria e giudicandola superflua, un "cumulo di sfarzose sciocchezze" e una scialba imitazione di Byron. Nonostante tutti i tentativi di uccidere (metaforicamente) l'imbarazzante e superfluo Puskin (da Cernysevskij alla critica sovietica), il fantasma del poeta ricompare sempre ad agitare i sonni dei suoi persecutori e censori, come nel- X'imagerie contenuta nel romanzo di Nabokov. Nakobov si riferisce implicitamente al Puskin aurorale, che era stato celebrato da Dostoevskij nel suo famoso discorso nel 1880. Dostoevskij considera Puskin il principio della "vera autocoscienza" russa forgiata nell'erranza tra Oriente e Occidente. Puskin, infatti, sfugge alle asfittiche definizioni occiden-taliste o slavofile, e la sua visione del mondo è universale proprio per il suo essere nazionale. La cultura russa ha appreso da Puskin oltre all'arte della vita anche l'arte della storia, intesa come conservazione della memoria di un popolo, come legame vivo tra le generazioni, al di là delle cesure imposte dal potere. In tal senso Puskin è stato il primo indagatore degli smarrimenti russi: la sua intenzione (quasi un'ossessione) di scrivere una storia di Pietro il Grande e del Settecento russo (con La figlia del capitano e la Storia della rivolta di Pu-gacèv) era suscitata dalla volontà di sottrarre la storia russa all'ufficialità imperiale. Guidato dalla "libertà segreta" della creazione artistica, Puskin riesce a cogliere alcune costanti del destino storico russo: le cesure rivoluzionarie imposte dall'alto, la figura dell'usurpatore che compare nelle torbide età del caos, l'insensatezza e la crudeltà della rivolta russa, l'ambivalente confronto con l'Europa, dalla quale la Russia non può essere esclusa. Questi temi sono presenti non solo nei lavori esplicitamente storici di Puskin (anche in Ta-ble-Talk, raccolta di aneddoti sull'età di Pietro il Grande), ma anche nel poema II cavaliere di bronzo, nel quale, durante l'inondazione di Pietroburgo del 1824, la statua equestre di Pietro il Grande si anima per inseguire Evgenij, un pover'uomo che con l'inondazione ha perduto tutto e che ritiene responsabile delle proprie disgrazie lo zar, che con la sua volontà titanica ha preteso di fondare Pietroburgo, una capitale costruita sull'acqua (cfr. Solomon Volkov, San Pietroburgo. Da Puskin a Brodskij, storia di una capitale culturale, Mondadori, Milano 1998, pp. 555, Lit 60.000). Nel grande romanzo in versi Evgenij One gin, Puskin disvela la sembianza sconvolta di una Russia in preda alla noia e all'angoscia, che per accidia sogna il miracolo imposto dai suoi despoti, quello di saltare con un balzo apocalittico cinquecento anni di storia. Puskin vede la storia russa dibattersi tra l'accidia oblomoviana e l'ambizione, quale affermazione di una missione storica di portata universale: il brusco passaggio dall'accidia alla volontà di potenza ha comportato veri e propri salti nel vuoto, come nel 1917, quando la rivolta russa di Pugacèv si è tinta di rosso bolscevico. Dall'abisso nel nuovo inizio ex nihilo emerse ancora una volta la voce di Puskin: così Pa-sternak, nel 1927, al tempo dell'edificazione socialista, poteva rivendicare la propria appartenenza alla stirpe di Puskin, perché la sua estetica così "vasta ed elastica" permette diverse interpretazioni attraverso le epoche: 1'" impetuosa inventiva" di Puskin consente di comprendere la decomposizione della contemporaneità e di costruire qualcosa "partendo da se stessi", quale somma responsabilità della libera individualità di fronte alla storia. Tale responsabilità assume in Puskin una dimensione shakespeariana nel Pestino in tempo di peste, che nella letteratura russa del Novecento è assurto a metafora dell'arte al tempo del comunismo, perché insegna a celebrare ironicamente il contagiarne morbo della tragedia storica: come scrive Puskin, nell'"ebbrezza della battaglia", sul "ciglio tetro dell'abisso", di fronte "a tutto ciò che minaccia morte", "porsi al centro delle ansie" diventa una ragione di felicità. Questo festino in tempo di peste, che ha caratterizzato un settantennio di storia russa, ha portato alla decimazione dell 'intelligencija: in questa fin de siècle resta solo la mitologia di un'Atlantide leggendaria forgiata dalla poesia di Anna Ach-matova e presente nelle opere di poeti e scrittori del tardo Novecento, quali Josif Brodskij e Andrej Bitov (autore del romanzo La casa Puskin scritto all'epoca della "radiosa clandestinità'" e pubblicato in Occidente nel 1978 e in Urss nel 1987). La stirpe puskiniana, con la sua vicenda sotterranea, si è assunta il compito di "sconvolgere il Novecento" (come recita un verso del Poema senza eroe di Anna Achmatova), di scompigliare la storia ufficiale sovietica (con il suo nuovo inizio) e di ricostruire "il legame sfilacciato dei tempi". In questa prospettiva va considerato il lavoro critico del grande storico della cultura russa Ju-rij M. Lotman (scomparso nel 1993) che, oltre ad aver scritto un fondamentale commento dell 'Onegin, ha dedicato a Puskin importati saggi e una biografia (Puskin, 1990; Liviana, 1990). Lotman considera Puskin il modello di un comportamento esemplare, tipico di coloro che sono in rivolta permanente contro una società tirannica e ne infrangono le norme, con fermezza e stoicismo, senza per questo assumere la posa grave e ideologica, ma con leggerezza e ironia (perché l'allegria è sinonimo di libertà, e il "monachesimo ironico" del poeta si contrappone al servilismo della folla pusillanime che non ascolta la "voce della verità"). Lotman afferma che, come dimostra Puskin in Boris Godunov, ogni potere antipopolare è destinato a fallire, e che nelle contese ideologiche, con i loro cruenti antagonismi, la strada giusta, indicata da Puskin, non sta nel passare da un campo all'altro, ma nell'elevarsi al di sopra del "secolo crudele", conservando l'umanità, la dignità e il rispetto della vita altrui. E questo il messaggio panu-manitario e paneuropeo che Puskin ha consegnato al XX secolo della Russia-Urss-Russia e che è ancora valido per il futuro, come ha sottolineato una grande testimone del "secolo belva", lo storico e critico Dimi-trij Lichacèv (morto novantaduenne il 30 settembre 1999). In un libro del 1991, Riflessioni sulla Russia (che meriterebbe una traduzione in italiano), riprendendo un'intuizione di Dostoevskij, Lichacèv suggerisce alla Russia postcomunista di seguire la via storica indicata da Puskin, quale ideale incarnato della cultura russa, capace, nel contempo, di essere nazionale e di recepire le influenze straniere, facendole proprie. La Russia postcomunista può trarre da Puskin, secondo Lichacèv, il senso dell'eccezionale varietà del suo retaggio culturale, evitando così di smarrirsi nuovamente nell'ossessione del compimento di una missione storica inedita e inaudita: "Qualora fos-. se compilata, l'enciclopedia di Puskin, potrebbe essere fonte di una cultura smisurata per qualsiasi lettore".