N.3 |dei libri del mese| Insegnare nelle zone d'ombra Un impegno taumaturgico Marco Rossi-Doria, Di mestiere faccio il maestro, pp. 178, Lit 18.000, l'ancora, Napoli 1999 L'impressione esterna, in chi assista allo strascicato dibattito sui finanziamenti statali alla scuola privata, potrebbe risultare quella di un generico, diffuso malessere che serpeggia tra le aule del servizio pubblico, con la conseguenza dell'ennesimo malfunzionamento di uno dei tanti settori assistiti del nostro lembo d'Europa. Va sottolineato, al contrario, l'impegno spesso taumaturgico della scuola pubblica nei confronti di situazioni sociali e psicologiche davanti alle quali nulla offrono le maree di circolari legal-burocratiche commissionate dalla consueta pletora di saggi. La fiducia cieca in questo impegno diffuso a macchia d'olio su un territorio dalle configurazioni sociali più diversificate ha consentito alla pubblica istruzione di superare le controversie nate dalle innumerevoli variazioni di percorso che in meno di trent'anni l'hanno condotta dal quieto immobilismo delle maestrine deamicisia-ne alla - forse determinante -prova d'appello delle autonomie. In mezzo c'è stata la Storia, e nelle sue piccole - mai troppo pubblicizzate - rivoluzioni, la scuola si è diversificata anche geograficamente, dando luogo a realtà di utilità sociale come il tempo pieno diffuso soprattutto nel nord metropolitano, o a figure di eroi solitari come i "maestri di strada", che lasciano intendere chiaramente la logica del "faida-te" alla quale sono costretti a sottostare molti insegnanti per difendere la loro roccaforte. In questa situazione agisce anche Marco Rossi-Doria, figlio del grande studioso di economia Manlio, a differenza del quale non ha scelto carriere accademiche, ma la via di un modesto, contrastato insegnamento nella zona più variegata, solare e conflittuale dell'età scolastica, quel- la elementare. Le esperienze di Marco, che ha insegnato anche in Africa ed è consulente dei programmi per l'infanzia del Consiglio d'Europa, riscoprono proprio la necessità di un impegno a tratti ardimentoso, quando le realtà territoriali fin da subito pesano addosso con le loro scomodità. Nel cuore di Napoli, Sergio Pent dove l'emarginazione spesso è un dato di fatto che ti trascini al seguito dalla nascita, Marco è arrivato a ventidue anni, sul finire degli anni settanta, scontrandosi con miseria e ignoranza, lutti frequenti - e non tutti per morte naturale - e tendenza all'abbandono scolastico: storie di confine, in cui la solitudine dell'inse- gnante diventa concreta e dolorosa. Abbandonarsi alla corrente di un diffuso lassismo risulterebbe comodo, ma sarebbe come lasciar fare al destino, che di solito - e in certe realtà - è già un marchio infamante da portarsi appresso. Marco capisce quasi subito che le istituzioni concedono ogni libertà possibile là dove non riescono ad arrivare con i loro dogmi generalizzabili. Dopo l'esperienza ancor più dolente dell'Africa torna a Napoli, la sua città, e diventa "maestro di strada". Operando sul territorio, confrontandosi con la gente, ascoltando i suoi problemi, Marco offre un servizio che è una sorta di sportello psicologico aperto a tutte le difficoltà, purché i bambini trovino la strada di un inserimento scolastico. Ed è proprio qui che i fumosi discorsi delle autonomie futuribili vengono a perdersi: la realtà si gioca in un confronto diretto in cui il maestro - il bravo maestro - diventa di volta in volta psicologo, assistente sociale, amico di confidenze, rompiscatole che allontana i ragazzini dal lavoro nero, medico dell'anima. La storia di questa esperienza tuttora in atto vale più di qualsiasi gesto di denuncia, più di ogni discorso di privilegio e di scelta educativa, più di ogni discriminazione politica o - peggio ancora - religiosa. Il senso di appartenenza a una realtà diventa la realtà stessa: solo in questo modo si può operare nella zona d'ombra del tracciato educativo. Un'educazione che deve passare, per forza di cose, attraverso un mandato di fiducia che va conquistato sul campo, ovvero nei bar, al mercato, nella provvisorietà delle case sgomitanti nei vicoli, aprendo per davvero - fisicamente - la scuola alla strada. Questa è la storia del "maestro di strada" Marco Rossi-Doria: una storia tra tante, una di quelle maggiormente ai margini, ma la più adatta a farci capire quanto ancora i discorsi e i programmi politici siano lontani da una realtà che pochi sembrano davvero intenzionati ad avvicinare e a conoscere. La riforma di tutti i sud della pubblica istruzione non può non transitare attraverso il confronto con le problematiche sociali: dall'abbandono scolastico alla gavetta malavitosa il passo non è poi così lungo. ■ Napoli. Capodanno del Duemila Marosia Castaldi Partiamo per Napoli con le bambine e io ho in mente un quadro che Warhol non ha mai fatto: l'immagine del Vesuvio riprodotta più volte sulla stessa tela, come ha fatto con la sedia elettrica, con la Coca Cola, con la faccia di Norma Jean. Saliamo su un Dornier 328 della Minerva Airlines e scendiamo dopo un'ora e venti minuti all'aeroporto di Capodichino che un tempo era sporco, squallido, malmesso. Ora è lucido, strigliato, pieno di vetrine. In un angolo, accanto alla zona fumatori, ci sono due giovani che suonano Regimila su una mandola e una chitarra. Sono seduti di fronte al Naples Mania International dove si vendono gadget di tutti i tipi insieme alle cartoline col Vesuvio. Suonano eleganti magri silenziosi. Non guardano nessuno. Sul rettilineo che si avvia alla tangenziale c'è una gigantesca torre di spaghetti Barilla n° 5: "Italy's preferred pasta". La tangenziale è congestionata dai voli provenienti da Roma, Genova, Milano, Parigi, Monaco. Ci avviamo verso il Vomero, la collina dove un tempo si faceva la villeggiatura in campagna, come a Bagnoli si facevano i bagni di mare. Al Vomero ci sono scalettine che ricordano Parigi, come a Bagnoli infiniti angoli di strada ricordano New York. Ci addentriamo giorno dopo giorno nei quartieri spagnoli, nelle funicolari, nelle strade e stradine che percorrono la città da una collina all'altra: Il Vomero e Capodimonte da un lato, Posillipo dall'altra. All'immagine ossessiva e seriale del quadro immaginario di Warhol si affianca quella ossessiva e mai uguale a se stessa del labirinto. La città sembra tranquilla. Non c'è tensione. Sono programmate per 0 Capodanno del duemila tre manifestazioni: fuochi artificiali al Castel dell'Ovo, concerto di Dalla in piazza Plebiscito, discoteca sul lungomare. La mattina del trentuno dicembre millenovecentonovantanove andiamo sulla costiera amalfitana sfiorando i paesi circumvesuviani: Torre del Greco, Torre Annunziata, dove si lavorano i coralli, ci sono chiesette piene di ex voto e magnifiche ville settecentesche abbandonate. A Positano un presepe vivente si arrampica lungo le stradine che vanno al Monte Pertuso. Sbirciamo dentro le vecchie case del quartiere "li Parlati": vecchi pavimenti, vecchie tovaglie, vecchi mestieri, vecchi bambini che sorridono e si ingozzano di cioccolata calda per resistere al freddo, soprattutto quelli che stanno intorno a una madonna tizianesca che regge un bambino vero di sei mesi veri e dorme. Torniamo a Napoli sotto il vulcano che si slarga in una fertile pianura, il padre padrone che ha generato vino pomodori arance e i calchi di Pompei, quelle figure che con il ges- Il libro Se una progressione c'è in questa autobiografia di un maestro sotto forma di collage, essa sta in un graduale prosciugamento formale e concettuale, come in un tentativo di raggiungere una sorta di grado zero della didattica, da cui poi ricominciare a costruire. Si inizia ("febbraio millenove-centoottantotto") con un altisonante e un po' manieristico monologo attribuito a "Efraìm Naa-na", studente di una scuola coranica sull'"altipiano lontano dall'Italia" dove il maestro insegna in una scuola italiana; e si finisce ("febbraio millenovecento-novantotto") con una sequenza di scarni capitoletti di riflessione sull'esperienza di insegnamento di strada in un quartiere popolare di "una metropoli contemporanea d'Europa" affacciata sul mare. Nel frattempo anche lo stile cambia, e si finisce per rinunciare all'iniziale esibizione di una letterarietà a tratti forzata. Ma il percorso per arrivarci è sinuoso. Dopo un pamphlet all'insegna dell'empowerment ("rendere capaci", traduce l'autore) ben nu- trito di dati sulla condizione dell'infanzia nel mondo (quel genere di dati che ci sembra sempre di avere già interiorizzato ma che poi ogni volta ci lasciano storditi, tra bisogno di guardare in faccia la dura realtà e terrorismo statistico), si passa a un lungo flashback diaristico ("febbraio millenove-centoottantu.no") sul primo incarico dell'autore, che a ventidue anni si ritrova maestro in "una città più grande dei tre quarti dei capoluoghi di provincia d'Italia", una città "sotto il vulcano" (forse quella destinata a divenire "una metropoli contemporanea d'Europa"?). Ed è questo il capitolo più avventuroso, più romanzesco; pagine in cui si seguono passo passo ansietà e scoperte, dubbi e piccole vittorie del maestro Marco alle prese con colleghi scafati e con bidelli insinuanti, con un direttore di antica dirittura e con bambini amatissimi e ancora misteriosi. Da quest'esperienza nasce un altro pamphlet, indignato e volenteroso, in cui si denuncia la "prassi servile e diffusa" fondata su una pigra applicazione di circolari e astratte direttive dall'alto, e si chiama a una Grande Assise che rifondi una "scuola semplicemente normale" basata sul buon senso e sulla responsabilizzazione di chi sta in basso e lavora davvero con i bambini. Però questo progetto pare destinato a fallire, almeno all'interno della scuola, e così, con un nuovo salto temporale, ritroviamo il maestro in "un'unica stanza aperta sulla strada", impegnato in un tentativo di rigenerazione, in una full immersion nella realtà fuori dalla scuola che è anche la scommessa, difficile e contradditoria, di un nuovo modo di fare scuola. Sullo sfondo permangono alcuni temi più o meno impliciti: la conflittualità con il modello paterno attraverso l'elaborazione di una visione dell'intellettuale come figura umile e di servizio (il maestro Marco, non il Professore Rossi-Doria); l'irrequietezza professionale, il farsi continue domande sul proprio fare, la ricerca quasi ossessiva di risposte, di modelli positivi, di soluzioni; e infine l'amore incondizionato per i bambini, la volontà continuamente ribadita di porli al centro. Tanto che alla fine turba che si senta così forte il bisogno di ricordare che la scuola la si fa per loro. Norman Gobetti Maestri Ottima nella tradizione italiana la figura del maestro e frequente la contiguità fra il mestiere di maestro e la voce d'autore. Grande poeta e maestro amato dai suoi scolari, scuola elementare Francesco Crispi a Monteverde in Roma, è stato Giorgio Caproni (1912-1990). Era maestro elementare il Lucio Mastronardi (1930-1979) autore di un grottesco Il maestro di Vigevano (1962, nel pieno del boom). Lavorando per l'infanzia sono cresciuti a scrittori Gianni Rodari (1920-1980) e Mario Lodi (1922). Ha insegnato a Castelletto e a Bologna, per sedici anni nelle scuole elementari, Antonio Faeti (1938), prima di passare all'insegnamento universitario e infine indursi a comporre romanzi. Riprende ora un'esperienza di Faeti l'insegnante di scuola media Enrico De Vivo e ne espone i frutti nel volumetto Racconti impensati di ragazzini (Feltrinelli, 1999), impreziosito da un saggio di Gianni Celati (1937), il quale approfitta dei temi dei ragazzini per trovare conferme a una sua teoria o filosofia dello scrivere. Nella storia di questo mezzo secolo il più discusso dei maestri, in senso ampio, è comunque Lorenzo Milani (1923-1967), reso esemplare dalla radicalità sia del distacco dalle origini di famiglia sia dell'investimento nella scuola, però extraistituzionale e rivolta solo ai poveri. Su tale parabola esistenziale, e sulla straordinaria volontà di potenza che può manifestarsi nella dedizione, è venuta da Michele Ranchetti una notevole testimonianza, uscita su "il manifesto", 22 maggio 1997, con il titolo Un'altra verità su don Milani. (L.D.F.)