OTTOBRE 1999 rvi. 10, PAG. 12 Esistenze pietrificate La vita come dovere e vanità ROBERTO VALLE sàndor màrai L'eredità di Eszter ed. orig. 1939 trad. dall'ungherese di Giacomo Bonetti pp. 137, Lit 22.000 Adelphi, Milano 1999 sàndor màrai Le braci ed. orig. 1942 trad. dall'ungherese di Marinella D'Alessandro pp. 181, Lit 25.000 Adelphi, Milano 1998 "Rimani solo e ricorda. Rimani solo e osserva. Rimani solo e rispondi. Non illuderti: non esistono soluzioni diverse. Rimani solo, anche a costo della vita": così lo scrittore ungherese Sàndor Màrai, in Cielo e terra (1942), epitomizza il proprio destino, esaltando la dignità di quegli autentici "spiriti sovrani" (Pascal, Hòlderlin e Nietzsche) che non sono stati conniventi con il mondo e non se ne sono lasciati contagiare. Nato nel 1900 a Kassa (in una terra di frontiera che all'inizio del secolo è parte della Kakania asburgica e ora della Slovacchia), Màrai era assurto al successo letterario negli anni trenta, anche se il carattere solitario e schivo lo aveva tenuto lontano dallo scontro tra "populisti" (cantori del mondo contadino) e "borghesi" (Yintelligencija cosmopolita cittadina) che animava la cultura ungherese tra le due guerre. Sebbene godesse di agiatezza e fama, Màrai era già allora precipitato nella "voragine della solitudine", diventando, come il musiliano uomo senza qualità, una figura emblematica della "fine di un modo di vivere": egli faceva parte di quella schiera di "uomini splendidi" che non hanno talento per vivere in armonia con 0 mondo e che credono nell'onore, nelle virtù virili, nel silenzio e nella solitudine. Con l'avvento del socialismo reale, Màrai, nel 1948, abbandonò l'Ungheria e, dopo un soggiorno di qualche anno a Napoli, si stabilì negli Stati Uniti, a San Diego, dove divenne un migrante sedentario e dove morì suicida nel 1989 (un suicidio annunciato, perché prima di morire ebbe la premura di chiamare un'ambulanza che andasse a prelevare il suo cadavere). Nel deserto senza frontiere e senza miraggi dell'esilio, l'isolamento dello scrittore ungherese fu totale (unica sua patria la lingua), come testimonia il Diario tenuto dal 1943 al 1983. La riscoperta di Màrai - grazie alla pubblicazione di questi due romanzi, Le braci e L'eredità di Eszter, e al successo editoriale che ne è conseguito - non è solo un caso letterario alla moda, ma fa riemergere dall'oblio uno scrittore che può essere collocato nell'ambito di quel Novecento mitteleuropeo (Mann, Musil, Kundera, Bernhard) che ha saputo esprimere in maniera magi- strale la "saggezza del romanzo": tale saggezza disfa e contraddice le trame intessute da quello che lo scrittore ungherese ha definito "il tempo sospetto della rivalutazione dei valori, la moda degli slogan". Alla superficialità e alla stupidità del Novecento, la "saggezza del romanzo" contrappone una sorta di filosofia del fundus animae che riflette senza illusioni sugli aspetti più reconditi dell'esistenza. Il tema centrale dei due romanzi di Marai è, infatti, la vita come "dovere e vanità": il dovere è il compimento del proprio destino, inteso sia come processo di autoformazione, sia come l'insieme di quelle perdite gravi che nel corso della vita l'uomo di carattere deve saper sopportare, fino alla perdita di sé nella morte. La vanità, invece, attesta l'irrecuperabilità dell'esistenza che versa nella precarietà e in un perenne stato di pericolo, perché è continuamente minacciata dalla distruzione. La vertigine della vanità si rivela in tutta la sua potenza devastante nella dissennatezza delle passioni, alla quale nessuna educazione sentimentale può resistere e che appartiene alla "notte dell'uomo", a quell'abisso segreto che si ha paura di sondare. In fondo all'abisso segreto c'è una verità panica: dietro l'apparente ordine rigoroso e razio- nale della cosiddetta realtà si nasconde e agisce tormentosamente una forza che brucia, una "radiazione maligna" che annichilisce la vita, ma che, nel contempo, la tiene in tensione. Questa forza sotterranea può rimanere pietrificata per lungo tempo nell'attesa di palesarsi, ma alla fine è destinata a straripare in un profluvio di "energia senza scopo". In L'eredità di Eszter la protagonista vive un'esistenza silenziosa e appartata nell'attesa del ritorno del suo unico e incompiuto amore, Lajos: un dongiovanni da strapazzo, un millantatore impenitente che vent'anni prima, venendo me- no alla promessa fatta, l'aveva ingannata e alla fine aveva sposato, senza amore, Vilma, la sorella di Eszter. Vilma aveva sempre odiato la sorella e quest'odio l'aveva sospinta a sposare Lajos: con lui aveva vissuto una vita infelice e precaria, alla quale solo la morte l'aveva sottratta. Vivendo in uno stato di perenne "dormiveglia", Eszter attende, asserragliata nella tana della solitudine, che Lajos torni per spiegare quel gesto gratuito, quella "sorpresa arbitraria" che ha sospeso la sua esistenza. All'inquieta e sedentaria attesa di Eszter (fondata sul convincimento che "gli amori infelici non finiscono mai") si contrappone l'inquieto e inconcludente nomadismo di Lajos che per vent'anni ha vissuto come un "cacciatore", addentrandosi ogni giorno nella civile giungla organizzata alla ricerca di denaro. Lajos è un puer aeternus con una spiccata tendenza alle "fantasie più strampalate": con i suoi sortilegi, egli esercita un fascino da illusionista da baraccone che gli permette di subornare coloro che nella vita sono destinati a soccombere. Tuttavia anch'egli è un avventuriero soccombente che ha alternato periodi di "ozio costoso" a improbabili imprese intellettuali e politiche destinate a fallire, e alla fine di un'esistenza insolvente sono rimasti solo i debiti da pagare. I debiti sono il movente che spinge Lajos a tornare da Eszter per chie- derle l'estremo sacrificio (perché, come afferma cialtronescamente, le donne sono destinate ad amare "eroicamente"): la vendita di quella casa che è stata il teatro della tragedia silenziosa della donna. Da abile c o m m e -diante Lajos riesce a convincere Eszter sciorinando una filosofia di vita da Nietzsche di provincia: egli ha vissuto pericolosamente e nella menzogna (che è un dato "primordiale") e, tuttavia, confessa il suo antico "amore incoerente" per Eszter, rimproverandola di mancanza di coraggio. Alla base di questo rimprovero c'è una verità che la protagonista apprende dopo vent'anni: Lajos, per vanità, era caduto nella trappola sentimentale di Vilma, ma poi si era pentito e aveva scritto tre lettere a Eszter, una settimana prima del matrimonio, che non erano mai giunte a destinazione, perché intercettate e occultate dalla promessa sposa. Il destino di Lajos e di Eszter non si compie nella rivelazione del segreto delle tre lettere, ma nella fatale dissoluzione dei sentimenti: l'amore morto e senza avvenire dei due amanti mancati e l'odio della sorella defunta. Le vite dei due protagonisti, incompiute e in ritardo, si trascineranno abulicamente nel solco tracciato dal momento della rottura della promessa: Eszter spodestata della sua eredità resterà sola, mentre Lajos continuerà a vegetare nel suo grottesco demi-monde truffaldino. Anche Le braci è avvolto nell'atmosfera impalpabile dell'attesa e della dolorosa e masochistica reminescenza del passato; anche in questo caso l'aristocratico generale protagonista del romanzo vive un'esistenza pietrificata (simboleggiata dal suo castello-mausoleo di pietra ai piedi dei Carpazi), come un paralitico che coltiva con passione la propria infermità. Il generale, dopo quarantun'anni, attende il ritorno dai Tropici di Konrad, con il quale aveva condiviso fin dall'infanzia un'amicizia "seria e silenziosa" che sembrava destinata a durare e che invece si era bruscamente interrotta. Questa rottura era stata causata dall'irruzione dell'amore tra Konrad e Krisztina, la moglie del generale. Per sfuggire a questa situazione incresciosa Konrad era partito per i Tropici, mentre il generale e la moglie avevano continuato a vivere in assoluto silenzio, finché Krisztina non era morta. Il settantacinquenne generale, animato dal risentimento e dalla sete di vendetta, vuole conoscere dove ha "inizio il tradimento" e per quali ragioni tra due uomini che sono stati amici si può aprire un abisso incolmabile. Il confronto tra il sedentario risentito e il nomade Konrad si risolve in un lungo soliloquio del generale: per tutta la vita si è preparato a quel momento e si è reso invisibile ai mondo per poter ricomparire davanti all'amico-rivale e conoscere la verità. Sebbene Konrad sia fuggito ai Tropici, i due protagonisti sono rimasti nello stesso posto, nel castello-mausoleo, incatenati da quel tradimento che ha cambiato irrimediabilmente le loro vite. Alla fine, anche in questo caso, non c'è alcuna spiegazione e alcuna vendetta: la spietata verità che emerge è proprio la vanità dell'attesa. Dietro la maschera dell'affinità elettiva si era celato per lungo tempo l'odio dell'amico-rivale per il generale: quest'odio, scaturito dall'invidia sociale (l'amico è un parvenu) e da un senso di superiorità intellettuale (la spiccata inclinazione per la musica di Konrad), con il tempo era diventato desiderio di vendetta che si era trasformato nella passione del tradimento, quale estrema ribellione dell'amico-rivale. L'inquietante e familiare legame degli affetti e la "legge geometrica" del triangolo ha stretto indissolubilmente fra loro i tre protagonisti, per cui non c'è stato tradimento: l'autentico tradimento consiste nel sopravvivere alla catastrofe esistenziale, e la vendetta in ritardo del generale non si compie. Questi destini, posseduti dal demone di una passione, compiono il loro dovere bruciando se stessi e alla fine rimane sólo la vanità di un luttuoso cumulo di "braci luride e nere". "Nella dolorosa e masochistica reminescenza del passato