Percorsi della riflessione ^^L. femminile A chi si abbona per Vanno 1996 Lapis offre tre combinazioni nel vostro interesse 1 abbonamento con 1 libro in regalo lire 40.000 2 abbonamenti con 2 libri in regalo lire 70.000 invece di lire 80.000 Abbonamento comulativo con II paese delle donne e 1 libro in regalo lire 90.000 invece di lire 110.000 Modalità di pagamento: □ assegno non trasferibile intestato a La Tartaruga edizioni Srl □ c/e postale n° 24001208 intestato a: La Tartaruga edizioni Srl - via Filippo Turati 38 -20121 Milano 31 settembre 1996 dalla "differenza" alla soggettività lettere, diari, autobiografie, cellule prime della scrittura una tragedia dei nostri giorni Hélène Cixous sull'Aids La Tartaruga edizioni Srl via Filippo Turati 38 -20121 Milano tel. 02 6555036 - fax 02 653007 re da sé che presuppone però il ritorno alla dimensione originaria. Terre di andata di Carmine Abate, nato nel 1954 a Carfizi, paese di lingua arberesche in provincia di Crotone e vissuto tra la Germania - dove ha insegnato letteratura italiana - e il Trentino, è almeno la testimonianza della perdita, della sconfitta di chi parte per non tornare, di chi abbandona la propria terra. Il volume è diviso in cinque sezioni, mirate a costruire un percorso diacronico e linguistico. Già i titoli delle sezioni - Dimore tra me (1979-87), Dimore di me (1977-79), Di more (1988-92), Giochi di lingue (1986-95) e Dimore di noi (1979-89) - illustrano, nel loro ordine, il "gioco di lingua" caro all'autore, che ha collaborato con Tullio De Mauro ma che è senz'altro debitore degli esperimenti linguistici della neoavanguardia. DIMORE / DI MO- stanza femminile per eccellenza, che discorre al corpo nell'alata lirica iniziale, insieme frivola e patetica. Difatti, come vuole anche il passo di Bachtin premesso al libro, siamo nella dimensione del patetico - ove con patetico s'intende un discorrere che non ha più potere su nessuno, nemmeno su colei che lo pronuncia. Ed è un patetico fuggitivo, pieno di Carmine Abate, Terre di andata, prefaz. di Stefano Gensini, Argo, Lecce 1996, pp. 129, Lit 15.000. Il tema del viaggio è certamente legato all'idea di un movimento di andata e ritorno, in cui il viaggiatore, il turista, fa esperienza, si arricchisce di qualcosa che prima non aveva. Il "far esperienza" è un usci- Il sogno di andarsene di Anna Maria Carpi malinconiche, antifalliche grazie: ha ragione l'autrice a riservarsi, tra Florindo e Capitan Fracassa, il ruolo di Rosaura. Rosaura curiosa e pietosa dei destini degli umili ma estasiata da salottini e vecchi giardini aristocratici, iper-sensitiva e al tempo stesso impassibile, e proprio per questo capace, come tutti i burattini (e tutti gli artisti, secondo il paradosso di Diderot), di mimare le anime, le gioie e soprattutto il "dolore". Il dolore è la sua passione. Giochi di lingue di Enrico Cerasi RE; TRA ME / DI ME / DI NOI: si noti come la scomposizione del termine dimora avvenga nella terza sezione; dopo di che, la sezione seguente svela il trucco chiamandosi, con autoironia, Giochi di lingue. Nell'ultima sezione trova posto, finalmente, il noi - ma, come vedremo, segnando non un ritorno, non un'awenuta riconciliazione ma una frattura, una sconfitta. Se dalla struttura del libro passiamo poi ai fenomeni linguistici, notiamo in primo luogo la compresenza di poesia e prosa: tratto che, come è noto, attraversa un po' tutto il Novecento letterario ma che nel caso di Abate ricorda da vicino la commistione dei generi praticata dai vociani all'inizio del secolo e dalla neoavanguardia negli anni sessanta-settanta. E dalla tecnica dei vociani, ma con un'autoironia davvero amara, è ripreso da Abate l'uso dei conglomerati: "il nulla-energia-vita / la vita-energia-nulla"; "Parole-sen-sazione"; "sul treno Hamburg-Milano"; "punti-chiave"; "il pas-sato-futuro / si raggrumava in ferita seccata", ecc. Il conglomerato, che Abate usa largamente, non è sintesi, non è superamento del presente, è semplice giustapposizione; è forse emblematico di una condizione precaria, di una sintesi mancante, anche politicamente. In questo senso la convivenza di lingue e dialetti, di generi letterari, di luoghi, è forse, al contrario di quanto si afferma nell'introduzione, il segno di una ferita rimasta aperta, di una deprivazione, non di una ricchezza. Rimane, come dire, la sensazione di un'incomunicabilità fuori programma, non voluta e non proposta affatto come valore positivo. E la rabbia per non riuscire a unirsi alla lotta dei compagni. Di qui l'ironia e talvolta la violenza nei confronti tanto di una concezione idealistica della poesia ("Tutto capovolto, caro professore, / e noi camminiamo sulle nuvole / con la testa nel fango / tra le masse che ridono / convinte che stiamo giocando"), quanto di un'avanguardia troppo compiaciuta e fuori tempo massimo ("e liberami ti prego / dalla bolgia purulenta di parole / dell'avanguardista di professione / dalla retorica stupida dalla / morale facile liberami"). Ma la sfiducia di Abate finisce, forse riprendendo anche la lezione di Franco Fortini, per coinvolgere la stessa poesia in quanto tale: "e poi non è vero che cambiando parole si cambiano i mondi. I fatti importano ancora e noi dubitiamo di tutto". Bianca Tarozzi, La buranella. Marsilio, Venezia 1996, pp. 127, Lit 24.000. Dire che La buranella di Bianca Tarozzi, già autrice di Nessuno vince il leone (Arsenale, 1988), non è poesia ma solo prosa quotidiana messa in versi e individuarne gli sbriciolamenti, le dissonanze e i momenti di quasi impotenza espressiva non è molto difficile. E vero che a tratti l'autrice sembra parlare come da uno stato di esaurimento e quasi in forse se non abbandonare il testo (e tutto quanto) al suo destino: prende, ad esempio, quello che di parole e di rime ha a portata di mano e non mette bene a fuoco il "parlato" che, se parlato dev'essere, andrebbe invece reso con fedeltà brutale. Credo però che il suo autentico, singolare effetto di poesia, il gran "piacere del testo" che offre, venga anche da questa specie di controllo imperfetto. Siamo agli antipodi di ogni combinatoria linguistica e di ogni gergo prefabbricato senza soggetto e senza sgarri - e gli alti e bassi sono inevitabili, perché voler dire l'accaduto, fuori o dentro di sé, è sempre la cosa più ardua, e il rischio vero. La buranella è un'autobiografia ironica, discreta anzi elusiva, risolta - e qui sta la sua radice fantastica - al plurale: nella struggente recita del "come eravamo" di una piccola turba di creature-burattini, "pronti all'imprevisto / ma con poca esperienza". Chi immaginava che "lasciata la commedia / dell'arte, ci saremmo / trovati senza parte / nota, da recitare: / con una vita sempre da inventare"? La voce recitante delinea, sommessa, con poche note, drammi di antenati, di familiari e di estranei, donne perlopiù, illetterate o quasi e di scarse risorse e di grandi sogni; gli uomini sono gli assenti per eccellenza (come già l'emblematico Ulisse in Nessuno vince il leone), apostati per vocazione (salvo il buon Tonino, marito della buranella). In che epoca siamo? Anni venti, cinquanta, settanta, novanta, e anche questi ultimi trattati come neiges d'antan-, ma l'autrice la dichiara apertamente (e non senza qualche snobismo) la sua inguaribile "nostalgia di rose e di canzoni", e violette, ricami e vecchie carte. I luoghi sono: la stanza di una madre un po' strana, una scuola di suore, un liceo bolognese, un treno, una casa a prestito, una corsia di ospedale. Spazi collettivi o comunque di attesa o di transito, spazi di nessuno, senz'intimità e perfino irreali: ma è qui che l'autrice ha collocato la sua invisibile "tavola imbandita, / mai profanata da cibo o commensali", ossia la fantasia poetica. Questa tavola è tutto, e quando lamenta, come fa a più riprese, il mancato "banchetto della vita", sappiamo che non fa sul serio. Il vero leitmotiv del racconto è in ogni caso il sogno di andarsene, via dall'hic et nunc, ed essere sempre in viaggio: o come l'uomo Ulisse, o come l'anima, so-