MAGGIO ì 997 N. 5, PAG. 4 Nella notte tra l'undici e il dodici aprile, con l'incendio della Cappella della Sindone abbiamo perso un'opera d'arte eccezionale, una geniale invenzione ancora in parte non conosciuta (malgrado la cappella fosse stata quasi interamente rilevata con cura) e mai più conoscibile. E bruciata una creazione alla quale la committenza ducale aveva assegnato il più alto valore simbolico e in cui era stata impegnata la competenza di più generazioni di architetti, è bruciata la cultura di mestiere che l'aveva messa in opera e della quale non sappiamo ancora abbastanza. Giustamente emozione e indignazione si sono manifestate con veemenza, ma anche con la consueta tendenza nostrana all'autoflagellazione. Si possono proteggere i monumenti storici dagli incendi? Certamente sì, ma fino a un certo punto: il rogo del Palais de Justice di Rennes, capolavoro del Seicento francese, quelli del celebre ponte di legno di Lucerna o del castello di Windsor non sono avvenuti in Italia. Insieme alla Cappella è bruciata una parte contigua del secondo piano di Palazzo Reale dove si trovavano molti quadri, molte cornici, alcune boiseries, apparati decorativi, sedimenti nel tempo e nel tempo dismessi dalle sedi di aulica rappresentanza del palazzo che di epoca in epoca, di generazione in generazione veniva allestito per apparire confacente alle Un capolavoro barocco di Giuseppe Dardanello Un guscio, una conchiglia svuotata, privata della vita, così appare in questi giorni la Cappella della Sindone, dopo il drammatico rogo della notte di venerdì 11 aprile. E ancora là, cupola-guglia-pagoda trapassata di luce come mai prima, scheletro strutturale, allucinato e stravolto tripudio luminoso prodotto dalla mutazione del colore della pietra, cotta, calcificata, quasi polverizzata, ora bianca, rosata. "Oro et negro", così la voleva Carlo Emanuele I, così la vedeva descrivendo i lavori in corso per i capitelli di bronzo dorato e per le colonne di quel marmo nero di Frabosa venuto in luce all'apertura del cantiere di Vicoforte (1595), e subito magnificato nella Relazione di Piamonte, Giovanni Botero: "Mentre si cava di qua, e di là il terreno, si son scoperte miniere di marmi bellissimi, e massime una di marmi negri, con certe venette che paiono di metallo". Di quella pietra Guarini aveva fatto un uso magistrale portandola a trascolorare dalla malinconia funebre del nero lucido della zona inferiore - gravoso legame alla condizione terrena - al grigio opaco della radiosa cupola diafana filtrata di interposta atmosfera - fuga smisurata verso la condizione di salvezza. Quei passaggi di tono sui quali si era sedimentata la storia della cappella, dal primo progetto a pianta ovale di Ascanio Vitozzi e Carlo di Castellamonte, all'impianto circolare impostato da Bernardino Quadri, fino alla sequenza a torre innalzata dall'architetto teatino, sono irrimediabilmente perduti. Per unanime consenso la cappella del Guarini è considerata un capolavoro barocco, come se il solo titolo bastasse a liberarci dal bisogno di capirne il significato, conoscerne la T^/ ctùtcr'vLcksLc' Il rogo e la tutela trasformazioni del gusto, per rispondere a esigenze cerimoniali, di strategia politica, di celebrazione dinastica con il soccorso di artisti e di maestranze. Di recente, in occasione di una visita a Palazzo Reale avvenuta poco prima della sciagura Pierre Rosenberg chiedeva quanti fossero i funzionari addetti al Palazzo e al Museo. La risposta alla domanda del presidente-direttore del Louvre è stata (ed è) desolante: non esiste un direttore storico dell'arte che possa disporre di un organico nucleo di conservatori, di addetti alla documentazione e ai servizi tecnici, di restauratori per tutelare e valorizzare con il palazzo le opere d'arte che vi sono inserite e quelle che vi sono immagazzinate: insomma, il Palazzo Reale di Torino non è considerato un istituto museale, visto che non ha la necessaria autonomia scientifico-tecnica. All'importanza della sede non corrisponde una adeguata struttura di supporto. Tutto questo ha un'origine storica. Infatti al Palazzo non ha giovato lo storia, l'intelligenza costruttiva, la straordinaria virtù di immaginazione che l'ha creata. Mai come in questo caso l'attributo di "capolavoro" è servito a esorcizzare l'inquietante presenza di un'architettura che continua a sfuggire alle nostre attitudini a incasellare, comprendere, descrivere e raccontare. Con analoga elusiva disinvoltura i contemporanei e i viaggiatori del Settecento reagivano alla sorpresa collocandola nel novero del "bizzarro". Cambiano i termini, ma lo smarrimento di fronte a un'opera che ancora conosciamo troppo poco rimane immutato. Dove finisce la pietra e dove incomincia la muratura in mattoni? Come funziona il celato inviluppo di archi che dal cilindro di pianta porta all'anello del bacino tronco e consente alla cupola di innalzarsi in leggerezza? Come collabora con il manto di pietra e i costoloni in muratura quel doppio anello di catene metalliche che cinge ognuno dei sei esagoni sovrapposti della volta conica? Sgomenta il pressapochismo con cui in questi giorni si dà per scontata una ricostruzione da misurare soltanto sul numero dei miliardi. Guarini non ebbe un maestro significativo e non seguì il percorso educativo tradizionale per un architetto. Fu prima di tutto un intellettuale, un matematico e filosofo, e un religioso. I suoi veri maestri furono i libri e ciò che egli vide attraverso l'Europa. Dei quattro grandi architetti del Seicento in Italia-Bernini, Borromini, Cortona, Guarini -resta il più difficile e insondabile, il meno studiato e capito. Quel poco che sappiamo della Cappella della Sindone lo dobbiamo a coloro che non hanno preteso di spiegarne l'essenza, ma si sono dedicati prima di tutto a osservare questo mirabolante reliquiario, a misurarlo palmo a palmo, a tentare di trovarne i nessi con le letture e le immagini frequentate in vita dal suo architetto creatore. Tra i primi a svelare alcuni segreti della cappella, quando ancora l'opera di Guarini stentava ad affrancarsi dai pregiudizi negativi sul barocco, e scorporo delle collezioni dinastiche e l'istituzione della Galleria Sabauda, fatto che dal 1832 ha portato in al- tra sede il di- battito e la cultura mudi allora alla reale è stato ruolo emi-presentanza del gusto di sempre più proposti crescita della seale. Dopo residenza riservato un nente di rap-dell'arte e corte, resi fastosi, ristile nel gusto eclettico fin de siècle con tale forza da rendere il Palazzo quasi immune dai rischi di degrado per abbandono, che la perdita di ruolo avrebbe potuto comportare e di fatto comportò per altre regge. Se ne trova eloquente testimonianza in un libro, significativo perché scritto per illustrare la dinastia attraverso la magnificenza delle sue residenze, quelle sabaude e quelle di acquisizione postunitaria. Si tratta del volumetto di Michele de Benedetti, edito a Firenze nel 1913 (Palazzi e Ville Reali d'Italia) dove tra l'altro si trova elogiato ancora in splendido decoro il Palazzo Reale di Milano (che ora versa, come è noto, in pessime condizioni) e dove di quello torinese si dice in incipit'. "La storia del Palazzo Reale di Torino, nei rispetti dell'arte, è strettamente legata a tutta la storia artistica della città: si potrebbe dire che ne è stata l'indice, la guida e la più alta espressione". Oggi, dopo l'incendio, 84 quadri (una Pinacoteca!) mancano all'appello (alcuni documentati nelle collezioni dinasti- che 'fin dall'inventario del 1635, altri della "quadreria moderna" allestita da Carlo Alberto e da Vittorio Emanuele II a surrogare l'assenza delle opere cedute al pubblico godimento con l'istituzione, nel 1832, della Regia Pinacoteca). Almeno, di questi quadri si conservano fotografie e dati anagrafici perché si tratta di opere schedate, anche in questo caso grazie al lavoro di un gruppo ristretto di storici e di addetti alla tutela. Un gruppo sempre più ristretto, perché il problema non è mai stato e non viene ancora seriamente affrontato su tutto il territorio nazionale né dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, né dall'Università e si aspetta ancora una buona programmazione di organico con personale qualificato. Ora è arrivatoli tempo di occuparsi del Palazzo come edificio storico e come museo; trattato, studiato, esaminato e restituito in tutti i suoi aspetti e messo in condizione di funzionare. Non bastano le visite guidate e le mostre. Vale la pena di citare, fuori contesto, quando scriveva Diderot a proposito del rapporto gerarchico (e non funzionale) tra "arti belle" e "arti meccaniche": "gli uomini intenti a farci credere che siamo felici hanno sempre ottenuto molte più lodi di quelli intenti a far sì che lo fossimo davvero". Michela di Macco Enrico Castelnuovo a misurarla con un rilievo che oggi più che mai resta uno strumento essenziale per lo studio del restauro, è stato Mario Passanti con La Real Cappella della Santa Sindone in Torino, in "Torino", 1941, n. 10-12, pp. 3-17 (ripubblicato a più riprese e con aggiunte ancora in Nel mondo magico di Guarino Guarini, Toso editore, Torino 1963, pp. 163-194, libro dal quale è tratta l'immagine riprodotta in questa pagina). Maestro nel sentire l'architettura come un organismo animato, dotato di una sottile sensibilità per i meccanismi della percezione, ha intuito il lavoro consapevole sulle combinazioni geometriche messo in opera da Guarini nello sviluppo in verticale della Cappella per ottenere effetti di instabilità, discordanza e irrequietezza. Ha dimostrato come l'impressione di smi- • surata fuga in altezza della cupola sia1 il risultato della collaborazione tra la luce filtrante e la progressiva riduzione nelle dimensioni degli elementi architettonici, secondo le indicazioni di un brano dell' Architettura civile del Padre D. Guarino Guarini Cherico regolare Opera postuma dedicata a Sua Sacra Reale Maestà, Torino 1737 (edizione a cura di Bianca Tavassi La Greca e Nino Carboneri, Il Politilo, Milano 1968): "Il luogo, ovvero oggetto più illuminato - scrive Guarini - sembra maggiore di quello che sia lo scuro. Perché l'ombra degli oggetti maggiormente fa distinguere le prominenze, e tutti i loro risalti, perciò la vista maggiormente si stende. Così le parti minute maggiormente si veggono, onde l'immaginazione nel veder molte cose si persuade, che il luogo sia molto capace". Su questi presupposti Rudolf Wittkower, Arte e architettura in Italia, 1600-1750 (Einaudi, Torino 1972), ha allargato gli orizzonti per la comprensione "della figura di Guarini e ha potuto fissare alcuni principi fondamentali del metodo progettuale seguito per la Cappella della.Sindone. Ognuno dei quattro livelli in alzato della cappella forma entità separate con caratteristiche geometriche ed architettoniche proprie; ogni ordine dell'edificio differisce bruscamente dal successivo e dal precedente nella struttura e nella forma tridimensionale. La proiezione telescopica delle geometrie di pianta porta a sviluppi in alzato talmente imprevedibili da trovare difficilmente confronti con le forme prodotte in epoca barocca.. Al contrario degli esercizi di "legamento" e di armonizzazione condotti da Bernini, e più tardi Juvarra, Guarini afferma come deliberato principio artistico l'operare per via di incongruenze cercate e sorprendenti dissonanze. "L'elemento sorpresa, l'interamente inaspettato, l'apparentemente illogico, l'inversione dei valori consueti, le contraddizioni volute nello spaccato, l'interpenetrazione di differenti unità spaziali, la rottura di un- muro di confine coerente con la conseguente difficoltà di orientamento", sono tuttLrtie^zi impiegati all'unico fine "di sostituire la sfera compatta dell'antica cupola, simbolo di una cupola celeste definita, con la cupola diafana, ricca di misteriose suggestioni dell'infinito". Non era un obiettivo limitato, ma una rivoluzione in atto che andava a scardinare i principi dell'architettura rinascimentale. Il capitolo introduttivo del libro di Richard Pommer, Eighteenth-Cen-tury Architecture in Piedmont. The Open Structure of Juvarra, Alfieri, & Vittone (New York University Press -University of London Press. 1967, pp. 4-22), contiene le pagine più profonde che siano mai state scritte sull'opera di Guarini, considerata la radice dell'affascinante storia di invenzioni strutturali nell'architettura del Piemonte del Settecento. Nel periodo del soggiorno parigino di Guarini (1662-66) si vennero a creare le condizioni per nuove elaborazioni della tecnologia costruttiva delle volte. Non a Roma, ma a Parigi,dove più avanzate erano le ricerche sulla geometria e la stereotomia, per una fortunata congiuntura, è in quegli anni che Louis Le Vau, Frangois Mansart, Claude Perrault, Gian Lorenzo Bernini, Christopher Wren e Guarino Guarini, ebbero modo di osservarsi e studiarsi a vicenda, sviluppando i temi della volta aperta e dell'architettura di colonne. Con Guarino Guarini e l'internazionalità del Barocco. Atti del convegno internazionale promosso dall'Accademia delle Scienze di Torino (1968) (a cura di Vittorio Viale, Torino 1970), si chiude la stagione più fortunata per gli studi sull'architetto modenese. L'occasione del convegno diede sfogo a una ricca gamma di interessi e di interpretazioni sull'opera di Guarini, tra i quali gli approfondimenti più utili per la comprensione della Cappella e i temi critici a essa collegati sono quelli di Henry A. Milton, Werner Oechslin, Werner Muller e Manfredo Tafuri. Non è la diligente ma modesta monografia di Harold A. Meek, Guarino Guarini (Electa, Milano 1991, ed. orig. 1988), il cui maggior pregio sta nell'aver raccolto in un unico volume le informazioni disponibili sull'architetto, quanto la voce dedicata a Guarini da Henry Milton per la Macmillan Encyclopedia of Architects (Macmillan, New York 1982, voi. Il, pp. 265-279), dove è raccolta la bibliografia sull'architetto fino ai 1981, a rilanciare i quesiti strutturali sollevati da Wittkower e Pommer, e aggiungere nuovi importanti tasselli per la comprensione della Cappella. l'inconsueto impianto ereditato dal Quadri lasciava irrisolto il problema del grande varco aperto verso il coro del Duomo, mentre urgeva innalzare una cupola altissima sopra un cilindro di limitato spessore. Non soltanto queste condizioni di vincolo furono brillantemente superate, ma nella sequenza a torre costruita la struttura che appare portante è in realtà soltanto apparente. Così Guarini apriva la crisi sull'identità del rapporto forma-struttura.