OTTOBRE 1997 N. 9, PAG. 5 In questo numero occupano uno spazio speciale le parti dedicate, in modo diverso, ai bilanci storiografici, alle riflessioni sul passato, alla dimensione della memoria, al valore "di formazione" che possono assumere alcuni percorsi biografici se comunicati all'esterno. Sull'opera di Renzo De Felice abbiamo deciso di esprimerci su vari piani (e quindi con diversi recensori) per tener conto non solo dei contenuti storici, ma anche dell'impatto sulla cultura italiana degli ultimi decenni e dell'eredità di polemiche e condizionamenti che la con-temporaneistica ha recepito della ricerca defeliciana. I mediatori della memoria sono sempre più presenti in libreria e se ne occupano varie pagine in questo numero: di Ciafaloni su Pio Galli e le battaglie sindacali, di Calcagno sul libro di scritti di Primo Levi. Giorgio Baratta sottopone Sanguineti a un'intervista "tematica" su Antonio Gramsci, con un'operazione che moltiplica efficacemente i punti e i modi di osservazione del Novecento. I testimoni come protagonisti, dunque. Vari indizi ci fanno capire, nei lettori, una forte domanda di passato recente e umanizzato, con esperienze culturali e politiche non formalizzate bensì raccontate da chi le ha vissute: e così ab- Mediatori della memoria biamo fatto commentare la memoria di un protagonista della storiografia, Eugenio Garin, da un protagonista della riflessione politico-filosofica, Norberto Bobbio. Per quanto i professionisti insistano sulla distinzione fra me- moria e storia, fra le due operazioni mentali si constata un'interferenza nelle numerose opere o di personaggi della storia recente, o di storici che scrivono non del passato, ma delle loro personali vie di accostamento al passato. Perciò qui troviamo due grandi storici e due libri che si esprimono sulla funzione culturale e civile della storia. Spesso negli anni scorsi abbiamo segnalato opere simili: di Duby, di Geremek, di Ariès, dello stesso Le Goff. E anche avvenuto che i nostri recensori suggerissero un Le immagini di questo numero m k India, miniature e dipinti dal XVI al XIX secolo. La collezione di Howard Hodgkin, Electa, Milano 1997, pp.150, s.i.p. Il catalogo è il frutto della mostra sulla storia artistica indiana tenutasi quest'estate presso il Museo di Castelvecchio di Carlo Scarpa. È suddiviso per generi tematici e stilistici quali: epica, scene di corte, ritratti, elefanti, fiori e uccelli, caccia, Ragamala. rallentamento della pubblicazione di interviste e dibattiti sulla storia, perché questo genere di pagine cominciava ad apparire un poco inflazionato. Ora disattendiamo quell'auspicio perché il libro di Hobs-bawm consente di vedere, coordinate in una trasparente coerenza, le disposizioni di uno storico che non ha sfiorato la sovraesposizione nei media, e perché il libro di Le Goff non è un intervento d'occasione, ma un'ampia e sincera operazione di autocoscienza intellettuale. I giornali inseguono gli storici per chiedere loro i pareri più svariati: gli editori non hanno dubbi - e non solo in Italia -nel proporre assiduamente al pubblico la storia come disciplina che riflette su se stessa: un'operazione evidentemente sempre premiata dal mercato, dato che non si notano inversioni di rotta. Alla luce di queste considerazioni abbiamo fatto una scelta particolare per recensire i due libri, facendo ricorso a due editori di formazione storica (modernistica Donzelli, medievistica Matteo-li) che garantissero non solo prossimità alle competenze dei due autori, ma anche sensibilità speciale per il terreno d'incontro fra chi la storia la scrive e chi la legge con curiosità per le motivazioni degli storici. Giuseppe Sergi Lettere La parola ebreo. Leggendo con ritardo il numero di luglio, sono rimasto molto deluso dalle sostanziali riserve e dai tiepidi elogi di Michele Sarfatti e di Delia Frigessi ("sarà utile specialmente ai più giovani, che poco conoscono..."; "va raccomandato come primo approccio...") a proposito dell'ultimo lavoro di Rosetta Loy, La parola ebreo, che personalmente (e spero di non essere il solo) considero straordinario. Tanto più che se qualche volta trovo un difetto neli"ìndice" - di cui sono affezionato lettore - si tratta in genere di eccessiva e non sempre meritata generosità. Non sono uno storico come Sarfatti, solo un altro lettore-cavia come si presenta Delia Frigessi, e posso capire che per uno storico di professione quel che riporta questo libro, in merito per esempio all'atteggiamento del Vaticano nei confronti delle persecuzioni antiebraiche e ai misteri relativi all'enciclica Humani generis e alla morte (tardiva, per l'impaziente Mussolini) di papa Pio XI, non costituisca una novità. Alla domanda che si pone la stessa Loy - se quell'enciclica avrebbe potuto davvero cambiare la sorte di milioni di ebrei - non c'è ovviamente risposta. Ma non credo che siano in molti a conoscere i frut- ti delle annose ricerche di Passe-lecq e Suchecky, la ricostruzione di quella encyclique cachée che il successivo pontefice, Pio XII, sosteneva essere sparita, e di cui invece egli stesso usava alcuni brani, quelli sulle sofferenze del clero polacco, censurando tutto quello che riguardava ebrei e nazismo; in questo senso forse il libro merita di essere raccomandato non solo a quelli che "poco conoscono". Più complessa la questione del "disagio" confessato da Delia Fri-gessi. L'ho provato tante volte anch'io, quel "disagio", di fronte a lavori di argomento ebraico. Lo provavo già da bambino, andando alle scuole medie nel primo dopoguerra, con i compagni (e i professori) che mi chiedevano cos'era successo alla mia famiglia ma poi subito ammutolivano e non ne volevano assolutamente sentir parlare ("eh, già, la guerra, che brutta cosa, anche il cognato di mia zia è stato disperso in Russia...") e più tardi con gli amici del Pei o della Fgci che mi consentivano di essere ebreo (io poi allora non è che ci tenessi tanto) ma solo nel ruolo a tempo pieno di figlio e nipote delle vittime, e guai per carità parlare di sionismo. Lo sentivo ancora dì più di fronte alla "pietà" che certuni ci concedevano ma senza riconoscerci il diritto di opporci all'ingiustizia, secondo quella tipica e schizofrenica e diffusa forma mentis che la Loy aveva già splendidamente denunciato in Cioccolata da Hanselmann. Ma non capisco come lo si possa provare di fronte a La parola ebreo, che mi sembra la riflessione più commossa e avanzata su questo tema che sia giunta in Italia da parte cattolica. C'è indubbiamente, in questo nuovo libro, una contrapposizione fra "noi" (non ebrei come l'autrice) e "loro" (gli ebrei), una contrapposizione che per noi lettori-cavia è in certo senso destinata a rovesciarsi. Per Sarfatti questo "risulta al lettore odierno spiacevole e irritante" e per la Frigessi manca della necessaria umiltà, in quanto sarebbe basata non già sulla domanda "chi sono io?" ma su un (altezzoso? sospettoso?) "chi sei tu?". Non capisco. Non sarebbe (non è) più mistificante, non suscita più "disagio", il tentativo semplicistico, anche se animato dalle migliori intenzioni (vedi a esempio il film che Rosi ha tratto da La tregua, a proposito del quale, per restare all"ìndice" di luglio, concordo al cento per cento con Cavaglion e sono in totale disaccordo con Mosca) di fare d'ogni erba un fascio, di proclamare che tutti hanno sofferto (o magari che siamo tutti ebrei, o tutti cristiani)? O tutti italiani e dunque ipso facto "brava gente"? Lungi da me il pensare che siamo noi ad avere il monopolio delle sofferenze: ma troppo spesso la confusione si rivela interessata. E in questo caso, come può nascere equivoco? Certo, un lettore-cavia non si poneva allora interrogativi sulle responsabilità e sulle colpe: il lettore-cavia, come scrive la Frigessi, allora aveva fame e aveva paura. Ma questi interrogativi non se li poneva neanche la bambina protagonista del ricordo della Loy - a differenza del narratore, della Loy adulta: ed è proprio questo che la Loy adulta rimprovera non tanto a se stessa bambina quanto al milieu sia pure non fascista e non razzista in cui stava crescendo. Gli ebrei intravisti ai giardini o sul pianerottolo o al di là di una finestra - ma anche quelli che varcano la soglia dell'appartamento della famiglia Loy, come la signora Della Seta con la sua spigola e la sua gonna di seta plissé: una pagina stupenda - sono sì, come dice Delia Frigessi, "figure evanescenti", nel senso che nella maggior parte sono destinati a sparire, ma non mi sembra che siano loro a venire "caricati" di angosciose domande grazie al "senno di poi", magari chiedendo a loro, e non già a noi sopravvissuti, "a chi ia colpa di tanta distruzione e ferocia e cosa significhi essere ebrei, o cattolici". Sono certo che Delia Fri-gessi non intendeva accusare di questo Rosetta Loy, che in questo caso non sarebbe lontana dalle rituali e maligne domande degli antisemiti e dei revisionisti, del tipo "perché non si sono difesi?". Ma se è ovviamente lecito non apprezzare un libro che altri come il sottoscritto amano, spero mi sia consentito confessare, da lettore, un altro disagio di fronte al vostro disagio, e una buona dose di perplessità di fronte alia vostra (per me incomprensibile) irritazione. Guido Fink Nella lettera dell'amico Guido Fink compare una citazione, che al lettore potrebbe sembrare mia: "A chi la colpa di tanta distruzione e ferocia e cosa significhi essere ebrei e cattolici". La frase non mi appartiene né ho mai pensato di porre questi problemi. La mia perplessità di fronte al libro di Rosetta Loy nasce dalla distanza che ho avvertito tra le tragiche dimensioni della storia e la narrazione. Forse per questo non mi riesce di credere che ci possa essere una posizione di "parte cattolica" e una di parte ebraica e perciò non condivido il giudizio di Fink che nel libro vede "la riflessione più commossa e avanzata su questo tema che sia giunta in Italia da parte cattolica". Non dovrebbe esserci differenza tra cattolici ed ebrei nel riflettere su questi argomenti, anche se di fatto essa esiste, e non credo che gli ebrei abbiano da ringraziare i cattolici per la loro attenzione. Delia Frigessi