SETTEMBRE 1999 Io scandalo, certo, fu grande. E non c'era ancora il "mieli-smo", vale a dire il giornalismo aggressivo promosso da Paolo Mieli sullo stesso terreno culturale e storiografico. Correva comunque l'anno 1766. E Simon-Nicolas-Henri Linguet, destinato a perdere (letteralmente) la testa nel 1794, scrisse VHistoire des ré-volutions de l'empire romain, apologia subito ritenuta insolente del principato assolutistico-popolare, del dispotismo riformatore a sfondo sociale e di tutti quegli esecrabili imperatori, qui fu lo scandalo, che la "vulgata antidispotica" aveva fieramente condannato. Per Linguet, uomini come Tiberio e Nerone, non importa se dissoluti o anticristiani, erano stati amici del buon popolo minuto e nemici della rapace oligarchia senatoria, che li aveva contraccambiati calunniandoli. - Ma come?, si disse. - Dove andremo a finire di questo passo? E Tacito? E Svetonio ? E la storiografia "ortodossa"? E il pére Montesquieu? Né ai riformatori intrisi di lumi, né ai sostenitori delle prerogative intangibili del potere regio, poteva del resto piacere la riabilitazione di Nerone & Co. La stessa fortuna di Linguet, in seguito a questo coup de théàtre storiografico, subì un duplice e contraddittorio percorso: nel secolo successivo egli infatti venne talora definito un tirannolatra e talora un protosocialista. Nessuno, a Dio piacendo, ebbe a definirlo "revisionista". Ma se l'oggi imperversante parola allora non esisteva, la cosa esisteva già. Eccome, se esisteva. E aveva, come ha, a che fare con L'uso pubblico della storia, titolo fortunato di un volume di saggi curati da Nicola Gal-lerano (Angeli, Milano 1995, pp. 240, Lit 34.000; sempre di Gallerano, sullo stesso tema, si veda ora anche la raccolta Le verità della storia, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 306, Lit 26.000). "L'Indice" ha comunque già messo in evidenza (cfr. "Babele", 1998, n. 8) che la parola "revisionismo" ha avuto cittadinanza specificamente storiografica, sui giornali, solo a partire dal 1978, anno della pubblicazione, da parte di Furet, del suo gran libro Penser la Révolution frangaise, tradotto l'anno successivo da Laterza con il titolo, distorto dal già rovente dibattito, Critica della rivoluzione francese. Di un percorso in qualche modo esemplare ora sappiamo molto di più grazie a Francois Furet, Un itinéraire intellectuel (Calmann-Lévy, Paris 1999, pp. 618, FF 180), ricco e affascinante volume che raccoglie gli scritti giornalistici comparsi sul "France-Observateur" e sul "Nouvel Observateur" tra il 1958 e il 1997. Si conferma, come aveva suggerito Franco Venturi, che la storia delle idee politiche è orfana senza la storia politica delle idee, vale a dire senza il contesto (che proprio questi articoli fanno emergere) in cui un tragitto intellettuale e storiografico viene prodotto. La proposta di Furet, costantemente " autorevisionistica ", fu del resto debitrice, nello studio della Rivoluzione francese, di volta in volta di Constant, Mme de Staèl, Michelet, Talmon, Cobban, Tocqueville, Cochin, Marx, Qui-net, tutti maestri nell'affondo "revisionistico" (un modo di essere dell'itinerario interpretativo e non una fatua provocazione), tutti da <£ ocrn-te-ótcr - ~y\-c\-AL-*L-c\-'to-'L-L ita-Li La storia ammaccata Piccolo catalogo di tentazioni revisioniste BRUNO BONGIOVANNI « Furet brillantemente utilizzati nella critica di un'altra vulgata, questa volta " lénino-populiste". In un corpo a corpo con il proprio passato comunista, Furet, che rimase un uomo di sinistra (come i giornali su cui scrisse), arrivò di fatto a una fecondissima afasia davanti al fenomeno rivoluzionario, diventato, come poi il comunismo, un'illusione mentale, una ubriacatura parossistica della pubblica opinione, un'allucinazione misteriosamente gravida di rumore e di furore. Un serrato confronto, in nome del conflitto concreto, con le letture cosiddette "revisionistiche" dell'età moderna, creatrici peraltro di ormai ineludibili e paradossalmente efficaci miraggi storiografici (non solo Furet, ma Cobban e gli eredi inglesi di Burke), si può trovare in Francesco Benigno, Specchi della rivoluzione. Conflitto e identità politica nell'Europa moderna (Donzelli, Roma 1999, pp. 302, Lit 38.000). Va però ribadito che gli unici ad autodefinirsi collettivamente "revisionisti", tanto da pretendere di costituire una scuola, sono i membri della setta "negazionista", vale a dire quanti negano la shoah. Si veda, a riprova di ciò, il fascicolo della rivista neo(nazi)fascista "l'Uomo libero" (41, aprile 1996, pp. 128, Lit 20.000) dedicato a Pluralismo e revisionismo e provvisto di un'eloquentissima, foltissima e certo preziosa Bibliografia revisionista. È pur vero, tuttavia, che anche Ernst Nolte, un filosofo assai più che uno storico, nel primo numero (novembre-dicembre 1997, pp. 172, Lit 20.000) di "Nuova Storia contemporanea", con l'articolo Revisioni storiche e revisionismo storiografico, ha cercato di esibire un metodo, ma è riuscito, partendo da Erodoto, e soffermandosi sul prevedibile Lorenzo Valla, solo a ripetere un'ovvietà nota già a Tucidide: e cioè che il lavoro storio- | grafico ha a che fare con l'analisi critica. Sa-pevamcelo. Nessuno, d'altra parte, ha "revisionato" se stesso quanto Nolte (ca- _ ratteristica comune a - Furet e a De Felice): partito nel 1963, come poi De Felice, con l'intento sicuramente benemerito di dare sostanza storica compiuta ai fascismi e di individuare "un'epoca" (l'età tra le due guerre) in cui i fascismi avrebbero dispiegato la loro essenza, ha finito, a partire dal 1986, con l'annientare nichilistica-mente la realtà dei fascismi e a fare di essi una semplice risposta-imitazione-caricatura particolaristica del primo motore immobile universalistico del secolo, vale a dire della rivoluzione bolscevica. Riproducendo con ciò, ma in par-tibus infidelium, l'interpretazione marxista-leninista corrente, che fa del fascismo una reazione borghese al bolscevismo. Nolte sembra finalmente essersi accorto della faccenda e ha cercato, purtroppo confusamente, di ampliare e complicare l'asfittico e ultraripetuto quadro in- Si può sempre trovare un mascalzone nel passato .prossimo e remoto » terpretati-vo, peraltro diventato media-ticamente popolare proprio in ragione del suo ipersemplicismo, con I presupposti storici del nazionalsocialismo e la "presa del potere" del gennaio 1933 (trad. dal tedesco di Katia De Gennaro, Mari-notti, Milano 1998, pp. 186, Lit 29.000). Più provocatorio che altro, e tale da coinvolgere solo l'autore, vale a dire senza fortunatamente avere la pretesa di fondare una scuola, è il titolo dell'"instant" di Sergio Romano, Confessioni di un revisionista (Ponte alle Grazie, Firenze 1998, pp. 150, Lit 20.000), risposta affrettata ai critici delle poche paginette scritte un anno fa sulla guerra civile spagnola (cfr. "L'Indice", 1998, n. 8). Romano, beninteso, parte da valutazioni sacrosante (anche sul terreno geopolitico) in merito alla condotta e ai crimini di Stalin in Spagna, ma ignora che il pronunciamento di Franco contro la repubblica fu all'origine di tutto, continua a minimizzare Franco come male necessario e poi, in una deriva rutilante, sposando argomentazioni classiche delle due vere destre (la conservatrice e la radicale), e improvvisando una sorta di catalogo di revisioni urgenti, abbandona il Caudillo e percorre di gran carriera le responsabilità dell'America, la decolonizzazione, l'Africa bianca, la politica israeliana. Il guaio è che talvolta, invece di comprendere a fondo il fenomeno "revisioni-. » sta de Sui temi qui trattati si vedano Enzo Collotti, Revisionismo storiografico e nuova collocazione internazionale in La Germania e il contesto internazionale, a cura di Enzo Collotti e Brunello Mantelli, "Trimestre", XXXI/1-2, 1998, pp. 21-31, e Tommaso Detti e Marcello Flores, Il revisionismo ma- linteso, "il Mulino", pp. 5-14. XLVIII, 381, 1-1999, si ce-alla tentazione "militante" di scendere sul suo stesso terreno e di allestire un contro-catalogo pieno di _ buone intenzioni, come ha fatto, con un altro "semi-instant", Gianni Rocca (Caro revisionista ti scrivo..., Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 184, Lit 20.000). Non è però restaurando virtuose e peraltro improbabili "ortodossie" che si mette in discussione il "revisionismo" tassonomico-mediatico, che di tali "ortodossie", peraltro, golosamente si nutre. Meglio lasciarlo al suo destino, che è quello di riprodursi senza freni, cedendo al gioco al rialzo dello scandalo crescente e infilandosi in un vico- li lo cieco. Sino all'impossibilità di andare "oltre" e al silenzio. Il che, in questo 1999, sta già avvenendo. Più insidioso, e più ambiguo, è il tentativo compiuto da Domenico Losurdo (Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 86, Lit 9.000) di porsi e proporsi come una sorta di "Nolte di sinistra", ciò che gli ha procurato un meritato elogio, di Alberto Indelicato, ancora su "Nuova Storia contemporanea" (n. 5, settembre-ottobre 1998), rivista che ospita, tra non poche cose assai interessanti, anche la right wing dell'epigonismo defeliciano, unitasi in Fronte Popolare con i residui del nostalgismo tardostali-niano nella deprimente denigrazione "documentaria" di Silone. Ma torniamo al filosofo Losurdo, che accetta, nella ricerca di una Schuldfrage storiografica, il paradigma genealogistico di Nolte e arretra tuttavia nel tempo sino al colonialismo, fonte di tutti i mali successivi, e sostituto, nella spiegazione monocausale, del bolscevismo noltiano. L'Est europeo, con i suoi Ostjuden, è così stato il Far West de] Terzo Reich. Sorge imperiosa una domanda. E gli ebrei francesi assassinati? E gli ebrei italiani? Al di là del ridimensionamento "storico" di nazismo (Nolte) e stalinismo (Losurdo), è questo un procedimento, elaborato in primis dai controrivoluzionari post-1789 ("la colpa è di Voltaire, la colpa è di Rousseau"), che può non avere mai fine. Si può sempre trovare un mascalzone più mascalzone nel passato prossimo e remoto. È un gioco facilissimo. È allora urgente ripristinare la vocazione nobilmente storiografica, e anche filosofica, a non volgere le spalle alla complessità polimorfa degli eventi storici. È quel che ha fatto, a proposito del fenomeno comunista, un antistalinista "classico" come Claude Lefort in un libro concettualmente straordinario, La com-plication. Retour sur le communi-sme (Fayard, Paris 1999, pp. 258, FF 125). Ed è così che si affrontano quelli che Aldo Schiavone, ponendo un problema e non risolvendolo, ha definito I conti del comunismo (Einaudi, Torino 1999, pp. 104, Lit 16.000). Risulta altresì urgente ripristinare il primato del Verstehen (comprendere), come sosteneva Dilthey, e abbandonare la smania spettacolaristica di fare della storiografia unicamente un appagante processo inquisito-riale e giudiziario. È quel che ha compreso, in un saggio che va nella giusta direzione, e che non nega (ci mancherebbe!) la necessità del giudizio, Daniel Bensaìd, Qui est le juge? Pour en finir avec le tribunal de l'Histoire (Fayard, Paris 1999, pp. 264, FF 120). Come Marx fu altra cosa dal "marxismo.", così Paolo Mieli, che ama esibire il proprio giovanile pedigree rivoluzionario, è altra cosa dal "mielismo", una cui scheggia impazzita, sul "Corriere della Sera" di più di un anno fa, N. 9, PAG. 5 in prima pagina, aveva serissima-mente deprecato che nel cartone animato Anastasia troppo poco si vedessero gli orrori del bolscevismo. Abbiamo invano atteso una contestazione del cripto-robe-spierrismo di Dumbo. La raccolta di articoli su questioni e libri di storia, tutti già comparsi su "La Stampa", di Paolo Mieli {Le storie. La storia, Rizzoli, Milano 1999, pp. 370, Lit 32.000), è comunque davvero un bel libro, scritto con eleganza e tutto di gustosa lettura. I testi sono tuttavia raccolti in una successione che accompagna i periodi storici (da Alcibiade al bipolarismo mancato). Non si segue cioè l'ordine con cui i lettori della "Stampa" li hanno letti. In questo secondo caso si sarebbe vista una progressiva crescente cautela nel maneggiare il discorso "revisionistico", la cui autodistruttiva dinamica autoreferenziale Mieli, gran signore dei mezzi di comunicazione, deve, a differenza di Romano, avere pur colto. Prevale invece un sempre attraente e reciproco rispecchiarsi di passato e presente, tanto che, in un passo sulla corruzione politica di Crasso, il lettore, omofonia aiutando, non può non pensare a Craxi. Nell'introduzione si ritorna in verità, ma non si ha più voglia di ribattere, sul liturgico tormentone del "moderno linciaggio" subito da De Felice e addirittura da Romeo, indubbiamente due veri grandi maestri, di cui però non si nota che, se si vuol proprio utilizzare la giornalistica dicotomia, l'uno fu percepito dai media come campione di "revisionismo" (De Felice) e l'altro di "ortodossia" liberal-crociana restaurata (Romeo), laddove "revisionisti", sul Risorgimento, erano piuttosto stati gli Oriani, i Gobetti, i Gramsci, ma anche i Volpe, e i loro seguaci. A questo proposito si veda il saggio, come sempre molto intelligente, di Luciano Cafagna, Cavour (il Mulino, Bologna 1999, pp. 248, Lit 24.000). È un esempio - restiamo ancora al gioco -di "ortodossia realistica", il che comporta l'accettazione piena del Risorgimento realmente esistito con gli inevitabili corollari, non poi così negativi, dei connubi e dei trasformismi. E se la Resistenza continua ad attrarre ricerche e riflessioni che risentono dell'ondata "revisionistica" - si vedano, diversissimi tra di loro, Gianni Oliva, La resa dei conti (Mondadori, Milano 1999, pp. 216, Lit 32.000) e, con lo strillato sottotitolo "al di là delle verità ufficiali", Romolo Gobbi, Una revisione della Resistenza (Bompiani, Milano 1999, pp. 142, Lit 11.500) -, è invece proprio la bella collana del Mulino su "L'Identità italiana", curata da Galli della Loggia (si veda ora il godibilissimo Enrico Menduni, L'autostrada del sole, il Mulino, Bologna 1999, pp. 138, Lit 18.000), che, revisionando felicemente in li-bris ipsis le (superate?) tesi del curatore sulla morte della patria, ripropone un'"ortodossia" capillare e diffusa. Revisioni, autorevisioni, controrevisioni. E la storia, un po' ammaccata, va. La storia delle idee politiche è orfana senza la storia politica delle idee"