m DEI LIBRI DELMESEl Occhi occidentali sulla Cina di Stefania Stafutti giugno 1997 Jonathan D. Spence, Girotondo cinese, a cura di Carlo Laurenti, Fazi, Roma 1997, ed. orig. 1992, trad. dall'inglese di Cristina Foldes, pp. 230, Lit 25.000. Con la traduzione di Chinese Roundabout, Fazi conferma la sua vocazione di piccolo editore raffinato, che gli consente di contare su un pubblico di attenti e affezionati lettori. La selezione di saggi dal volume di Spence basta a dare ragione della straordinaria capacità dell'autore di vestire i panni del divulgatore, accattivante per il lettore non specialista e stimolante per lo studioso. Spence ci conduce nelle contrade dell'Estremo Oriente quasi per gradi, mostrandoci dapprima les tribulations d'un chinois à Paris, e la parafrasi del titolo del curioso libro di Verne potrebbe estendersi ai contenuti, non appena ci si accinga a leggere il racconto della vita un po' mirabolante e un poco sgangherata di Arcadio Huang, giunto nella ville lumière dalla remota provincia del Fujian, nella Cina meridionale, al seguito di un missionario delle Missions Etrangères, per consumare in una veloce parabola - dal 1702 al 1716- una breve esistenza nella quale entrarono il matrimonio con una parigina, la nascita della piccola Marie-Claude, anch'essa destinata a morte prematura, un impiego presso la Biblioteca del Re, un'assidua collaborazione con Nicolas Frerét dalla quale nacque un dizionario ci-nese-francese, frequentazioni con Montesquieu ed Etienne Four-mont, queste ultime, con l'astro nascente dell'orientalismo, forse non troppo cordiali. Le avventure di "Son Altesse sérénissime Hoange", come il cinese ebbe ad appellare se stesso in un attacco di megalomania, sono seguite dall'analisi delle Peregrinalo in terre d'Oriente di Mendez Pinto, indagate assai più in chiave di "introspezione psicologica" piuttosto che con l'occhio del "cacciatore di mirabilia": Pinto nella seconda metà del XVI secolo ci offre un racconto parzialmente visionario, sospeso tra l'ingenua millanteria, l'inattesa capacità di disincantata rassegnazione per l'avidità ottusa che percorre l'epopea dei conquistatori portoghesi, l'amara ma lieve ironia per l'assenza delle "soddisfazioni che cercavo in cambio di così numerose tribolazioni...", attribuita peraltro alla volontà divina. Nei saggi su Matteo Ricci e Mal-raux, così come in quello intitolato Lungo sguardo verso Occidente, le riflessioni di Spence forniscono appigli per un gioco continuo di rimandi e di influenze tra la cultura cinese e quella occidentale. L'entusiasmo (eccessivo) con il quale Ricci saluta l'assenza di flessioni, di articoli, di "casi (...), numeri (...), generi (...), tempi" nella lingua cinese già prelude a quel drammatico malinteso che condusse alla chiusura del dialogo tra la Cina dei primi Qing e l'Occidente, radicato anche in cause di natura "linguistico-semantica", come bene spiega Jacques Gernet nel suo splendido testo Cina e cristianesimo (Marietti, 1984) e destinato a riaprirsi solo al rombo sinistro dei cannoni inglesi, in modo che la storia non potesse fare a meno di sottolineare come, in Cina, spetti forse ai soli gesuiti il merito di avere mostrato un reale interes- se per la cultura del Celeste impero. Beninteso, i pregiudizi non erano unilaterali se, ancora all'inizio del XX secolo, il testo di Gu Yanwu su I pregi e i difetti dei paesi del mondo ( Tianxia jungue libing shu), affermava che non solo portoghesi in Cina "acquistavano segretamente bambini che avessero più di dieci anni per mangiarseli", ma che addirittura "ne mangiaro- no un numero incalcolabile". In una sorta di gioco degli specchi, le critiche e le riserve nei confronti del mondo occidentale - e parliamo qui di quelle meno grandgui-gnolesche - vengono fatte proprie da Malraux, e Ling, il "funzionario cinese" protagonista de La tenta-tion de l'Occident ammonisce che, in Europa: "Avete dissolto tutti i legami umani, e cercate inutilmente di sostituirli con l'attività impersonale dello Stato". Negli anni settanta del secolo scorso, Liu Xihong, funzionario inviato "alla scoperta dell'Occidente", pur non potendo negare che l'Inghilterra era un paese meno "barbaro" di quanto lui avesse supposto, nelle note conclusive alla sua relazione osservava: "Se [l'Occidente] si concentra unicamente sulla costruzione di macchine artificiose (...) si può forse considerare questa una conoscenza vera e utile? (...) La profondità delle nostre discus- sioni filosofiche sorpassa di gran lunga quella dell'Occidente (...) Gli occidentali ritengono che la forza materiale sia la vera forza, mentre per i cinesi la vera forza è il rispetto" (in L'oceano in un guscio d'ostrica, 1989). Quando tesse la struttura quasi "narrativa" dei suoi saggi, Spence mostra un'attenzione vivissima e un'assoluta mancanza di pregiudizi accademici nell'accogliere qualunque materiale utile a rinforzare la sua variegata trama: così ci ricorderà il dibattito dei figuristi nel tentativo spasmodico di dimostrare la veridicità della cronologia biblica a fronte dell'imbarazzante vetustà delle fonti scritte cinesi. Ma, insieme ai figuristi, nel dare ragione degli elementi che hanno nutrito le conoscenze e l'immaginario occidentale sulla Cina, Spence ricorda anche Pearl Buck e La buona terra, la cui versione cinematografica (1937) commosse almeno una generazione di occidentali, facendo tra l'altro guadagnare a Luise Rai-ner un Oscar come migliore attrice. Peraltro, i problemi dell'integrazione culturale e razziale avevano già dato a Frank Capra materiale sufficiente per uno dei suoi melodrammi più riusciti, L'amaro tè del generale Yen (1933), mentre la penna di Sax Rohmer (alias Arthur Henry Sarsfield Ward) aveva dato i natali al dottor Fu Manchu. Passando attraverso il Dialogo della scienza cinese, dove la descrizione del contributo di Needham allo studio del pensiero scientifico cinese diventa spunto per un'esortazione a scrutare ancora tra i possibili e plausibili punti di contatto tra la tradizione del pensiero scientifico in Cina e in Occidente, Spence approda infine a un omaggio ai "Maestri" per citare testualmente il titolo dell'ultima sezione del volume. Le pagine dedicate a Arthur Wright, Arthur Waley, John Fair-bank e Fang Chao-ying, in bilico tra ricordo personale, affetto e gusto profondo per 1'" affinità elettiva". E torna ancora una volta il gioco dei rimandi: l'understate-ment quasi caustico con il quale talvolta Fairbank si riferisce a se stesso ricorda a Spence l'analogo atteggiamento di Sir Robert Hurt, ispettore generale delle dogane cinesi dal 1860 al 1900, circondato da una stima così unanime da essere da tutti ricordato come "il grande I.G.". "Nel nostro tempo non ci sarà un'[»?.'] altro LG. degli studi sulla Cina": questo l'omaggio -quasi commovente - che Spence tributa al grande storico americano. Forse un testo così vivace avrebbe meritato una più attenta cura. Nessuno ci dice che la traduzione n. 6, pag. 11 italiana comprende soltanto dodici dei venticinque saggi presenti nell'originale, né sappiamo, di conseguenza, quale criterio abbia presieduto alla scelta. Spiace anche che sia stato eliminato l'apparato delle note. Le trascrizioni dei nomi cinesi seguono i criteri dell'originale e, poiché si tratta di saggi scritti in momenti diversi e solo in seguito raccolti insieme, è comprensibile che la scelta della trascrizione da adottare abbia potuto essere - di volta in volta - differente; nell'edizione in inglese, però, i riferimenti bibliografici relativi alla prima pubblicazione di ciascuno dei saggi sono puntualmente forniti, mentre scompaiono nella traduzione italiana. Il lettore non specialista non capirà pertanto per quale ragione la dinastia dei Qing diventi a un tratto dinastia dei Ch'ing. Sarebbe altresì stato auspicabile che, laddove dei testi citati esista una traduzione italiana, poiché essi vengono indicati con il titolo in traduzione, esso corrispondesse effettivamente a quello con il quale sono noti al pubblico italiano; il lettore italiano non specialista avrebbe inoltre sicuramente apprezzato un'indicazione che lo informasse che il romanzo del XVII secolo il cui titolo suona, tradotto in italiano, Sul bordo dell'acqua non è completamente sconosciuto nel nostro paese, poiché una traduzione parziale è comparsa nel 1956 nella collana "I Millenni" di Einaudi, con il titolo - magari discutibile - de I briganti. Infine, sarebbe stato forse preferibile che la copertina proponesse un'immagine legata all'universo cinese, piuttosto che uno dei famosi dipinti di scuola Nanban che mostrano l'arrivo degli occidentali in Giappone: il pregiudizio secondo il quale "Cina o Giappone, è la stessa cosa! " non ha bisogno di essere alimentato. Purtroppo la traduttrice, che ci ha dato un testo di gradevole lettura, è rimasta in un caso vittima di uno di quegli insidiosi fenomeni di straniamento dal testo che ben conosce chiunque traduca; accade così che Arthur e Mary Wright, a Pechino dal giugno del 1941, sembrino essere d'improvviso ritornati a Kyoto per 10 spazio di un paragrafo. Sorprende che il curatore, nelle note al testo aggiunte all'edizione italiana, ci faccia credere che Matteo Ricci utilizzasse la forma yi-da-li per trascrivere con tre caratteri cinesi il toponimo che designa 11 nostro paese; in realtà la trascrizione per Italia compare effettivamente per la prima volta nel Mappamondo del Ricci (terza edizione del 1602) e nell'opera in cinese del religioso e geografo Giulio Aleni sulla Geografia dei paesi stranieri, ma nella forma yi-da-li-ya, e con quattro caratteri; la cosa è peraltro ovvia, dal momento che yi-da-li, che corrisponde al modo con il quale effettivamente si designa oggi il nostro paese presso i cinesi, è modellato sull'inglese, ma l'anglofilia non era ancora di moda tra i gesuiti del XVI secolo. Tuttavia, pur se dopo qualche eccessiva distrazione, Carlo Laurenti ci offre una postfazione vivace e accattivante, che si muove con gradevole disinvoltura tra suggerimenti disparati con il gusto di una "contaminazione" che ci porta ancora una volta al piacere del roundabout. Schiavi in cerca di oblio di Roberto Gritella fred D'Aguiar, La memoria più lunga, Einaudi, Torino 1997, ed. orig. 1994, trad. dall'inglese di Anna Nadotti, pp. 119, Lit 20.000. I ricordi fanno male, e bisogna guardarsi bene dal considerare la memoria un contenitore di piacevoli avvenimenti del passato: spesso può capitare di voler dimenticare, di fare ogni sforzo perché tutto cada nell'oblio. E quello che succede nel 1810 in una piantagione della Virginia allo schiavo nero Whitechapel di fronte all'immagine del figlio massacrato a frustate dai sorveglianti. Così, con un vecchio che piange la morte del figlio, incomincia La memoria più lunga, romanzo di Ered D'Aguiar, scrittore della Guyana da tempo residente a Londra. Gli schiavi della piantagione di Mr Whitechapel, piccolo universo chiuso, emblema di una situazione disumana, non hanno nome: vengono chiamati con il cognome del padrone o secondo la propria funzione all'interno della tenuta. Non hanno passato, perché gli è stato rubato con la deportazione dall'Africa, continente di cui i più vecchi hanno un vago ricordo; e non hanno futuro, perché "il futuro non è che passato che aspetta di accadere". Hanno però la responsabilità delle proprie azioni, e si dividono in due gruppi: quelli che accettano di buon grado la loro condizione e con il tempo vengono premiati con un trattamento più umano, come il vecchio Whitechapel, e quelli che invece si ribellano, come il giovane Chapel. Frutto della violenza di un sorvegliante sulla giovane moglie di Whitechapel, il ragazzo non accetta la schiavitù e sfida l'uomo bianco corteggiando la figlia del padrone e impadronendosi della scrittura, della lettura e della poesia, privilegi vietati ai neri. Con l'estremo atto di ribellione della fu- ga, Chapel firma la sua condanna a morte. Nello spazio temporale brevissimo di una giornata, i monologhi dei vari personaggi presentano al lettore mentalità diverse: l'indulgenza di Mr Whitechapel, padrone umano con i propri schiavi, si scontra con la crudeltà dei sorveglianti e degli altri ricchi proprietari terrieri, e l'apertura mentale di Lydia, la figlia del padrone che si innamora di Chapel e lo inizia al piacere proibito della lettura, rimane segreta. La rassegnazione di Whitechapel contrasta con la ribellione senza compromessi del figlio, cui Fred D'Aguiar riserva, nel suo breve bellissimo monologo, il privilegio della poesia. Alla fine di un tragico giorno di caccia all'uomo e di violenza, resta solo il pianto di un vecchio per un figlio e l'immane sforzo di dimenticare, che è anche il tentativo di un popolo di lasciarsi alle spalle la schiavitù e la propria disumana condizione.