N.5
La cultura come falsa coscienza
Gli zingari: c'è poco da rìdere
Giorgio Morbello
Musica! Trombe e tromboni,
balli, risate, falò, colori... Il vino
scorre, il fumo dei sigari ristagna
sotto la luna, qualcuno dorme nel
frastuono, i bambini scorrazzano
ovunque, mentre animali di tutte
le taglie si divertono come matti.
Volti di simpatiche canaglie ti ac-
colgono con pacche sulle spalle, e
tu sai che stanno già pensando a
come truffarti un'altra volta, ma
non ti vogliono male, che diami-
ne, sono zingari, è la loro cultu-
ra... Un grande spettacolo, come
al cinema, anzi... solo al cinema.
Purtroppo il modello consola-
torio del rom vitale, pieno di ener-
gia, musica e vita, che è ricco ma
vive in roulotte, che si veste con
roba di recupero ma viaggia in
Mercedes, si spegne non appena si
scorge un campo nomadi vero.
Non che i rom siano tristi, ma non
hanno nemmeno poi tanto da ri-
dere. La loro cultura, si diceva. In
effetti, i loro modi di vivere, di
concepire se stessi e il mondo, di
pensare lo spazio e i rapporti, la
trasmissione dei loro saperi, delle
loro lingue sono affascinanti, ci ri-
portano a un universo variegato
ricco di distinzioni e differenze
anche profonde, come quella tra
ortodossi e musulmani. Nel lessi-
co comune però "cultura" rischia
di diventare la parola magica che
ci permette di richiudere il cerchio
del nostro orizzonte, spezzato da
queste presenze perturbanti, re-
frattarie, fastidiose. Come po-
tremmo altrimenti accettare i loro
bimbi sporchi che fanno l'elemo-
sina, i posti in cui vivono, spesso in
condizioni igieniche difficilissime,
il loro rapporto con il lavoro, con i
consumi, con i diritti e i doveri?
Come se facesse parte della cultu-
ra zingara essere ammalati, alco-
lizzati, non avere condizioni di vi-
ta decenti. Se il marocchino che ci
offre i fazzoletti o spaccia è vittima
della globalizzazione, il tossicodi-
pendente della propria fragilità e
di una società che macina le perso-
ne, la prostituta di qualche mafia
che la sfrutta.... Come ce lo spie-
ghiamo lo zingaro che manda i fi-
gli a rubacchiare?
Oggi gli standard di vita si so-
no innalzati, sono aumentati i
consumi, ognuno vorrebbe il
proprio quartiere pulito, ordina-
to, e, soprattutto, sicuro. I rom
che vivono ai margini delle no-
stre città, invece, hanno ai nostri
occhi lo stesso stile di vita di sem-
pre. Molti, come i loro trisnonni,
vendono rose a fidanzati roman-
tici o recuperano il ferro per poi
rivenderlo; le donne, con bambi-
ni o bambolotti al collo, conti-
nuano per le strade a ripetere le
stesse litanie sulla lettura della
mano, sulla fortuna, e talvolta
mandano sinistre maledizioni.
Ma non per questo il loro è un
mondo immobile. E non solo per ,
differenze antropologiche, di lin-
gua, religione, tradizioni, o per le
loro diverse provenienze (Serbia,
Bosnia, Kosovo, Romania...)
Anche altre sono le articolazioni
che oggi attraversano il mondo
dei rom in Italia.
In primo luogo le differenze tra
le generazioni sono ormai profon-
de. I ragazzini dei campi nomadi
sono figli della cultura del Me
Donald's né più né meno che
tanti loro coetanei nel pianeta,
probabilmente ancora più per-
meabili a stili di vita e modelli
che spesso assumono senza filtri
e con a disposizione pochissimi
mezzi economici per praticarli.
Non guardano la televisione, lo-
ro, guardano ItaliaUno.
Anche il posto in cui si abita è
fondamentale. Campi stanziali,
campi sosta, "campi irregolari",
vivere in un campo o in un altro se-
gna i destini. Alle Piagge, un quar-
tiere all'estrema periferia di Firen-
ze, sotto l'argine dell'Amo, vivono
un centinaio di rom. Non hanno
documenti, le loro case sono le
"draghe", i grossi cubi in mattoni
che rappresenta-
vano la base dei
bracci meccani-
ci che traevano la
ghiaia dal fon-
do del fiume. Le
condizioni igieni-
co sanitarie sono
disastrose: non ci
sono fognature,
ma non mancano
topi e umidità, mentre l'Amo in-
combe minaccioso. L'acqua è for-
nita da una fontanella poco distan-
te che tempo fa era stata sradicata
da un intervento dell'Amministra-
zione comunale. Per scoraggiare
nuovi arrivi, dicevano. Ed era an-
che stata emessa un'ordinanza per
l'abbattimento delle "draghe".
Certo poi si sarebbe dovuto af-
frontare il problema del "dove li
mettiamo? " E allora la fontanella è
stata ripristinata e i cubi da ar-
cheologia industriale sono ancora
lì con i loro abitanti. Alle Piagge
stanno i "sottoproletari" degli zin-
gari, talmente estranei a tutto ciò
che li circonda e impegnati nella
lotta per sopravvivere da non riu-
scire neppure ad andare in Que-
stura per provare a ottenere un
qualche documento. Esausti, ma
incapaci di reagire, molti si lascia-
no andare, alcuni si ubriacano,
molte donne soffrono di sindromi
depressive. E non è una rarità che
giovani zingari usino eroina.
Anche le guerre nella ex Jugo-
slavia hanno contribuito non po-
co a mescolare le carte. Ultima-
mente sono giunti in Italia profu-
ghi rom del Kosovo, ospitati nei
campi già esi-
stenti. Ora, ter-
minato il conflit-
to, non possono
rientrare perché
là, gli zingari, so-
no "serbi". Molti
vivevano in ap-
partamenti, a
Pristina, lavora-
vano, i loro figli
studiavano... Ma qui zingaro si-
gnifica campo, roulotte, baracca,
ed essi si ritrovano legati a una
realtà che non appartiene loro.
Non mancano però alcuni
esempi di come si possano coglie-
re differenze, sollecitare i bisogni,
proporre soluzioni innovative.
Ancora a Firenze: Coverciano,
sotto la bellissima collina di Fieso-
le accanto al centro in cui si allena
la nazionale di calcio, è uno dei
quartieri più ricchi della città.
Proprio lì, in una porzione di cam-
pagna, l'amministrazione comu-
nale ha1 costruito quattro case per
rom che avessero voluto abbando-
nare il campo. Una cinquantina di
loro, pari a quattro nuclei familiari
allargati, ha accettato. Molti ave-
vano un lavoro e potevano quindi
permettersi le spese di una casa a
edilizia popolare. Il quartiere di
Coverciano è naturalmente insor-
to, alla destra locale non sembrava
vero di potere cavalcare una situa-
zione così ghiotta, ma il Comune
ha tenuto duro. Oggi nessuno si
ricorda più quei giorni di battaglia
e Coverciano non ha perso il suo
prestigio né ha visto aumentare
furti, borseggi, accattonaggio.
Però questo che era un progetto
pilota tale è rimasto, e non se ne
sono avute repliche, anche se in al-
cune città i nomadi sono regolar-
mente inseriti nelle liste per le as-
segnazioni delle case popolari, che
spesso è come dire aver comprato
il biglietto della lotteria. Così per
molti la casa resta un sogno.
Il progetto di Firenze non può
rappresentare certo la soluzione ai
problemi di abitazione e di inte-
grazione degli zingari, ha però sta-
bilito un principio importante,
che ai rom sia permesso di espri-
lecite, ma questo non vale per tutte le famiglie e
soprattutto non per le seconde generazioni. Indi-
cativamente le attività praticate dagli "zingari"
sono la raccolta di materiale ferroso (venduto al-
le fonderie a un prezzo tra le sessanta e le cento
lire al chilo), l'accattonaggio e la produzione di
oggetti in rame - talvolta sostituita dalla costru-
zione di altri oggetti (soprattutto stufe a legna ri-
cavate da grossi bidoni di ferro) da vendere nei
campi. Vi sono inoltre all'interno dei campi alcu-
ne occasioni di mercato: molti sono i rom, prove-
nienti da città lontane ma anche da altri Stati, che
si spostano nei diversi campi commerciando
prodotti alimentari, stoffe, vestiti o cassette mu-
sicali slave. Sono invece per la maggior parte gio-
strai i sinti piemontesi, che praticano anche la
vendita dei tappeti in case o nei mercati, e attività
illecite anche di grave entità.
Dopo la fine della guerra nella ex Jugoslavia ci
sono stati diversi tentativi di allontanare i profu-
ghi dai campi, ma sono anche state prese alcune
iniziative a loro favore.
Nel 1998 l'assessore ai servizi sociali del Co-
mune di Torino prende in considerazione l'even-
tualità di un loro rimpatrio. Ad essi viene propo-
sto di lasciare volontariamente il campo in cam-
bio di una sistemazione in nuove case in Bosnia. I
profughi, rifiutata la proposta, essendo per loro
irrealistico in quel momento tornare a vivere nel
proprio paese, diventano oggetto di un progetto
di rimpatrio forzato al quale enti, associazioni,
volontari e l'Ufficio stranieri stesso si oppongo-
no con esito positivo.
Successivamente si apre per i profughi la possi-
bilità di usufruire di cosiddetti "strumenti di inte-
grazione", quali case popolari e borse lavoro.
L'Ufficio stranieri - come racconta uno degli ope-
ratori, Giulio Taurisano - dà inizio a un "percorso
di integrazione" dall'autunno del 1998. Sono una
cinquantina i nuclei familiari ai quali dovrebbe in
breve tempo venire assegnata un'abitazione. Tra
questi rientra anche un gruppo di famiglie di non-
profughi, cosa che pone le basi di un possibile ri-
petersi dell'esperienza anche da parte di altri. Il
trasferimento in casa è però un fenomeno com-
plesso, significa allontanarsi dal denso tessuto so-
ciale di cui si era parte nella situazione di forzata
convivenza determinata dall'istituzione del cam-
po nomadi, con la paura di ritrovarsi "soli", senza
i propri familiari accanto, lontani da una situazio-
ne in cui la vita quotidiana era punteggiata da con-
tinui momenti in cui "ci si andava a sedere" nella
baracca dell'uno o dell'altro.
Parallelamente, rispondendo a un elevato nu-
mero di richieste, viene offerta dall'Ufficio Stra-
nieri la possibilità di usufruire di borse lavoro. Nel
1996 viene sperimentato l'inserimento di una ven-
tina di minori, ripetuto nel 1999, e dall'autunno
del '98 a oggi sono una settantina gli awii in borsa
lavoro per adulti. Di queste molte non sono anda-
te a buon fine. Dopo una forte richiesta iniziale, è
venuto spesso a mancare l'impegno. La borsa la-
voro, nella quale si ripongono le speranze di una
possibile assunzione, impedisce però di guada-
gnare a sufficienza. Non c'è più il tempo di andare
"nei bidoni" a raccogliere la roba, quindi diventa
impossibile fare il mercato, e ci si ritrova a dover
mantenere l'intera famiglia con le ottocento o
quattrocento mila lire della borsa lavoro. In alcuni
casi poi sono fattori culturali a determinare l'inter-
ruzione del percorso iniziato ("Per non vedere più
piangere mia figlia tutte le mattine quando esco
per andare al lavoro ho deciso di non presentarmi
più..."). E spesso, per un motivo o per l'altro, si è
finito per deresponsabilizzarsi accusando gli ope-
ratori dell'Ufficio stranieri del fallimento dell'in-
serimento lavorativo.
Anche a Torino alcuni importanti nodi paiono
irrisolti. Come scrive Leonardo Piasere, gli zingari
vengono visti "tutti in via di deculturazione", "la
famiglia in via di destrutturazione, l'adolescente
in via di schizofrenia, il bambino con blocchi nel-
lo sviluppo evolutivo", per questo l'intervento so-
cio-educativo è oggi volto alla "salvaguardia della
'cultura zingara'". Ma solo sapendo apprezzare
"la loro forza, la loro capacità di consolidare la lo-
ro identità", è possibile "intraprendere eventuali
progetti di sviluppo delle relazioni zingari / non
zingari", e forse, aggiungo, anche entrare in rela-
zione con loro in quanto persone.
mere i propri bisogni. Detto così
sembra facile, ma non lo è per nul-
la. Come fare a riconoscere, prima
di tutto, e poi esprimere in un lin-
guaggio riconoscibile, da cittadini
come gli altri, i propri diritti e i
propri desideri? À molti rom man-
cano queste parole, ma non ad
Adem, che viene dal Kosovo, ed è
in Italia con la sua famiglia. Le pa-
role gli sono servite a scrivere lette-
re anche al Presidente della Re-
pubblica, anche al Papa. Raccon-
tava la sua situazione, il suo stipen-
dio che non gli bastava per pagarsi
un affitto, la sua voglia di una casa
vera, per sé e per i suoi figli. Non
ha ottenuto molto né dall'uno né
dall'altro... Con le parole ha pro-
vato, nel suo campo, a coinvolgere
gli altri, a promuovere autorganiz-
zazione. Ma anche in questo caso
le logiche delle famiglie e della di-
stribuzione del potere nel campo
hanno fatto fallire i suoi tentativi.
Sono molte le realtà, spesso pic-
cole associazioni di volontariato,
che stanno seguendo strade di
questo tipo, a Napoli, come a To-
rino, a Firenze a Brescia. Ma non è
per nulla facile. In questi casi
un'altra parola è in perenne ag-
guato: "assistenzialismo". In una
vignetta francese ripresa nel libro
di Leonardo Piasere si vedono
due zingari seduti a un tavolino in
mezzo al campo. Uno dice: "Brut-
ti tempi, il nostro campo è invaso
dai topi", l'altro risponde: "Alme-
no voi avete qualche possibilità, il
nostro è invaso dagli assistenti so-
ciali!". Alcune amministrazioni
locali più "progressiste" infatti si
sono prese a cuore la questione
nomadi. Mandano infermiere per
le vaccinazioni, assistenti sociali
con il sussidio di disoccupazione,
animatori per i bambini. Assisten-
za, appunto .. .meglio che niente.
Ma di fondo tutto rimane così
com'è. Dare cose, fornire servizi,
funziona benissimo: sono contenti
i rom, sono in pace le coscienze
degli amministratori, e l'animo dei
vicini di casa italiani non è troppo
turbato, ma si rischia anche di in-
chiodare gli zingari, alla loro im-
mutabilità, a una separatezza che
impedisce loro di esprimere biso-
gni e aspettative, di bloccare sul
nascere la costruzione di convi-
venze meno conflittuali.
In questi ultimi mesi a Torino e
a Napoli la questione rom è stata
centrale nel dibattito politico cit-
tadino. In entrambe le città si de-
vono localizzare due nuovi campi
e, sia detto per inciso, ipotesi simi-
li a quella di Coverciano non sono
nemmeno state enunciate. Torino
offre ampio spiazzo con vista su
discarica municipale e canile, Na-
poli un bilocale in zona carcere,
due vani perché la genialità parte-
nopea, per sfuggire alla logica in-
sostenibile dei "megacampi", ne
ha progettati due più piccoli, ma
attigui, separati da una strada. "È
una vergogna! " hanno tuonato le
bocche della sinistra sensibile al
"sociale": la discarica, il canile, il
carcere: "ospitiamo i rom nei non-
luoghi della nostra civiltà, come
bestie, rifiuti, reclusi". Le voci che
provano a ragionare in termini più
ampi, che provano a vedere la
questione rom non come un pro-
blema di urbanistica, che si inge-
gnano di costruire progetti più a
lungo termine, non trovano gran-
de spazio. Ancora una volta i sim-
boli e le strumentalizzazioni han
no avuto la meglio.	■