Di o^viir'^cr cie,L Donne del Sudafrica di Carmen Concilio MAGGIO 1997 André Brink, La polvere dei sogni, Feltrinelli, Milano 1997, ed. orig. 1997, trad. dall'inglese di Raul Montanari, pp. 411, hit 33.000. Nel numero del giugno '95 delT'Tndice" lasciavamo il romanzo del sudafricano John M. Coet-zee, Età di ferro (Donzelli, 1995) in cui una vecchia madre malata di cancro scriveva una lunga lettera sulla recrudescenza del regime poliziesco boero, dieci anni prima del crollo dell'apartheid, alla figlia in esilio volontario negli Stati Uniti, che aveva promesso di non fare più ritorno se non in un Sudafrica democratico. Nel Sudafrica della svolta fa ritorno dall'Inghilterra la giovane protagonista del romanzo di Brink, richiamata dalla nonna a cui resta ormai poco da vivere ma molto da raccontare. In Africa è diffuso il detto secondo cui "la morte di un vecchio è paragonabile all'incendio della biblioteca di Alessandria" e se questo è indubitabilmente vero per il patrimonio di tradizione orale di molte culture africane in cui la memoria individuale è parte integrante della memoria collettiva del clan, della tribù o della "nazione" di appartenenza, non è meno vero per Ouma (nonna in boero) Kristina, i cui racconti sono però "castelli di sabbia", costruzioni fragili, vividissimi ricordi precari, favole vere o false. Un po' come accade nel romanzo-film Il paziente inglese, in cui un uomo ustionato racconta la propria storia ai vari personaggi che si alternano al suo capezzale, qui la nonna ultracentenaria ha subito ustioni gravi durante l'attentato incendiario in cui la sua casa è andata semidistrutta ma tiene legata la nipote con l'autorità di quel filo di voce che le rimane e la bellezza delle sue molte storie. Sono le storie del Sudafrica, anzi la Storia della colonizzazione boera del Sudafrica; sono le storie di varie etnie ma è anche la storia di un'epopea nazionale, quella boera, dietro la quale si nascondono citazioni bibliche, l'arca di Noè, l'attraversamento del Mar Rosso, l'agognata Terra Promessa; sono le storie di una lunga saga familiare, che ai recensori ha ricordato Cent'anni di solitudine. Come vuole la migliore tradizione postmoderna, il romanzo di Brink sfugge a ogni definizione; è plurale, corale, giornalistico e favolistico, micro- e macro-storico. Dalle prime carovane che s'inoltravano nell'interno, sempre più lontano dal mare, perché i calvinisti coloni olandesi erano fattori, al- levatori, contadini, la cui cultura stanziale era effetto di una storia nomadica - i Boeri si legge nel romanzo sono eredi del popolo d'Israele: la Grande Marcia verso l'interno, nel 1836-38, era servita a postporre l'inevitabile scontro con i nuovi colonizzatori inglesi e aveva significato però l'incontro con popolazioni pacifiche, gli Xhosa e gli Ndebele, e lo scontro con i san- guinari guerrieri Zulu, gli impi guidati dal loro feroce re Dingane. Le tappe di questi spostamenti coincidono con salti generazionali e con storie di donne di volta in volta ribelli, fantastiche, forti, astute; perché quella ricostruita da Ouma Kristina è una genealogia matrilineare. La rincorsa delle memorie del passato, la corsa a ritroso contro il tempo della morte imminente finisce per formare un cumulo di macerie, polvere di sogni, con cui costruire il futuro. Nella settimana delle libere elezioni in Sudafrica, quando tutti temevano l'apocalisse; a morire è stato solo il vecchio Sudafrica: Ouma Kristina con le sue storie dell'epopea coloniale, e un'intera famiglia, quella di Ca-sper, stereotipo del boero gretto e arrogante, misogino e razzista. E c-eóùi N. 5, PAG. 6 così mentre il mondo intero saluta le pacifiche elezioni di Nelson Mandela, Kriestien tornata dall'esilio si era trovata ad affrontare otto morti in famiglia e a considerare anche questo lutto personale parte della grande Storia. Costruire il nuovo Sudafrica non vuol dire dimenticare il passato e Kri-stien ora sa che in lei vivono molte donne, almeno tutte quelle di cui parlava Ouma Kristina. La prima donna uscita dal fiume guidando una mucca e con un bambino in spalla era una donna Khoikhoi (il popolo dei popoli); la bellissima e esile ragazza Xhosa donata in segno di pace al gigantesco colono boero, del cui sacrificio d'amore si ha solo un ricordo di lucciole, scintille nella notte, e che scomparve trasformandosi in cespuglio, portata via dagli uccelli; la donna dai lunghissimi capelli biondi che si portava appresso come un fiume di luce, ma il cui nome era Samuel; e Wilhelmina, l'indomita guaritrice delle carovane che non voleva arrendersi agli inglesi; Rachele, la donna che dipinse in cantina disegni arditi, che si ostinavano a riaffiorare dall'intonaco che era destinato a ricoprirli; la nonna e il suo primo amore, con cui fuggì a Baghdad, o a Parigi, o era Città del Capo? Poco importa la verità storica dei fatti, ciò che conta è la verità della memoria. La memoria del futuro, perché il passato può correre talmente forte da raggiungere il futuro, perché "nulla è soltanto una storia". Erano in molti a chiedersi quale letteratura sarebbe stata prodotta nel Sudafrica pacificato, democratico, post-apartheid. Quando a Nadine Gordimer era stata posta questa domanda, la scrittrice aveva risposto: torneranno gli esuli, ma ci vorrà del tempo prima che elaborino una nuova letteratura. André Brink, già con il suo penultimo romanzo La prima vita di Adamastor (Instar, 1994) si era allontanato dagli stilemi del realismo sociale ancora imperante in Sudafrica, scrivendo una bella favola sulle origini della colonizzazione; in quest'occasione Brink è andato oltre. L'ingresso del meraviglioso - uccelli che precedono l'arrivo di donne straordinarie, tappeti volanti, metamorfosi, sogni premonitori - più di ogni altra cosa segna la svolta nella letteratura sudafricana. Il libro è dedicato a Kunene Mazisi, poeta Zulu, ritornato in Sudafrica dall'esilio nel 1993, che ha contribuito alla riscoperta della tradizione fiabesca e magica del folklore sudafricano. Quello di Brink è un omaggio all'immaginazione. Scrivere dopo l'apartheid Signor Brink, quale situazione vivono gli scrittori in Sudafrica dopo la fine dell'apartheid? "Noi scrittori sudafricani ci troviamo oggi in un mondo totalmente diverso da quello che conoscevamo. Alcuni scrittori dell'Europa dell'Est e del Sud America sostengono che ormai non c'è più nulla di cui valga la pena scrivere; tutto ciò è comprensibile, ma è una confessione molto triste. Come se si dovesse scrivere solo 'contro' qualcosa. In Sudafrica tutti gli scrittori, di ogni espressione linguistica, erano contro l'apartheid, per cui si era creata una grande solidarietà contro un regime che rappresentava 'il male'Ao non credo che gli scrittori che scrivevano contro /'apartheid lo facessero per un senso di dovere; noi semplicemente non avevamo scelta. Oggi non abbiamo più l'apartheid, ma altre forme di oppressione sopravvivono come quella conosciuta dalle donne e il punto di partenza di questo romanzo è proprio quello di raccontare storie prima taciute. Oggi finalmente è possibile scrivere per il solo fatto che si ha una storia accattivante da raccontare. ' L'immaginazione e il comico hanno ora una maggiore pregnanza; era impossibile scrivere qualcosa di divertente sull'apartheid. Oggi l'immaginazione è libera, si può tornare a ridere anche delle cose serie". È per questa ragione che accanto a elementi realistici si trovano in questo romanzo elementi assimilabili al meraviglioso? "Io sono pienamente consapevole di aver attinto da due diverse fonti della tradizione sudafricana: la prima è l'antica tradizione orale delle comunità indigene in cui si tramandano storie sugli spiriti dei defunti; la seconda è quella dei miei antenati Afrikaner, che per secoli hanno vissuto nel cuore del paese, isolati dal mondo esterno, e l'unico intrattenimento che conoscevano era il raccontare storie, storie di fantasmi, di eventi inspiegabili e soprannaturali. Queste due anti- che tradizioni confluiscono nel romanzo e nutrono un discorso che io intendo perseguire anche nei miei prossimi lavori. Per coniare una nuova definizione si potrebbe parlare di 'realismo fantastico', forse. Ciò che è importante è il ruolo dell'immaginazione, comprendere che il mondo è qualcosa di più di ciò che si può normalmente esperire con i sensi". Secondo lei si può parlare di "realismo magico" come di una corrente letteraria emergente in Sudafrica? "Si tratta di un fenomeno nuovo, perché, come dicevo, molti di noi erano condizionati dall'apartheid. Ora vi è una nuova tendenza, almeno tra gli scrittori di lingua afrikaans, a scrivere soprattutto racconti fantastici. Fra gli scrittori bianchi di lingua inglese penso a Mike Nicol (Per ordini superiori, Leonardo, 1989), e tra i più giovani a Ivan Vladilsavic con The Folly, mentre tra gli scrittori neri penso a Joel Matlou con Life at Home and other Stories e a Zakes Mda con She Plays with the Darkness. Sono opere in cui l'immaginazione compie balzi inaspettati ma che attingono alla cultura orale africana e sovvertono le versioni ufficiali della Storia". Perché nei suoi romanzi la dimensione storica è così importante? "Sono sempre stato affascinato dalla Storia, forse perché appartengo a una cultura coloniale la cui Storia non era scritta. La mia attenzione per la Storia è un tentativo di dimostrare che esiste una tradizione anche se non esistono documenti scritti, è un tentativo di forgiare, attraverso la scrittura, una coscienza storica delle proprie tradizioni, un senso di continuità con il passato, un senso di radicamento anche in una realtà coloniale. La nostra versione del realismo magico consiste nell'esplorare la Storia come una delle storie possibili". Carmen Concilio e Valeria Guidotti Intanto nel Nordafrica di Antonella Emina La letteratura tunisina è, per ragioni storiche, prima di tutto letteratura di espressione araba. Nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale la Tunisia contava un unico scrittore di espressione francese di fama internazionale, Albert Memmi (1920), quando il Marocco e l'Algeria vantavano un'eclatante letteratura in francese, in virtù, almeno per l'Algeria, di un sistema coloniale e quindi anche scolastico che aveva praticamente espulso l'arabo classico a favore del francese. In Tunisia la forma coloniale del protettorato aveva consentito di salvaguardare l'insegnamento dell'arabo parallelamente a quello del francese. Dopo gli anni sessanta, il ricorso alla lingua francese si fa più evidente in letteratura, grazie a una politica culturale che ha visto la costituzione di circoli sparsi in tutto il paese, abbondanti nella capitale e nella sua periferia, e la creazione di nuove case di edizione private e nazionali aperte a cooperazioni con quelle francesi. Il ricorso al francese in Tunisia non è sentito, come in Algeria, come forma di acculturazione e d'esilio, ma si crea un'osmosi tra le culture orientale e occidentale che non ha mancato di dare frutti originali, per pluralità tematica e culturale, con una tensione verso la distanza. Gli scrittori, liberandosi dai retaggi della colonizzazione, assumono la lingua straniera come parte integrante della cultura tunisina (Hédi Bouraoui, 1932; Salah Garmadi, 1933-82; Mansour M'Henni, 1951), secondo un processo già manifestatosi alla fine degli anni cinquanta, che comprendeva anche attenzione per la pluralità culturale dell'universo tunisino (Claude Benady, 1992). II cambiamento e l'effervescenza sono comunque visibili in libreria soprattutto dal 1972. Numerosi sono gli esempi di scrittori perfettamente bilingui o plurilingui. Caratteristica abbastanza ricorrente, nella produzione degli anni settanta-ottanta, è l'attenzione alla modernità di cui sfruttano le strutture verbali, ricorrendo alla percezione o al sogno nell'ordine della verticalità metaforica. Moncef Ghachem (1947) ha raccontato la rivolta contro le ingiustizie con grande tenerezza per gli oppressi; Sophie E1 Goulli (1932) si è impegnata in una ricerca esistenziale in cui dominano l'angoscia e la vertigine, l'antinomia del sogno e del reale. Esasperando talvolta la ricerca linguistica e formale, nel tentativo di tradurre il presente e il futuro, gli scrittori tunisini all'estero (Tahar Bekri, 1951; Majid E1 Houssi, 1947; Chems Nadir, 1940; Abdelwahab Meddeb, 1946) sono per la maggior parte alla ricerca di una sorta di rinascita in un'immaginazione, una sensibilità, un'intelligenza, un linguaggio che consentano loro di far convergere l'incontro di due orizzonti del senso, per rilevare le omologie che legano le forme (interiori) della continuità alle forme (esteriori) della rottura. La distanza geografica provoca spesso un ritorno alle loro diverse tradizioni orali e scritte, al loro sapere concreto e positivo, per situarsi più vicino a esseri e a una terra lontani.