~LLcr{)0-fic\, N. 9, PAG. 7 SETTEMBRE 1999 Un credito interminabile Michele Prisco Gli altri pp. 248, Lit 29.000 Rizzoli, Milano 1999 I romanzi-romanzi di Michele Prisco sono creature del tutto particolari, immerse in "un'atmosfera da giallo", per cui la realtà viene ricostruita per indizi, supposizioni, illazioni. L'ambito in cui ci si muove, come egli stesso dichiara, è "raccontare l'uomo", inabissandosi in inconsce crudeltà, sofferenze e frustrazioni tali da poter condurre anche al delitto. Le mosse dell'inconscio si legano alle casualità della vita producendo dei destini ineludibili che Prisco ha sempre condotto con mano fermissima, inanellando indizio a indizio, presentimento a presentimento fino alla conclusione. Ma in questo ultimo libro la mano cede a un moto misterioso che lo conduce a mescolare il suo destino di uomo di carne e di carta con quello dei suoi personaggi, come se non ci fosse una grande differenza tra la carta e la carne. II libro narra del ritrovamento da parte dell'autore, nell'archivo della propria casa di villeggiatura, "la caserella", di un dattiloscritto "abbandonato" cinquant'anni prima e mai portato a termine. In esso è raccontata la vicenda di Amelia Jandoli, orfana ed erede dell'ultima monaca di un monastero comprato dal Banco di Napoli. Amelia vive in una delle antiche celle trasformate in minuscoli appartamenti. Il romanzo è dato dall'alternarsi di capitoli in cui lo scrittore si interroga sulla motivazione che lo ha indotto a rivedere quell'antico testo per darlo alle stampe, e capitoli dedicati alle vicende di Amelia, unica superstite di un romanzo all'origine corale. Nei capitoli in corsivo l'autore dichiara di non voler fare "un romanzo nel romanzo" né un "me-taromanzo", per accattivarsi critica e pubblico, ma piuttosto di sentire il bisogno di saldare un debito coi suoi personaggi in quanto anch'essi "hanno l'esigenza di concludere i loro destini, proprio per sentirsi finalmente in ordine". Amelia, ormai anziana ma non ancora vecchia, conduce una vita abitudinaria di donna sola, fino a che, in questo bozzolo cavo, protettivo e mortificante, irrompono violentemente gli altri. Gli altri appaiono subito con la faccia di un morto, quella di Felice Caraderi, che ha invocato il nome di Amelia prima di spirare. Ma Amelia non lo conosce. Come in trance viene portata in casa del giovane che muore durante il tragitto. "Come mai ha invocato il suo nome?" Da qui partono tutta una serie di domande che sembrano costituire la struttura vera del romanzo: "Perché era venuta?", "Voleva veramente me?", "Ma tu scrivi per i lettori?", "Che cos'è per me Amelia Jandoli?". L'autore diventa il "detective di me stesso". Due sono, quindi, i luoghi con cui si apre la scena: il monastero e l'archivio della caserella, paragonato a un cimitero, come l'inanellarsi cupo di celle su celle, nella struttura labirintica del monastero, crea un'atmosfera catacombale: ci troviamo al cospetto dei morti. Questi sono gli altri. E altri sono quelli che sconvolgono la vita di Amelia Jandoli fino a farle desiderare di adottare il bambino nato dalla relazione di Felice con l'altra donna, Marisa Salvati. E altri sono i personaggi abbandonati della prima stesura. Rimane sospesa la storia di Amelia Jandoli nel suo desiderio di adozione che non si sa quanto riuscirà a portare a termi- ne, e rimane sospesa l'indagine su se stesso dell'autore. La realtà è doppiamente aggirata in un gioco di rimando tra autore, personaggio e lettore che non ha nulla del pirandelliano gioco delle parti. Non è un'indagine sul rapporto tra finzione e realtà, tra romanzo e vita, ma uno scavo in quanto c'è di misterioso nella storia-destino di ogni essere umano. Il libro si apre e si chiude con una morte, quella della donna che ha dato un figlio a Felice. Un'altra, Amelia, raccoglie la loro storia, come Prisco raccoglie la storia di Amelia, sapendo di rimanere in debito con tutti gli altri. La catena delle domande si spezza temporaneamente solo alla fine, quando Amelia, incerta se richiudersi nella propria ignoranza degli altri o accettarla "non si domandò se una donna nubile e non giovane potesse adottare un bambino...". (M.C.) Il fabbro amoroso VITTORIO COLETTI Ernesto Franco Vite senza fine pp. 101, Lit 16.000 Einaudi, Torino 1999 Dopo essere andate molto bene in poesia, le cose migliorano per Genova ora anche nella narrativa. Qualche mese fa Maurizio Mag-giani (La regina disadorna, Feltrinelli, 1998; cfr. "L'Indice", 1998, n. 10) e adesso Ernesto Franco eleggono la città dei grandi poeti del Novecento a scenario di complesse trame romanzesche. Franco vi ambienta l'epopea della tecnologia bassa (ferramenta, attrezzi di lavoro) che ha costruito il XX secolo, frutto di uomini "esatti e violenti". Il protagonista è Gio Ma-gnasco, inventore e commerciante, genio della pratica, fabbro amoroso e industrioso di ciò che unisce e costruisce: prima di tutto i chiodi, le viti, i nodi, i bottoni, e poi quello che grazie a essi sta insieme: navi, binari, gomene, corsetti. Dietro le ferramenta e l'utensileria, si affacciano la filosofia di una generazione che crede (si illude) nel progresso, e l'inquietudine di un personaggio taciturno, ammaliato dalle "cose invisibili che legano un uomo all'altro" non meno che dai bottoni e dagli elastici che allacciano gli elaborati vestiti di una donna inarrivabile di primo Novecento. La vittoria (come si vedrà: apparente) degli oggetti, degli strumenti, si traduce nel libro di Franco in omerici cataloghi in cui cose e nomi compongono un moderno epos in cui l'utile ha sostituito il bello, la praticità l'ornamento. Solo Daniele Del Giudice aveva tentato e realizzato un simile slittamento dalla prosa alla poesia epica nello splendido inventario dei pezzi dell'aereo in un racconto di Staccando l'ombra da terra (Einaudi, 1994; cfr. "L'Indice", 1995, n. 4). È una corrosione intelligente e sottile del vecchio monumento-romanzo, non a caso opera qui di un fine esperto di letteratura sudamericana, la cui impronta traspare da più parti: dalla disposizione dei tempi narrativi, col gioco (alla Marquez) di una narrazione al passato che a tratti si sposta nel futuro anticipando gli esiti finali del racconto ("Non posso dirlo e basta, aveva detto Gio Magnasco, prima degli anni in cui poi tacque per sempre"), dalla predilezione (borgesiana) per certi aggettivi come "probabile", "improbabile", "complicato", dal gusto dell'iperbole (i numeri precisi e inverosimili). Vite sema fine (doppio già dal titolo) celebra e congeda il secolo della tecnica, delle industrie, delle grandi infrastrutture: cantieri navali e ferrovie sono i luoghi di lavoro di Gio Magnasco prima di darsi al commercio nella "città ricurva", l'innominata e riconoscibilissima Genova, dove apre un grande negozio di ferramenta e mercerie. Le navi, i treni, gli utensili sono il segno tangibile del progresso, del sogno di un mondo efficiente, produttivo, generoso e ardito nelle opere dell'uomo. Ma il suo eroe, Gio Magnasco, ne conoscerà l'illusorietà, la fragilità, la deperibilità. Nel romanzo, con una grande trovata narrativa, tutta la migliore ferramenta d'Europa corre a una fantasmagorica esposizione dei suoi prodotti in Africa, allestendo sull'altopiano etiopico una sterminata fiera della tecnologia applicata. E, in effetti, i prodotti delle migliori marche di chiodi, serrature, vernici, bottoni, nastri, nodi ecc. vanno a ruba tra la folla degli indigeni visitatori. Ma... le viti diventano orecchini, le serrature ciondoli, le rondelle braccialetti, i cacciavite fermagli per capelli femminili, mentre i bottoni fanno fiera mostra sui petti di corpulenti guerrieri. È il segnale della fine. Magnasco vede, con limpida intuizione, che "i selvaggi" si comportano con le meraviglie della tecnica "nello stesso modo in cui fra qualche centinaio d'anni si comporteranno i curiosi o gli archeologi" con i nostri oggetti, "trattandoli come monili o reperti da mostrare nei musei ai viaggiatori e ai bambini delle scuole". Non, dunque, i fabbricanti europei del XX secolo, ma gli spensierati etiopi sono il futuro, intuisce, prima di sprofondare nel silenzio di un'interminabile paralisi, Gio Magnasco. E allora è giusto che questo mondo di ferro, apparentemente avvitato e annodato a regola d'arte, si inchiodi inerte a una sedia a rotelle, si sfilacci e scivoli nel fango di un grandioso temporale africano e affondi nel naufragio del più bello e costoso dei gioielli prodotti da quella laboriosa imprenditoria che aveva creduto di migliorare la vita stringendola nelle sue viti senza fine. Sandra Di Segni L'ebraismo vien mangiando Illustrazioni di Monica Incisa Roberto G. Salvadori 1799 Gli ebrei italiani nella bufera antigiacobina Prisco chi è Michele Prisco, nato a Torre Annunziata nel 1920, vive a Napoli, in una casa piena di libri, di sculture e di conchiglie. Ma forse la casa "vera", quella in cui si ritira a scrivere e, in un archivio, conserva tutti i libri, i dattiloscritti, gli articoli di una lunga carriera, è fuori Napoli, in quel territorio di provincia, la "provincia addormentata", che, tranne pochi casi, tra cui l'ultimo libro Gli altri, è il paesaggio di fondo dei suoi romanzi. Forse perché, fuori della città, si evidenziano quelle pulsioni archetipiche e tragiche che conducono i suoi personaggi a gesti estremi, al delitto e alla morte. Le sue creature non sono, quindi, borghesi di città, come in certo La Capria, né popolani, come in Domenico Rea o Annamaria Ortese, o una mescolanza di aristocratici, borghesi e popolo, come ancora in certa Ortese o in Curzio Malaparte, ma dei borghesi di provincia, in cui l'ansia di emancipazione economica e sociale fa scattare la molla di un'atavica crudeltà. Per questo i romanzi di Prisco, come notava Giacinto Spagnoletti, sono sempre immersi in "un'atmosfera da giallo". Costruendo queste macchine-romanzo, all'apparenza a tutto tondo, Prisco ha attraversato un cinquantennio della vita letteraria italiana. Gli esordi (nel 1949) si collocano negli anni del neorealismo successivi alla guerra, anni in cui gli scrittori napoletani andavano in realtà costruendo ognuno una sua fisionomia ben differenziata, per cui pare improbabile un'etichettatura regionalistica e, tantomeno, pare possibile parlare di un "neorealismo regionalistico" derivante dal realismo ottocentesco. Basti pensare alle atmosfere astratte di Raffaele La Capria, a quelle visionarie della Ortese, a quelle quasi espressionistiche di Rea e Malaparte, a quelle arcaico-tragiche di Prisco, che non si è mai riconosciuto nell'etichetta di scrittore napoletano. Eppure l'equivoco del neorealismo si è intrecciato alla sua vicenda letteraria, tanto che nel 1966 - quando, con Una spirale di nebbia, vinse il Premio Strega - fu accusato di tradizionalismo e di naturalismo da parte della neoavanguardia. A distanza di anni, si può constatare che la realtà di Prisco non è mai costruita da un autore ottocentescamente onnisciente. E sempre colta per indizi, supposizioni, come se la realtà fosse una macchina delittuosa e imprendibile e il libro un lungo cammino di avvicinamento al cuore di incomunicabilità tragica che separa e unisce i destini degli uomini. I suoi libri sono tutti pubblicati da Rizzoli, tradotti in moltissime lingue e premiati dallo Strega (1966) dal Fiuggi (1985), dal Selezione Campiello (1996): La provincia addormentata (1949), Gli eredi del vento (1950), Figli difficili (1954), Fuochi d'amore (1957), La donna di piazza (1961), Punto franco (1965), Una spirale di nebbia (1966), I cieli della sera (1970), Gli ermellini neri (1975), Il colore del cristallo (1977), Le parole del silenzio (1981), Lo specchio cieco (1984), I giorni della conchiglia (1989), Terre basse (1992), Il cuore della vita (1995), Il pellicano di pietra (1996), Gli altri (1999). A essi va affiancata l'enorme produzione di articoli, saggi, recensioni che hanno accompagnato la sua attività di scrittore. (M.C.) I Editrice La Giuntina - Via Ricasoli 26, Firenze www.giuntina.it