L'INDICE
■■dei libri del mese■■
Diffìcile dirsi liberi
Nadia Urbinati
franco Sbarberi, L'utopia della libertà eguale. Il liberalismo sociale da Rosselli a Bobbio, pp. 218, Lit 35.000, Bollati Boringhieri, Torino 1999
Sono tre i grandi filoni di pensiero che Sbarberi articola attraverso i teorici politici più rappresentativi della tradizione liberalsocialista italiana: l'idea liberale, quella repubblicana e quella socialista. I diritti fondamentali dell'individuo, i diritti politici del cittadino-sovrano, e il diritto alle eguali opportunità sociali sono i nuclei normativi che ispirano la ricerca, il cui scopo è di "mettere a fuoco" il "nesso tra autonomia individuale e partecipazione politica dal basso" che ha circolato all'interno della sinistra italiana non comunista di questo secolo. Presenza minoritaria se comparata alle ideologie che hanno permeato la cultura politica nazionale - quella cattolica e quella comunista -, questo "nesso" è invece coerente a quello che ha accompagnato l'evoluzione delle liberaldemocrazie europee a partire dal secolo diciottesimo, e in particolare dalla Rivoluzione francese. Il legame fra la nostra tradizione liberalsocialista e il pensiero e l'esperienza europei è stato troppo spesso sottovalutato o taciuto. Benché il titolo non ne faccia menzione, in effetti il percorso che ricostruisce Sbarberi comincia da Piero Gobetti (e in maniera più indiretta da Antonio Gramsci); e gobet-tiana è l'idea che guida l'autore nell'analisi teorica dell'ideologia liberalsocialista, un corpo per nulla uniforme, come invece hanno sostenuto i suoi recenti critici, e infatti animato da due tendenze ben distinte e occasionalmente in tensione (le pagine dedicate al confronto "serrato eppure amichevole" tra Bobbio e Calogero sono a questo riguardo illuminanti): una visione della politica come conflitto e
una visione armonicista. Post-gobettiani sono stati e sono Carlo Rosselli e Norberto Bobbio, post-genti-liano fu Guido Calogero, l'autore del manifesto liberalsocialista del 1940. In una posizione intermedia, e orientato più decisamente verso la democrazia, fu Piero Calamandrei, giurista e membro dell'Assemblea Costituente, il quale ci ha lasciato un'originale teoria della costruzione (rivoluzione) democratica come discontinuità dello Stato e una teoria dell'assemblea costituente come unità del potere fondativo e di quello ordinario, cioè della sovranità e del governo, che ricorda assai da vicino Cari Schmitt. Con Calogero il liberalsocialismo si è tradotto in un progetto di ordinamento costituzionale che ha mediato le garanzie individuali con i diritti sociali e che la nostra Costituzione ha recepito.
I dilemmi del liberalsocialismo sono i dilemmi della società liberale. Nonostante l'elemento egualitario che accompagna la teoria liberale dei diritti individuali, è tuttavia innegabile che, qualora si assuma la priorità dell'individuo e dei suoi diritti, pervenire alla giustificazione dei doveri sociali (solidarietà) e politici (partecipazione) resta un compito arduo e di difficile soluzione. I tentativi recenti di ridefinire la libertà negativa come libertà dalla dipendenza rappresentano una nuova e interessante proposta di soluzione al dilemma liberalsocialista. Tuttavia, anche in questo caso, una teoria della libertà come non-coercizione prevede e richiede un impegno attivo o positivo da parte dello Stato e dei cittadini, e quindi una interpretazione del liberalismo che va al di là, se così si può dire, del liberalismo stesso. L'utopia della libertà eguale è, allora, un'utopia democratica più che semplicemente liberale, come lo fu, Sbarberi lo riconosce, quella che ha ispirato l'idea liberalsocialista.
Il linguaggio reazionario del cuore
Regina Pozzi ,
Mirella Larizza, Bandiera verde contro bandiera rossa. Auguste Com-te e gli inizi della Société positiviste (1848-1852), pp. 602, Lit 65.000, il Mulino, Bologna 1999
E al secolo XIX nella sua complessità, a quel secolo "nel quale il nostro presente, per lontano che sia, affonda comunque le sue radici", che c'invita a guardare, in apertura del suo lavoro, Mirella Larizza. E non ve dubbio che delle immagini che quell'età ci rimanda due ci vengano subito alla mente come, a prima vista, particolarmente dissonanti: da un lato, così frequente da apparirci quasi la cifra dell'epoca, la celebrazione razionalistica della scienza; dall'altro, una prepotente religiosità, che ha trovato spesso sfogo in nuove fedi e in nuovi culti.
I "profeti di Parigi", secondo il lignaggio ricostruito da Frank E. Manuel, e in particolare Saint-Simon e Comte, col seguito delle loro scuole, sono stati infatti protagonisti di un percorso che dalla teorizzazione dei compiti di direzione sociale della Scienza è sboccato nell'istituzione di una religione. A essere indagata nel libro di Larizza è proprio la svolta senti-mental-religiosa che, sulla fine degli anni quaranta, ha condotto Comte dal progetto scientifico del Cours de philosophie positive a fondare una religione dell'Umanità, e, in un complesso rapporto con questa scelta, a dislocarsi politicamente, passando dal fronte repubblicano, in cui egli si situava seppur con delle peculiarità, a
quello della reazione.
Sulle ragioni di questa svolta s'è sviluppata, dai contemporanei fino ai nostri giorni, una vastissima letteratura. Oggi, accantonata la diatriba sulla continuità o discontinuità, su cui i positivisti "ortodossi" s'eran scontrati con Littré e John Stuart Mill, è piuttosto — come l'autrice osserva - a "dilatare i tempi della gestazione del 'positivismo religioso'" che tendono gli studiosi: sia che il nucleo ne venga indicato nella logica, sempre presente in Comte, di una missione epocale da compiere (Gouhier), sia che si sottolinei la costante
preoccupazione etica della sua opera (Arbous-se-Bastide, Ber-rèdo-Carneiro).
Va però anche ricordato che, su questo sfondo, forte serpeggia pure fra i critici la tentazione di riportare le ragioni di quello che appare comunque come un revirement alle fragilità caratteriali di Comte, e soprattutto alla tempesta emotiva in lui scatenata dalla passione, presto trasformata dalla morte della donna in culto, per Clotilde de Vaux. Quella dell'enfasi sulle bizzarrie, quando non sulle patologie della personalità, è del resto una cifra interpretativa che si ritrova spesso applicata ai pensatori utopisti.
Senza trascurare nessuna di queste piste, la via che Larizza ci
"A essere indagata è la svolta sentimental-religiosa che ha condotto
Comte a fondare una religione dell'Umanità"
propone di seguire è un'altra. Il quadro cronologico da lei scelto - 1848-52, dalla nascita alla morte della seconda Repubblica francese - non è casuale: non ve dubbio che voglia essere un richiamo alla storia e ai condizionamenti che essa impone; anche a chi, come Comte, intendeva dirigerne il corso, ma, per ciò fare, era costretto ad adattare i suoi strumenti alle esigenze del "qui" e dell'ora". La storia con cui s'è dovuto confrontare il fondatore del positivismo è quella, febbrile, delle agitazioni del momento, ma gonfia anche delle tensioni di tutto il secolo, degli anni che vanno dalla rivoluzione del febbraio 1848 all'epilogo del 2 dicembre; e il suo teatro è Parigi, la "capitale del XIX secolo". È sotto l'impulso dell'entusiasmo per l'avvento della repubblica che Comte - già da tempo postosi il problema dell'applicazione al campo sociale della "vera filosofia" da lui fondata - è approdato alla politica, fondando nel marzo 1848 la Société positiviste. Ed è perché le esigenze della propaganda si sono fatte prevalenti, e urgente è diventato l'obiettivo di raggiungere quelle masse illetterate in cui il filosofo individua ormai i suoi interlocutori, che egli riconverte il suo sistema e, dopo aver privilegiato il metodo scientifico quale strumento dell'intervento sociale, riscopre ora, nella sua immensa forza, "il linguaggio del cuore". L'esito religioso, la creazione di rituali e di simboli altro non appaiono allora che la
conseguenza, inevitabile data la struttura totalizzante del sistema comtiano, di tale riconversione di campo. Altrettanto inevitabile la parabola politica, che si sovrappone a quella stessa della repubblica: del binomio di "ordine e progresso", in cui si riassumeva la formula sociale del positivismo, le drammatiche vicende di quegli anni hanno spinto Comte a privilegiare sempre più il primo termine, portando allo scoperto gli elementi illiberali e antidemocratici da sempre presenti nella sua concezione.
L'appassionante lettura che Larizza ci propone di questa vicenda ha ai miei occhi un duplice pregio. Da una parte, con un lavoro di scavo archivistico nuovo e vastissimo, essa ricostruisce la vita concreta della Société positiviste, le biografie dei suoi membri, i loro rapporti col maestro, che non furono solo di sudditanza, ma spesso di scambio intellettuale, fino alla crisi finale e alla rottura con Littré. A partire da questa conoscenza ravvicinata dello sparuto manipolo iniziale, degli uomini così diversi per idee e carattere che l'animarono, non v'è dubbio che esca illuminata la successiva vicenda del positivismo e della sua disseminazione, descritta da Walter E. Simon, nell'Europa della seconda metà dell'Ottocento. Dall'altra parte Comte viene sottratto alle sue eccentricità e restituito alla storia del tempo. Risulta da questa ricerca come egli, in anni cruciali per l'instaurazione della modernità politica, abbia condiviso con altri (si pensi a Michelet, a Quinet, a Renan) il problema, fondamentale per la democrazia, di trovare un linguaggio accessibile alle masse: anzi come abbia forse compreso meglio di altri che il messaggio della politica passa attraverso dei codici e delle tecniche di cui è essenziale impadronirsi, se si vuol incidere sul reale. Che poi ciò significasse ai suoi occhi far appello ai sentimenti e alle emozioni, piuttosto che alla logica della ragione, e che vi fosse in quest'intuizione una buona dose di volontà manipola-toria, non è problema storico di poco conto.
L'intera problematica di Comte risulta in realtà, da questa ricerca. La soluzione da lui prospettata di un "mondo fanaticamente ordinato di esseri umani gioiosamente impegnati ad assolvere le proprie funzioni" (Isaiah Berlin), di singoli annullati in una collettività rigidamente ge-rarchizzata, certo ci evoca fantasmi angosciosi. Tuttavia, nella ricerca di un legame che saldi in comunanza di valori l'atomizzata società degli individui, egli si è applicato a un problema che ha sommamente preoccupato gli uomini venuti dopo il 1789. Ciò che soprattutto risulta interessante del suo progetto politico è non tanto l'esito reazionario (che, come altri progetti analoghi, porta in sé dall'inizio) quanto la singolare mistura di cui si compone. Giacobinismo e autoritarismo ultramontano, solidarismo di matrice cattolica e scientismo: se è vero che la cultura francese dell'Ottocento è stata un laboratorio del pensiero totalitario (Talmon e Furet, Sternhell e Battini), non v'è ora dubbio che di tale vicenda Comte sia stato uno dei protagonisti.	■
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