SETTEMBRE 1999 < poste e i personaggi non ancora creati. Quell'Inferno - come l'inconscio collettivo, ricettacolo di tutti gli opposti - è tuttavia pieno anche di pericoli e di mostri: è allo stesso tempo fonte di vita e dispensatore di morte. Ormus, scampato a un raccapricciante incidente automobilistico, entra in un coma che dura "più di mille e una notte". Uscitone, perde il contatto con il gemello defunto, ma solo perché ha acquisito la capacità di "vivere in due mondi contemporaneamente" e una doppia vista: con l'occhio cieco vede (bene) le cose di dentro e dell'aldilà, con l'occhio sano vede (male) le cose di fuori, la realtà mondana. In ogni caso, confonde continuamente - come Rushdie -la realtà con la fantasia. Ormus, avendo ricevuto il pericoloso dono della follia e della visione - dono che, insieme alla droga e alla morte di Vina, lo porterà all'autodistruzione -, diventa un artista-sciamano che nelle sue canzoni parla del crollo di tutti i muri, di tutti i limiti, di tutte le regole, dei terremoti che squassano la terra e la distruggeranno. Questa vena escatologica, che suona autentica e non sembra un mero gioco mil-lenaristico, e 0 senso di perenne insicurezza dell'uomo contemporaneo che si sente tremare la terra sotto i piedi, fanno vibrare intensamente alcune delle pagine migliori del libro e le colorano di luce apocalittica. Onnipresenti sono, in La terra sotto i suoi piedi, il male, la follia, la violenza e la morte che Rushdie evidenzia in situazioni e scene grottesche e truculente, iperreali-stiche o surreali: valga per tutte l'immagine del padre suicida di Rai, che rotea lentamente insieme alle pale del ventilatore al quale si è impiccato (in una Bombay devastata dalla speculazione edilizia, che egli osteggia, ma di cui è, come la moglie, indirettamente e in piccola parte responsabile: ogni personaggio rushdiano ha sempre un lato d'Ombra). Della violenza che insanguina la vita degli individui e quel mattatoio che è la storia del mondo si fa testimone Rai in quanto fotoreporter di guerra. Testimoniare è un altro dei compiti dello scrittore: Rushdie - per non parlare della testimonianza che continua a rendere personalmente, a rischio della vita, alla libertà d'espressione - è anche documentarista e autore di un reportage, politico e di viaggio, sul Nicaragua, Il sorriso del giaguaro (1987; Garzanti, 1989). Ma il mistero tocca e segna anche il laico e disincantato Rai, che scopre nelle sue fotografie la presenza di una donna-fantasma. Anche lo scettico Rai deve cedere occasionalmente all'irrazionale: la sua fotografia si apre al soprannaturale, al miracoloso, al magico, all'onirico e alla tecnica della "doppia esposizione", rivelandosi affine alla doppia vista di Ormus. L'arte fotografica di Rai si fonda, come quella di Rushdie, sulla dialettica degli opposti, sull'ossimoro: coglie tanto la superficie del reale quanto la sua "anima". Lo sdoppiamento di Rushdie in Ormus e Rai mostra come Rushdie prosegua la sua ricerca sull'enigma dell'identità, continuando a declinare i suoi perso- naggi in fratelli, gemelli, Doppi, Ombre; a sfaccettarli in modo che rispecchino e facciano da specchio ad altri; a creare complicate convergenze e divergenze, paradossali equilibri e ribaltamenti, nel tentativo di creare una mappa, una notazione musicale, un sistema di equazioni (a volte inevitabilmente astratto e cerebrale) che ordini in una rete di corrispondenze il caos tragico ed esilarante dei destini umani. C'è, infine, un mito personale che Rushdie insegue e rappresenta da sempre, e che, proprio perché personale, suona autentico: quello dell'ibridismo, del multiculturalismo. Si sa che le patrie cui apparteniamo, o crediamo di appartenere, sono in gran parte immaginarie, come l'Inghilterra di Sir Darius Xerxes Cama. Qui il mito si arricchisce di nuove varianti. Come la lingua inglese non appartiene solo agli inglesi, così il rock non è di esclusiva proprietà degli americani: anzi, è nato a Bombay, città crogiuolo, eminentemente transculturale. D'altronde, New York non è una specie di Bombay? E l'India non è ormai dappertutto? Sul "pozzo nero della razza umana" brilla la stella dell'universalismo della musica e dell'amore. Per vederla, però, bisogna varcare le frontiere, uscire fuori dai confini, oltre la famiglia, il clan, la nazione e la razza; ma soprattutto bisogna, come cantano Ormus e Vina, varcare "la frontiera della pelle", la pericolosa frontiera dove finisco io e cominci tu. Indulgente con se stesso SUKANTA CHAUDURI Ogni nuovo romanzo di Salman Rushdie, con le sue cinquecento pagine e più, produce un senso di déjà vu. Nessuno scrittore può ricominciare ogni volta da zero. A maggior ragione questa è una via impraticabile per uno scrittore così peculiare e così radicalmente innovativo nella natura della sua ar- te quale è Rushdie. Così, benché la sua brillantezza non venga mai meno, la sua opera rischia di perdere lo smalto. L'illusionista può essere abile come sempre, il suo eloquio persino più accattivante; ma il pubblico esperto comincia ormai a subodorare i suoi trucchetti. Se abbiamo dei dubbi sul romanzo riguardano innanzitutto i protagonisti. L'eroismo, il reale gigantismo di questi grandi amanti e musicisti appare troppo stravagante per essere vero, e lo è ancor di più per il peso filosofico ad essi assegnato. Nessuna rock star potrebbe evocare, da viva o da morta, quell'onda di consenso universale attribuito a Vina Apsara. Più ancora, il fenomeno della musica rock, con il suo ambiente e lo stile di vita connessi, rimane un veicolo troppo fragile per scagliare una critica alla cultura mondiale e alla storia contemporanea. Rushdie è attento a sottolineare come Ormus, il protagonista, sia vittima della stessa decadenza di quel mondo che ha adottato come proprio, come impieghi l'idioma proprio di quel mondo per sovvertirlo e redimerlo e come gran parte del suo pubblico sia sordo a tanta profondità d'intenti. Ma anche il lettore più attento della storia di Ormus può trovare l'ironia eccessiva, poiché quella storia è scritta nello stesso idioma e non ne ammetterebbe altri. La critica alla musica rock e alla cultura occidentale si rivela fondamentalmente un ammiccamento e una celebrazione - non solo da parte di Ormus ma anche del suo creatore. L'elemento autobiografico in La terra sotto i suoi piedi è ovvio. Rushdie è alle prese con gli aspetti fondamentali della sua arte e della sua posizione di artista e li traduce nel linguaggio di un'altra arte - pre-sumibil-mente per arrivare a una visione più distaccata, a un più libero gioco dell'immaginazione. Tuttavia, Rushdie potrebbe essere scarsamente cosciente dell'ironia insita nell'identificazione tra autore ed eroe. Al contrario, l'appassionata apologia dell'intellettuale emigrante si rivela trasparente discorso autoriale. N. 9, PAG. 9 Per intensificare la serietà di questa parabola, Rushdie ricorre al paradigma mitico più esplicitamente di quanto abbia fatto in precedenza. Il mito dominante nel romanzo è quello di Orfeo ed Euridice. Rushdie lo rielabora in maniera sorprendente - soprattutto attribuendo alla storia una funzione di genere a doppio senso: Vina-Euridice che canta in modo più ammaliante per salvare Ormus-Orfeo più efficacemente di quanto lui non salvi lei. Ma ciò che più disturba il lettore è l'atipico e persino inartistico modo di presentare le citazioni, talvolta esplicitamente e talvolta quasi come annotazioni. Sotto la fastidiosa ambiguità della tessitura, il tono di Rushdie rimane sempre magistrale; eppure mai prima d'ora si era esposto così spudoratamente - intervenendo con dovizia di informazioni, 0 con citazioni imparate in modo incongruo, o con giudizi distintamente intellettualistici e teorizzazioni. In questo libro Rushdie sembra incapace di affrontare ciò che è tangenziale - il paesaggio urbano di Mumbai, i vecchi film di Hollywood, i trafficanti di droga newyorkesi, te-quilas messicane - senza doverlo spiegare o senza catalogarne le istanze per intere pagine. Le sue più frivole visioni vengono montate come chiare d'uovo, tanto che neppure la più felice espressione riesce a evitare la tautologia. Le allusioni letterarie sono esoterici indovinelli per iniziati. La terra sotto i suoi piedi è un romanzo indulgente con se stesso. Sarà il risultato della fama crescente? O dell'introversione mentale di un esule dall'umanità? O semplicemente crisi di mezz'età? Per fornire una copertura narrativa alle mitizzazioni, Rushdie introduce le figure del padre di Ormus, Sir Darius Cama, e del suo amico, William Methwold, quali studenti di mitologia comparata. Il testo non offre però una simile esplicazione per il più vasto impianto filosofico, per non parlare della cornice mistica della narrazione. Come i precedenti lavori di Rushdie, La terra sotto i suoi piedi è magico-realista. Anche qui emerge lo slancio metafisico già presente in 1 figli della mezzanotte o persino in Grimus, ma qui ipotizza nuove dimensioni della realtà che piegano spazio e tempo e consentono giochi di telepatia e metamorfosi. Alla fine, il misticismo metafisico, non meno della virtuale apoteosi di Vina e Ormus, riduce questa attenta e infaticabile critica dell'esperienza a quella che non sarebbe altro che ingenua e semplicistica accettazione di premesse che non raggiungono l'epica semplicità cui aspirano. Questo spiega l'eccesso di semplificazione in alcuni passi moraleggianti nel corso del libro: sulla scomparsa della Bombay di un tempo, sull'ipocrisia indiana nei confronti del sesso, sull' ipocrisia occidentale nei confronti dell'indianità, sul concetto rinascimentale di genio, e così via. Innalzare una struttura fatta di eroismo e grandi passioni, invocando il ritorno ai miti del vecchio mondo, con l'aggiunta di una nuova cosmologia e metafisica, il tutto sul terreno instabile del culto del rock di fine millennio, è un paradosso di cui nemmeno Rushdie può liberarsi. Egli è tuttavia uno dei pochi scrittori del nostro tempo che possa permettersi di provarci in modo convincente. (© "Biblio", trad. dall'inglese di Carmen Concilio) l'evento che ha stravolto la sua vita quel giorno, quando il governo dell'Ayatollah Kho-meini emise la condanna a morte. Ma il 1989 è anche l'anno delle grandi trasformazioni sul piano mondiale, dalla strage di Tien An Men alla caduta del Muro di Berlino. "Sì, è stato un anno straordinario nel vero senso della parola: anche Nelson Mandela è stato liberato quell'anno! La prima volta che ho messo piede in Europa era il 1961, l'anno in cui venne costruito il Muro di Berlino. Avevo 14 anni e mi ricordo che ne restai molto colpito. Ma come? Io che venivo da un paese, l'India, in cui c'erano appena state delle divisioni, avvenute al prezzo di molte vite umane, arrivo nel cuore dell'Occidente dove si prepara una lacerazione di questa portata! Devo dire che non mi aspettavo di vederlo abbattuto nel corso della mia vita e, quando è successo, in Europa si è sentito un sospiro di sollievo. Quindi posso dire che quello è stato un anno negativo per me, ma positivo in generale, anche se poi l'ottimismo è stato mitigato dalla paura che ha talvolta preso il sopravvento". Il 1989 è l'anno in cui nasce in concreto il concetto di globalizzazione, con effetti negativi e positivi al tempo stesso. Anche la persecuzione nei suoi confronti ha avuto questo impatto globale e, da allora in poi, Salman Rushdie è diventato uno scrittore da giudicare prima di tutto politicamente. Oggi questa specie di pregiudizio positivo si è incrinato, anche se qualche critico sembra quasi rimproverarle una scrittura non "abbastanza politica". "E facile spiegare come avviene questo meccanismo: ci si immagina una caricatura, una specie di fumetto di uno scrittore o di qualunque altra personalità, e qualunque cosa faccia dovrà sempre corrispondere a quel- l'idea. Con me è fin troppo ovvio che ci si aspetti che scriva della fatwa e contro la fatwa, cosa che per me è ridicola, perché mi sento un narratore, uno che le storie le inventa. Le critiche non sono state molte, ma è vero che hanno questo tratto dominante. Ed è una cosa che mi stupisce, in fondo, perché mai come negli ultimi anni ho scritto e sono intervenuto su argomenti di attualità, non però quando scrivo fiction. Ci sono persone che vogliono imbalsamarmi su un piedistallo, ma io mi ribello perché non sono stato io a salirci e quindi non voglio certo restarci! Se avessi continuato a girare intorno alla fatwa nei miei libri sarei davvero diventato un prodotto di quella storia, e sarebbe stata una sconfitta. Inoltre, se è vero che questo non è un libro strettamente politico, lo è tuttavia perché ha una sua visione del mondo". Una visione del mondo in cui domina l'importanza della musica, un filo rosso che corre lungo la storia del nostro secolo. "L!importanza del rock è una questione generazionale: quando ero giovane questa musica aveva appena imboccato una strada che sarebbe stata lunga e articolata, ed è quindi per me una specie di vita parallela che ho sempre seguito. Oggi il rock'n'roll sembra quasi diventata una musica per persone più vecchie, anche se i ventenni di oggi ascoltano musica che viene da quella tradizione. Per me utilizzare la musica voleva dire poter seguire un filo storico attraverso l'arco degli ultimi decenni. E poi la musica è arrivata dappertutto: sarà banale ma il rock'n'roll è l'unico linguaggio trasversale di questo secolo. E un linguaggio politico anche: Vaclav Havel mi ha confessato che hanno chiamato la loro rivoluzione di velluto in onore ai Velvet Underground! Quindi per un narratore usare la musica come veicolo è stata una bella scorciatoia... ". "L'illusionista è abile come sempre, ma il pubblico subodora i suoi trucchi"