|dei libri del mesei OTTOBRE 1999 1)n-te-^viòtok, Io quella notte ero andato a dormire La Germania, la Russia, lo shock dell'89 nella storia di Ingo Schulze N. 10, PAG. 6 INTERVISTA DI ANNA CHIARLONI recensioni entusiastiche, interviste sui giornali più diffusi, mentre le tue Storie semplici hanno guadagnato i primi posti nelle classifiche danesi e italiane, non male per uno scrittore appena trentenne... A quale aspetto del tuo romanzo si deve secondo te questo successo? Forse al fatto che scrivi delle vicende tedesche da una prospettiva orientale senza tuttavia mettere in primo piano le difficoltà della riunifìcazione, ma anzi scherzandoci sopra? "Francamente non mi aspettavo di sfondare così in Germania, né avrei mai sperato di essere tradotto in quindici lingue, evidentemente è il tema che desta curiosità, in fondo molti dicono che il mio primo libro - quello sulla Russia - era migliore, eppure se n'è parlato molto meno". Tu vieni da Dresda, raccontaci di te, della tua formazione nella vecchia Ddr. Quando hai cominciato a scrivere? "A quattordici anni, scrivendo versi. A sedici mi han pubblicato le prime poesie in un'antologia di poesia giovanile... Ma decisiva è stata l'esperienza del servizio militare, è stata dura, ambivalente se vuoi: tutto molto Ddr - ma al cubo. Insomma uscito di lì volevo assolutamente parlarne". Da un punto di vista di dissidenza radicale? "No, io venivo dalla Fdj, infatti non avevo scelto il servizio civile come facevano allora i dissidenti, la mia posizione nei primi anni ottanta era di distanza dal regime, non di opposizione netta". Premessa indispensabile per poter frequentare l'università, immagino... "Sì, dove ho studiato filologia classica, in realtà volevo fare germanistica o storia dell'arte ma i miei voti di maturità non erano abbastanza alti". Quello che si dice una solida formazione, insomma! Ma cosa leggevi da ragazzo? "Fino a tredici anni solo letteratura infantile, poi ho scoperto Jack London, mi ricordo che quando lessi Martin Eden decisi che volevo diventare scrittore! E poi Hermann Hesse a tutto spiano...". Hesse nella Ddr? Credevo fosse introvabile. .. "Non lo trovavi nelle librerie ma fra noi circolava liberamente, io poi avevo mio nonno che ogni estate andava a ovest - sai che i pensionati avevano il permesso - lui mi portava sempre libri di Hesse, quelli rilegati di Suhrkamp, mi ricordo ancora l'odore e di come li annusavo... Me li portavo in vacanza sul Tatra, e lì sognavo orizzonti sconfinati... Tieni conto che mio padre era passato a ovest già nel '7,7 - "//-legai", come si diceva allora - io invece sono cresciuto a est da solo con mia madre". Di qui la figura di Renate Meurer, immagino. Ma tornando alle letture: non era la letteratura russa quella preponderante da voi? "Certo, quella era molto diffusa. Ho amato molto II maestro e Margherita, ma poi anche Gogol, Dostoevskij, Platonov. Tolstoj invece l'ho letto solo tardi, quasi per dovere - sai, visto che avevo scritto un libro sulla Russia...". Ma con le tue storie brevi uno pensa piuttosto a Hemingway... "Sì, quello è stato decisivo, tanto più che lo leggevamo già a scuola. Importante per me è stato anche Joyce. Carver invece l'ho letto solo dopo la svolta. Sull'Italia leggevo di tutto, Pavese è stato tra i primi...". Nel tuo libro tu ringrazi alcune fondazioni. Di cosa vive un esordiente nella Germania di oggi? C'è un sostegno pubblico? "Prima mi ha aiutato il Kunstverein di Ròderhof, un paesino nello Harz. Avevano letto il manoscritto di 33 attimi di felicità, era piaciuto e mi han dato 2000 marchi, poca cosa se vuoi, ma per me vitale da un punto di vista psicologico. Poi ho avuto una borsa di studio, è stato un colpo di fortuna. Nel 1994 la mia agente mi ha segnalato un concorso: sei mesi a New York con 27.000 marchi, volo e alloggio pagato, una vera pacchia!". La tua agente? Ma non avevi ancora pubblicato nulla! "È stato un caso. Sai io nell'ambiente editoriale non conoscevo anima viva, chi mi ha aiutato è stato Durs Grunbein - a Dresda eravamo compagni d'asilo - così nel 1994 sono capitato tra le mani di un'agente letteraria che aveva appena aperto il suo ufficio a Berlino, figurati -ero il suo secondo cliente! Una sera mi telefona e mi dice di questa borsa riservata a giovani autori orientali. Nel frattempo il manoscritto di 33 attimi di felicità era già approdato al Berlin Verlag". L'atteggiamento di Grunbein ricorda la solidarietà tra scrittori che vigeva nella Ddr. Allora c'era l'abitudine di confrontarsi sui manoscritti, è ancora così oggi? "Sì, lo facciamo ancora, ci sono occasioni d'incontro - il Literarisches Kollo-quium di Berlino per esempio -, ma soprattutto per noi è importante lo scambio d'idee sulla scrittura, ci si restituisce i manoscritti con tanto di commento a margine, io lo faccio non solo con Grunbein ma anche con Katja Lange-Muller o con lo svizzero Perikles Monioudis, l'autore di Deutschlandflug. Torniamo al tuo primo libro, di prossima pubblicazione anche in Italia, 33 attimi di felicità, ambientato nella Russia successiva al crollo del comunismo. "Un tedesco a Pietroburgo", dice il sottotitolo... "Sì, il libro è nato da un viaggio del 1993, ma anche da ragazzo c'ero stato spesso - quando si chiamava ancora Leningrado. Dopo l'avvento della pere-strojka nell'Urss ci si respirava un'aria nuova, noi dell'Est eravamo elettrizzati dalle discussioni in campo espressivo, era straordinario quello che si vedeva lì in fatto di pittura, video e arte giovanile a partire dal 1985. In confronto la Ddr era come ingessata, poi di colpo da noi c'è stata la svolta. E tu come l'hai vissuta? "Io ero impegnato nel Neues Forum, nell'autunno mi ero molto esposto, casa mia era diventata una specie di centrale. Invece quella notte del 9 novembre ero andato a dormire! Il giorno dopo, alla notizia del crollo del muro, la mia prima preoccupazione era che finisse tutto lì, che la gente smettesse di far politica per precipitarsi a Ovest a vedere le vetrine... Poi la storia ci ha travolto e in un baleno siamo passati dal realsocialismo al realcapitali-smo! Dopo la riunificazione ho provato un senso di paralisi, sì - anche di delusione. Successivamente il viaggio attraverso la Russia mi ha dato un nuovo impulso, volevo descrivere quell'incrocio incredibile di vecchio e nuovo, misticismo e mercato, rassegnazione e rapina. Lì ci incontravi di tutto: nazionalisti e monarchici, fascisti e vecchi comunisti. Il tuo è un tessuto composito di microstorie, scaglie narrative mobilissime, anzi prismatiche, come se la complessità del presente fosse afferrabile solo nel frammento. Nello stesso tempo è un testo denso di riferimenti letterari, come sei arrivato a questa scrittura? "Nel maggio del 1993 ho cominciato con qualche schizzo. Col mondo russo avevo una certa familiarità, d'altra parte volevo segnalare una distanza del narratore, uno sguardo esterno insomma. Per questo ho costruito il dispositivo iniziale, un certo Hofmann trova un manoscritto eccetera eccetera. Sai, il peso della storia lì come tedesco te lo senti addosso, a Stalingrado con l'assedio dei na-zi c'è stato un milione di morti, tu arrivi lì e c'è gente che si ricorda ancora tutto, magari sanno anche il tedesco e tu chiedi - ma dove l'ha imparato? e ti senti rispondere: nel lager! Questo fa sì che su certi temi noi non possiamo puntare il dito, per esempio c'è un antisemitismo diffuso, ma io sono tedesco - e proprio io mi metto a far loro la morale?". Anche nel secondo libro usi il taglio rapido, a scheggia, con un filo conduttore e una cura del dettaglio che richiamano la struttura a mosaico. "Sì, la storia breve, aperta, mi consente di lavorare su un presente che è ancora così sfuggente. Se scrivessi sugli anni settanta adotterei una struttura certo più organica, distesa. Perché allora sarebbe la distanza a consentirmelo, mi potrei guardare indietro e dire, sì - era così". In Storie semplici hai introdotto una sorta di riassunto, un corsivo che precede le singole storie; sembra un aiuto al lettore per orientarsi nel fìtto reticolo narrativo, poi però ci si accorge di qualche divergenza, quasi tu volessi suggerire un altro punto di vista, è così? "Certo, è una specie di soglia introduttiva che uso per segnalare il relativismo della prospettiva, quasi per sdoppiarla, un po' come succede nei racconti di E.T.A. Hoffmann. Come se dicessi: la storia ve la racconto così ma, attenzione, potrebbe anche andare diversamente! Anche la chiusa delle singole microstorie non è mai realistica come nel primo libro, qui tendo a virare nel surreale, l'intento è di slittare in un'altra dimensione narrativa". Sei di Dresda, hai studiato a Jena, ma le tue storie "semplici" sono ambientate in una piccola città di provincia, perché? "In provincia, ad Altenburg, ho lavorato per tre anni, quindi parlo di situazioni che conosco, ma non è l'unico motivo. Secondo me hanno ragione gli americani, è ai margini di una società che trovi gli aspetti più autentici". Colpisce la frequenza nel parlato del lessico inglese, hai voluto marcare l'influsso occidentale o in Germania oggi è davvero così? "Anche peggio. Ormai persino i con servatori usano l'inglese a più non posso, figurati che lo slogan della Cdu alle ultime elezioni era 'Keep Kohl' ! Da noi - per farti un esempio - non c'è più nessuno che dica 'Papiergeschàft', dicono tutti 'Pa- pershop', e nella Germania orientale addirittura l'inglese dilaga, in questo senso siamo proprio dei parvenu Un certo peso lo dai alla vita di redazione di un giornale, alla concorrenza e all'assillo di procacciarsi la pubblicità per stare a galla. E un tema che deriva dalla tua esperienza? "Sì, nel 1989 ero caporedattore del giornale del Neues Forum, erano i giorni delle grandi dimostrazioni a Lipsia, stampavamo un foglio di discussione teorica convinti che quello fosse l'essenziale - senza accorgerci che ormai era tardi e l'unificazione era in marcia. E poi non avevamo la minima esperienza di bilancio, dicevamo: pubblicità? chi vuoi mai che la legga! Così è andata a finire che appena un anno dopo abbiamo dovuto fondare un giornale parallelo di sole inserzioni pubblicitarie per poter sopravvivere... Poi ci sono state le prime elezioni, noi ce l'abbiamo messa tutta per escludere dal gioco la vecchia Sed e - oplà! chi vince? la Cdu! e con dentro dei Ddr che se n'erano stati rintanati fino all'ultimo, mai una dimostrazione, niente, zitti fino alla fine ad aspettare il momento buono. Le prime elezioni libere e noi scompariamo! E stata dura, solo il 2,7% abbiamo preso! Mentre nei posti chiave sono entrati subito i cattolici, una minoranza da noi, ma gente abituata a una struttura gerarchica, han subito capito da che parte si stava andando...". Interessante, chissà che prima o poi anche noi italiani non abbiamo una chance in Europa... Tornando al tuo romanzo, qua e là sullo sfondo si scorgono bande di giovani picchiatori; come vedi il problema della violenza in Germania? "Già, il mio non è certo lo scenario urbano dei Buddenhróok... Da come la metto si capisce che non sono ottimista, d'altra parte questo è un tema complicato. H fatto è che da noi la gente ha avuto per qua-rant'anni una certa sicurezza, lavoro, uno status. Ci si aspettava una vera democrazia e invece ci siamo ritrovati un governo conservatore che ha licenziato a tutto spiano. Di qui la delusione. Poi c'erano quelli che volevano subito il marco occidentale quando anche un bambino avrebbe capito che con l'unificazione monetaria l'industria orientale sarebbe stata esclusa dal mercato est-europeo. Prima esportavamo l'80%, figurati se con il crollo economico che avevano in casa i paesi dell'Est potevano pagarci in marchi occidentali! Prendi Altenburg: nel giro di pochi mesi la disoccupazione è salita al 28%. Tutte le industrie hanno chiuso, ancora oggi l'unica fonte di lavoro è costituita dall'ospedale e dal teatro, d'altro non è rimasto nulla. La gente cerca di dare un senso alla propria esistenza e non lo trova. Guarda: leggi Camus e c'è già tutto dentro, la violenza, la perdita di uno spirito comunitario". Con la differenza che in Germania nessuno muore di fame! Certo anche nelle ultime battute del romanzo si coglie un senso di distacco, una voglia di andare "il più lontano possibile" come dice Martin a Jenny. La coppia scompare nella pioggia ma la meta resta indefinita, come in tanta letteratura tedesca contemporanea i due sembrano in marcia verso una terra di nessuno. "Sì, c'è però un dettaglio che mi sta a cuore: Martin e Jenny escono di scena tenendosi per mano!".