OTTOBRE 1999 ■ dei libri del mese Un, fi Le guerre del "Corriere" "La prima vittima della guerra è la verità ". Non sempre ALBERTO PAPUZZI N. 10, PAG. 5 Maurizio Chierici Lungo viaggio d'addio pp. 253, Lit 26.000 Baldini&Castoldi, Milano 1999 Ettore Mo Sporche guerre pp. 298, Lit 26.000 Rizzoli, Milano 1999 Massimo Nava Kosovo. C'ero anch'io pp. 254, Lit 9.900 Rizzoli, Milano 1999 London per capirci. Come London, d'altronde, è approdato al giornalismo dopo aver fatto di tutto, come lui stesso racconta in una premessa autobiografica a Sporche guerre: "Sguattero e cameriere a Parigi e a Stoccolma, barista nelle isole della Manica, bibliotecario ad Amburgo, insegnante di france- processo di riunificazione, mettendo a fuoco questa esperienza anche in un libro: Germania Germania (Mondadori, 1991). Come corrispondente di guerra è stato in Africa, in Asia, e ha seguito la guerra fra Croazia e Serbia. Le diverse personalità dei tre giornalisti e i diversi percorsi che di una lingua più letteraria di quella giornalistica, con frequenti ricostruzioni ad arte di dialoghi. Per cui i singoli capitoli sono modellati come racconti, nei quali si affollano fantasmi di fine secolo, per usare un'espressione dell'autore. Del tutto diverso il libro di Mo, che è sostanzialmente una raccolta Tre rappresentanti della figura giornalistica che è forse più circondata di fascino, l'inviato speciale in zone di guerra, tutti e tre professionalmente legati al "Corriere della Sera", mostrano in questi libri come il giornalismo possa essere diversamente vissuto e interpretato. Naturalmente i tre libri possono attrarre il lettore anche per ciò che raccontano a proposito dei fatti del mondo. O, più direttamente, del mondo tout court. Senza dubbio sono una chiave per capire che cosa accade nei luoghi che di volta in volta affollano di notizie le pagine esteri dei nostri quotidiani. Ma questi titoli offrono una ulteriore chiave di lettura. Infatti si inseriscono con pieno diritto nella lunga, avventurosa e problematica storia dei corrispondenti di guerra, che nel modo migliore è stata raccontata da Phillip Knightley in un testo dal titolo assai significativo: The first Casualty, "la prima vittima", svogliatamente tradotto in italiano con un prosopopeico Il dio della guerra (Garzanti, 1978). Mentre il titolo originale alludeva a quanto detto da un senatore americano al tempo del primo conflitto mondiale: "La prima vittima quando scoppia una guerra è la verità". Perché mai come in guerra si cerca di mettere la museruola ai giornalisti e di servirsene per la propaganda. Innanzi tutto, Chierici, Mo e Nava hanno alle spalle storie professionali molto diverse. Chierici è di Parma, è approdato al giornalismo da buoni studi, ha accumulato una lunga e proficua esperienza degli uomini e del potere viaggiando quasi ininterrottamente negli ultimi trent'anni; sul lavoro è un gentleman (come ho avuto modo di sperimentare quando mi trovai a Cuba con lui). Potrebbe essere il personaggio d'un romanzo di Graham Greene (al quale dedica un capitolo del libro). Ha le ambizioni dello scrittore. Fra un viaggio e l'altro ha scritto due romanzi-verità: Malgrado le amorevoli cure (Einaudi, 1977) e Quel delitto in casa Verdi (Baldini&Castoldi, 1997). Nelle sue corrispondenze ama occuparsi delle vicende culturali dei paesi che visita. Invece Mo rispecchia lo stereotipo romanzesco del giornalista avventuroso, un tipo alla Jack cini a Los Angeles nella Francoforte delle imprese di Kemal Kayankaya, il detective turco dal piglio alla Marlowe da lui creato in una fortunata serie di gialli, a conferma di una vocazione agli incroci cosmopoliti, anche nella mimesi di generi e stili, della ormai consistente produzione letteraria della diaspora turca. Zaimoglu sceglie la maniera postmoderna delle cronache dai ghetti, globalizzata dai film di Spike Lee e dai romanzi di tìa-nif Kureishi. Ma la connotazione locale, la doppia e straniata appartenenza dell'immigrato, si dichiara con forza nell'impasto linguistico del racconto, un tedesco gergale infarcito di continue commistioni turche fra cui ci guida in una nota l'ottima traduttrice, che ha opportunamente evitato li 1! mz ! ogni tentazione dialettale o corriva in un efficace italiano basso parlato, conservando tracce turchesche in un paio di espressioni ricorrenti, schegge spigolose di una irrisolta alterità. Zaimoglu rifiuta il dato folklorico nel rappresentare la realtà dell'immigrazione. Intervistata di recente da Alessandra Orsi su "Tuttolibri" (10 giugno 1999), respinge l'idea che "le culture si costruiscano in modo orizzontale così come in certe vie trovi, uno dopo l'altro, i vari ristoranti etnici, il greco, il thailandese, il cinese" e che "le comunità di immigrati siano uniformi". "Bisogna combattere", aggiunge, "l'idea di 'minoranza etnica' come se si trattasse di un orto con frutti esotici: il giardino delle etnie è una selva!". Nell'adesione veristica alle contaminazioni dei gerghi metropolitani Zaimoglu intende cogliere una realtà in movimento, quel processo di faticosa formazione di identità commiste che cerca l'uscita dal ghetto e una cittadinanza condivisa. Schiuma è il ritratto di un'assimilazione autodistruttiva e rabbiosa alla deriva degli sbandati e, anche se il retro di copertina - come si conviene alla collana "Stile libero", a caccia di un pubblico di lettori splatter - parla di "una narrazione che pompa adrenalina come un film di ]ohn Woo", il libro non favorisce identificazioni eroiche (o antieroiche) con la mitologia guerriero-picaresca del protagonista, ma lascia il sapore amaro di una vicenda di esclusione. Che l'autore sia un giovane scrittore turco testimonia tuttavia l'altra faccia dell'integrazione fuori dai ghetti: ne è un segnale il successo, del libro, che in Germania è diventato un best-seller, e da cui il regista Lars Becker ha già tratto un film (Kanak Attack ne è il titolo annunciato). se. (senza titoli, naturalmente) a Madrid, infermiere in un ospedale per incurabili a Londra e infine steward in prima classe su una nave della marina mercantile britannica", finché a trent'anni entrò nell'ufficio di corrispondenza londinese del "Corriere della Sera" come vice del vice del titolare. Adesso di anni ne ha 67 ed è considerato un maestro. Nava, 49 anni, è il più giovane dei tre, ma anche lui ha alle spalle una lunga carriera come inviato. È un giornalista formatosi negli anni settanta, con un'attitudine a cogliere il profilo politico delle faccende di cui si occupa professionalmente. Per molto tempo ha seguito i grandi eventi che hanno attraversato e segnato la società italiana, coprendo soprattutto episodi di mafia e atti di terrorismo. Quindi ha preso la via dell'estero, girando la Germania, da dove ha raccontato la caduta del Muro e il hanno battuto nelle loro carriere si riflettono nelle pagine dei loro libri. Infatti Chierici, che con Baldini&Castoldi ha già pubblicato un'altra raccolta di note autobiografiche, Tropico del cuore (1995), scrive una sorta di diario a posteriori, in cui si sente il desiderio, se non l'esigenza, di fare i conti con la propria professione, andando oltre il dato di cronaca, o meglio mettendo in luce dietro il turbinare degli avvenimenti i fattori di differenza e quelli di continuità fra un paese, e l'altro, fra un viaggio e l'altro, così come tra le comunità e le persone. L'orizzonte di questo diario sono soprattutto i paesi dell'America Latina (Colombia, Cile, Brasile, Patagonia, Salvador, Cuba, Messico, Guatemala, Panama), ma tocca anche gli Stati Uniti, l'impero sovietico, il Medio Oriente, l'Irlanda, i Balcani. La scrittura tende a sfruttare i possibili artifizi narrativi, nella chiave di articoli usciti sul "Corriere della Sera" fra il 1991 e il 1997, riletti, rivisti, in parte rifusi, più una corrispondenza del 1979 sul primo viaggio in Afghanistan e il resoconto di un viaggio in Tibet nel 1988. Con queste due eccezioni, gli scenari che scorrono nel libro sono la guerra nella ex Jugoslavia, Timor Est, Cece-nia, Kurdistan, Turchia, Perù, i luoghi deputati dell'integralismo islamico, e Altri inferni, che è il titolo d'un capitolo dove ci si trova un po' dappertutto: Burkina Faso, Kazakistan e Romania, Giava e Birmania, Bo-gotà e Madras. Qui la distanza è ridotta al minimo: nonostante la rilettura, si tratta di articoli in presa diretta, come se mettessimo piede in un laboratorio del repor-ting giornalistico. La scrittura di Mo è molto descrittiva, ricca di informazioni, talvolta densa del pathos dell'attualità, ma soprattutto incardinata su uno schema chiave, che tra l'altro dà il titolo al libro: la guerra è sempre una faccenda sporca, scatenata dai più potenti e pagata dai più deboli. O, se si vuole, la guerra è il momento in cui tutta l'ingiustizia e la violenza del mondo vengono a galla e si cristallizzano nella storia. Con Kosovo. C'ero anch'io di Nava si cambia decisamente stile e impostazione. Corredato in appendice di una utilissima cronologia, il libro si presenta con i caratteri tipici e anche il prezzo del-l'instant book, che deve servire al lettore per capire che cosa è accaduto in questo quadrato dei Balcani, fino alla vigilia della guerra praticamente sconosciuto alla maggioranza degli italiani. Gli otto capitoli seguono perciò passo passo le vicende che hanno portato alla guerra tra Serbia e Nato, cercando di metterne in evidenza i significati politici e bellici soprattutto attraverso testimonianze esemplari, suffragate anche dalle immagini scattate da Livio Senigalliesi, uno fra i più quotati fotoreporter italiani. Il risultato finale è una cronaca della guerra, come potremmo leggerla su un giornale americano o inglese, senza indulgere alla retorica dei buoni (o cattivi) sentimenti e senza sovrapporre ai fatti un giudizio morale o politico, ma cercando di restituirne al lettore la inevitabile carica di ambiguità. Come quando Nava osserva che con il cervello pochi serbi sono disposti a credere a Milosevic, ma con il cuore scelgono la "verità più in sintonia con le sofferenze del paese". A questo punto potremmo chiederci che risultati consegue il giornalismo di guerra e se avesse ragione il cinico senatore americano citato da Phillip Knightley. Condensando il giudizio, si può dire che Chierici, Mo; Nava sono tre esempi di- Come aprire dei pertugi nella cortina dell'invisibile che ci circonda" versi di come aprire dei pertugi nella cortina dell'invisibile che in realtà ci circonda. I loro libri confermano la tesi di Walter Lippmann (L'opinione pubblica, 1921): solo la storia arriva alla verità, mentre la notizia deve accontentarsi di indicar ne le manifestazioni. Così Chierici cerca di forare la sfera dell'impenetrabile ricostruendo i contesti culturali, Mo battendo il tasto delle emozioni, Nava rispettando la limitatezza del giornalismo.