„ imcv ■■dei libri del mbse|| Contro i fantasmi della vita I barbari e i bambini Eva Milano Ana Maria Matute, Dimenticato Re Gudù, ed. orig. 1996, trad. dallo spagnolo di Maria Nicola, pp. 825, Lit 35.000, Rizzoli, Milano 1999 Quando prenderete in mano questo grosso volume ricordatevi che state per leggere un testamento. Ana Maria Matute definiva così quest'opera in una splendida intervista di Rosa Montero al momento della sua pubblicazione in Spagna. Dimenticato Re Gudù è il lavoro che segna il ritorno dell'autrice dopo oltre vent'anni di un silenzio piuttosto complicato, letterario e pubblico, dietro cui si cela un faticoso percorso personale, e al tempo stesso il segno di chiusura di una traiettoria, compendio che disvela e manifesta il senso di una vita. Al compiere settant'anni, i riconoscimenti del mondo letterario spagnolo, che proprio tre anni fa le assegnò un posto alla Real Academia Espanola, si assommarono all'intima emozione di vedere conclusa e data alle stampe un'opera che tanto significava per lei, al punto che in occasione di quella stessa intervista l'autrice affermò che non si sarebbe stupita se la sua vita si fosse spenta di lì a poco. Ma Ana Maria Matute è tut- tora viva e vegeta, e gode di ottima salute e spirito gioioso. Le circostanze della realizzazione di Dimenticato Re Gudù di quell'epoca ci raccontano qualcosa; la Regina Ardid, la principessa Tontina con tutto il loro seguito di maghi, ondine e creature fatate, scorrazzano per la casa dell'autrice per vent'anni, e il re Olar con la sua nobile e fiera progenie diventano una presenza quotidiana e abituale tanto da acquisire consistenza fisica; il manoscritto, che assume dimensioni imponenti nel corso degli anni, viene trasportato su un carrello avanti e indietro per la casa: come si porta un figlio piccolo per averlo sempre con sé, come ci si tiene vicino qualcosa che si teme di perdere. Re Gudù, dice l'autrice, era prima di tutto un personaggio che viveva con lei, un gioco da inventare con le sue nipoti quando andavano a trovarla. Un gioco che un giorno ha oltrepassato il segno: si comincia con un passatempo originale come la costruzione di piccole città medievali e castelli fortificati con materiali di scarto e si finisce per svegliarsi disperati al pensiero - o brutto sogno, in un'eclatante deriva ormai giunta al limite del capovolgimento -che il mondo di Gudù non esiste. Se la realtà fosse ciò che si vede, si direbbe che lo scopo e l'intimo desiderio di Ana Maria Matute sia quello di costruire per sé un regno in cui il fragoroso crollo di quei presupposti permetta l'ingresso in una dimensione rovesciata in cui solo gli occhi della fantasia stabiliscono i canoni della verità. Su vaste e fredde praterie cavalcano veloci destrieri i rozzi cavalieri di un'epoca antica, lanciati in un eterno assalto alla conquista di tutte le terre che le aride pianure del nord concedono loro. Un re fiero, mosso da un incessante anelito di dominio, grido che infonde ardimento e spada che scaccia le insidie, conduce le truppe brade che combattono più per placare i primitivi morsi di furore violento che le pervadono che non per il solo fine della vittoria; una faccia è quella dei rigidi inverni nordici, di sete di vino e sangue, di superstizioni e credenze vive e quotidiane e di creature fatate che si muovono con agio tra gli uomini. L'altra è quel luogo del quale si può dire: "E così tutto lì era insensato, leggero, bello e sottosopra". Là non esiste il lavoro e tutto è un gioco, e si fa solo quel che si ha voglia di fare; chi se ne va per sempre non è morto, ma "gioca a non tornare più". È il Tempo, il cerchio in cui il passato incontra il futuro e vi si confonde, dove la fantasia e la memoria coincidono e parlano il linguaggio dei bambini e delle favole, fugace al punto di esistere solo finché ne permane la memoria o la fede. "E solo di questa fragile materia è fatta la vita: di impossibili recuperi, di impossibili ritorni e di impossibili inizi". Il demone dell'autrice è quella soglia da cui dolorosamente si esce costretti e controvoglia e che non si può ripercorrere al contrario. Volgendosi indietro Ana Maria vede bambini biondi scarmigliati come cuccioli beati sotto l'Albero dei Giochi; di qua stanno i grandi che non sono mai stati bambini o che non se lo ricordano più. Il dramma di diventare adulti sta in questo oblio. Dopo non c'è più tempo da perdere né gesti inconcludenti, tutto avrà uno scopo e non ci sarà pietà. Lo sa bene Ardid, la sovrana di Olar, strappata alla sua infanzia il giorno infausto in cui scorse il suo adorato padre e il fratello preferito pendere esanimi dalla torre del castello, decisa a estirpare il seme dell'amore da se stessa e da suo figlio Gudù perché possa un giorno diventare un grande re, immune alla tentazione di cedere alle ragioni del cuore; e lo sa bene il Trasgo del Sud, creatura fatata che a causa di quel sentimento così umano e travolgente proprio per quel bambino che non sa amare perde definitivamente i privilegi della sua natura già contaminata dal vino e si consuma nella follia. Creare un mondo tornando all' oscura irrazionalità del passato medievale, riempirlo di barbari e bambini, è una rivoluzione contro i fantasmi di una vita. Di se stessa Matute racconta che quando scoppiò la guerra civile era una bimba undicenne di buona famiglia con alle spalle un'infanzia serena e allegra, ma anche uno spirito più cupo che balbettava la sua ansia, senza difese contro regole rigide in casa e in collegio, con in gola un nodo violento di lacrime trattenute per l'assenza di un abbraccio affettuoso a cui abbandonarsi; era poi la bambina che giocava con i maschi ai loro giochi ruvidi, segno premonitore di una vita tutta trascorsa a far parte, da sola, del gruppo degli uomini per aver dedicato attenzione a campi ancora inusuali per le donne, uno spirito a sue spese avvezzo all'isolamento eppure tremendamente ribelle a tale condizione. Undici anni sono la sua soglia; poi arrivò la guerra e la balbuzie sparì, come se - dice lei - al vedere l'orrore più infernale le fosse passata la paura, e con essa l'età dei giochi. L'epoca del conflitto e quella successiva del regime franchista vengono ricordati nelle sue parole come un lungo periodo di costrizioni alla libertà e di orribili spettacoli, mentre la sua vita a livello personale procede in una perenne lotta contro mille ostacoli da cui la morale tratta è che il dolore uccide e il tempo fa invecchiare, e che non le vengano a raccontare storie. E l'età adulta proprio non le calza; le epoche più belle della sua vita, dice, sono prima della guerra e dopo Franco, e i conti tornano. Perché il mondo degli adulti è una farsa in cui l'unico scopo è quello di dominarsi a vicenda, e lei non ci sta. Fa capolino, da ciò che dice e scrive, un conflitto con l'autorità splendidamente ampio e senza riserve, che cerca di continuo soluzioni alternative e contrattacchi. In uno studio di qualche anno fa su Festa al Nordovest (1953; Einaudi, 1961), Cesare Acutis analizzava l'uso dell'artificio dello straniamento e notava che l'occhio vergine attraverso cui l'autrice filtra la realtà è uno sguardo con forti connotazioni primitive o fanciullesche. Indossare la maschera di un barbaro o di un bimbo è la maniera di prendere le distanze e osservare la logica dell'efficienza, la censura e il deserto spirituale di chi insegue il potere con l'atteggiamento critico dei puri. Ma Dimenticato Re Gudù è anche testimone di un altro percorso. Se per combattere i propri nemici bisogna condividere con loro quanto più possibile, come insegna Ardid, allora Matute indossa i panni di chi quel potere rappresenta. In quest'opera l'autorità non è più incarnata dalla fredda e brusca Dona Pràxedes che in Prima memoria (1960; Sei, 1972; Sel-lerio, 1997) gestiva la funzione esterna di imporre la sua volontà inflessibile e i dettami del senso comune, ma da Ardid, "la unica, vera regina di Olar" e di conseguenza grande protagonista, della quale Matute racconta anche i più intimi conflitti, le scelte e le rinunce operate in funzione della ragion di Stato. L'autrice sceglie ora di calarsi nei panni di chi deve gestire il potere nonostante la profonda avversione per gli aspetti che quel tipo di scelta implica. Il destino di re e regine conduce all'infelicità, poiché per impugnare lo scettro è necessario lasciarsi alle spalle affetti e indispensabili vanità, e conduce a disfarsi in un mare di lacrime. Nonostante questo l'autrice decide di mettere in scena questa possibilità con passione e coinvolgimento, come per essersi posta il problema di gestire i regni che lei stessa, demiurga di piccoli mondi fatti di ciarpame inutile e parole, ha creato. Dimenticato Re Gudù è il campo in cui si respira l'aria di una battaglia recente, il risultato dell'atto di generare in sé il confronto a partire dalla consapevolezza della condizione dell'altro, l'eterno nemico invisibile le cui fattezze si sono scorte troppe volte in coloro che dovevano proteggere e sostenere, a partire dal volto severo della madre fino alle spire di un governo dittatoriale. Nella consapevolezza che quest'esperienza concede sta la chiave che trasforma una favola per grandi dagli echi di saghe nordiche in un testamento, in cui l'impulso alla fuga da vie dolenti incontra la docilità del patteggiamento. ■ La maschera medievale Angelo Morino Ana Maria Matute, Cavaliere senza ritomo, ed. orig. 1971, trad. dallo spagnolo di Maria Nicola, pp. 260, Lit 15.000, Sellerio, Palermo 1999 Venticinque anni prima di Dimenticato re Gudù, nel momento in cui Ana Maria Matute dava alle stampe il romanzo a partire dal quale sarebbe intervenuto il lungo silenzio che sembrava destinato a divenire definitivo, personaggi e paesaggi di un Medioevo arcano avevano già preso forma. Perché già Cavaliere senza ritorno - il titolo con cui si sarebbe detto che la traiet toria della scrittrice spagnola si fosse precocemente chiusa nel 1971 - racconta una storia ambientata nel Medioevo: quella dell'ultimo rampollo di "un piccolo feudatario straccione e di corto ingegno", cresciuto su uno sfondo di un desolato settentrione. Comunque, sia pure estranei a qualsiasi mappa troppo dettagliata, i fondali di Cavaliere senza ritorno, come poi quelli di Dimenticato re Gudù, non appartengono di certo alla Spagna, così come i relativi personaggi non troverebbero posto al fianco del Cid Cam-peador o degli Infanti di Lara. Sin dai loro nomi - Mohl, Lazsko, Kuhn, Ortwin... —, sono figure che rinviano a terre lontane dai confini spagnoli, situate alla periferia di una mai nominata Russia, in luoghi dove la steppa occupa quasi tutto lo spazio e sopravvive il ricordo di trascorse vittorie sui turchi. E qui che il giovane protagonista si descrive impegnato nel seguire il canonico percorso formativo previsto per divenire un cavaliere, spostandosi dalla casa paterna alla corte del barone di Mohl, prestando i suoi servigi a dame e gentiluomini e, in definitiva, venendo a contatto con un mondo più vasto. Così, i materiali di Cavaliere senza ritorno sono il punto di avvio dell'itinerario che - passando attraverso venticinque anni di silenzio - avrebbe portato a Dimenticato re Gudù e oltre lo stesso Dimenticato re Gudù. Infatti, ad ascoltare le anticipazioni, Ana Maria Matute, guarita dalla paralisi nello scrivere che l'aveva colta per tanto tempo, sta lavorando a un nuovo, lungo romanzo, pure questo proiettato in remote contrade medievali. Ma, dinanzi a tale addensarsi di ambientazioni così lontane dal presente, viene da domandarsi se la Spagna del Novecento sia mai stata davvero oggetto dei numerosi titoli che hanno preceduto Cavaliere senza ritorno. E, nel riandare a tutti questi romanzi apparsi fin dal 1948, si ha adesso l'impressione che - pur avendo raccontato pezzi della Spagna del suo secolo - Ana Maria Matute sia stata da sempre avvezza a rifrangere sulla realtà luci di fiaba, facendo sì che trame a lei contemporanee finissero per rivelarsi obbedienti ai modi senza tempo dell'allegoria. È legittimo pensare che, alle origini di tali rappresentazioni del mondo, abbia agito una personale preferenza della scrittrice, che avrebbe scelto cadenze fiabesche e disegni allegorici perché a lei più congeniali di altri. Ma è altrettanto legittimo pensare che, cresciuta in anni sottoposti a un'impietosa censura di regime, Ana Maria Matute - non potendo riprodurre senza filtri quanto le stava intorno - si sia sentita costretta all'uso di maschere e travestimenti. Senza escludere l'eventualità che questi due atteggiamenti si siano incontrati e combinati, sul filo di una predilezione individuale intervenuta a mitigare le asprezze di una specifica circostanza storica. Resta il fatto che, mentre oggi diversi fra primi romanzi possono apparire limitati da equilibri mal risolti, con Cavaliere senza ritorno e Dimenticato re Gudù - i titoli in cui la deriva dalla storia si è imposta in termini definitivi - Ana Maria Matute sta chiudendo la sua opera con pagine che rimarranno fra le migliori. "Chi se ne va per sempre non è morto, ma gioca a non tornare più "