Karla. Un testimone reticente di Marco Buttino OTTOBRE 1997 < del '48; la prima Educazione era terminata nel '45). Sviante è dunque parlare di "prima Educazione" (se non in senso cronologico) o, peggio, di "prima versione" per una mera comunanza di titolo. Giungere a ritroso dalle prove mature a questo primo romanzo, significa soprattutto scordarsi il teorico dell'impersonalità e imbattersi nella verve loquace di un narratore onniscente, con i suoi commenti sugli eventi, gli ammicchi brillanti al lettore, le digressioni estetiche. Ma quanti altri antiflaubertismi, in questa Éducation: disinvolti slittamenti del punto di vista; contrasti di tono che Bogliolo indica oscillanti tra il lirismo di Chateaubriand e l'allegro realismo di Pigault-Lebrun (corrispondenti ai rispettivi caratteri di Jules e Henry); alcuni squilibri strutturali (lunghezze difformi dei capitoli); e un proliferare di accadimenti che, appena dieci anni dopo, Flaubert avrebbe certo arginato e stemperato sino all'assenza di azione, in favore dei grandi spazi vacanti (l'Éducation può concedersi la lunga fuga in America di Henry e Mme Renaud, ove in Madame Bovary, noterà Jean Rousset, il viaggio di Emma sarà soppresso e ridotto a una pura immaginazione di lei). Ma se il romanzo del '45 non lascia neanche intravedere i futuri rigori, è anche vero che sul piano contenutistico affiorano premonizioni e topoi delia maturità: nelle inesauste peregrinazioni culturali (ventunesimo capitolo) di Jules- letterarie, storiche, linguistiche: consolazioni di una delusione amorosa - si anticipa l'affanno autodidatta ed enciclope-distico della coppia Bouvard e Pécuchet; e, in particolare, le numerose fantasticherie decadentistiche legate all'esotico e all'antichità sono le stesse che avranno superbi sviluppi in Salammbó. C'è anche il lungo episodio dell'incontro tra Jules e il cane (ventiseiesimo capitolo): pena, reazione violenta, timore superstizioso, senso di colpa, delirio di Jules si concentrano sulla bestia, prefigurando Saint Julien l'Hospitalier e il cervo nel più perfetto dei Trois Contes. La traduzione splendida di Caproni, con toscanismi e arcaismi che vivacizzano senza tradire, esalta questa prova giovanile che poco aggiunge alla gloria di Flaubert, ma molto alla comprensione del suo percorso. A quest'ultima, in generale, tende generosamente il volume con le note introduttive, le due estese appendici (gli atti del processo a Madame Bovary; il dibattito tra Sainte-Beuve e Flaubert su Salàmmbó), e una invogliante cronologia (dovuta a Piero Toffa-no) che si scorre con più piacere e profitto di tante verbose biografie. Baudelaire È uscita nella collana "Scrittori tradotti da scrittori" di Einaudi (Torino 1997, pp. 162, Lit 22.000) una nuova versione italiana di Lo Spleen di Parigi. Ne è autore Gianni D'Elia, che alle traduzioni in italiano dei poemetti in prosa baudelairiani post-pone una Nota del traduttore in versi. Prima di D'Elia, si erano cimentati con Lo Spleen di Parigi, tra gli altri, Alfonso Barardinelli (Garzanti, 1989) e Giuseppe Montesano (in Charles Baudelaire, Opere, Mondadori, 1996; cfr. "L'Indice", 1996, n. 9). Markus Wolf, Anne McEl-voy, L'uomo senza volto, Rizzoli, Milano 1997, ed. orig. 1997, trad. dal tedesco di Francesco Campana e Stefano Galli, pp. 320, Lit 34.000. Vi ricordate Karla, l'astuto capo dei servizi segreti della Germania Est nei romanzi di John Le Carré? Bene, esisteva davvero, si chiama- esiste più, e di non dovere rispondere a un altro paese, la Germania unificata di oggi, del proprio onesto lavoro. Nel libro va più in là, sostiene che ai tempi della guerra fredda, quando le due Germanie non si parlavano, ed erano l'epicentro di un conflitto che provocava tensione in tutto il mondo, il lavoro degli agenti segreti era di fatto al servizio della pace e della distensione: ac-. scuola di Mosca, imparò il russo benissimo, divenne cittadino sovietico e attivista della gioventù comunista; gli amici lo chiamavano ormai Mi-sha e non era più uno straniero. Poi venne la guerra, mentre la maggior parte dei tedeschi etnici dell'Urss e molti dei tedeschi immigrati erano deportati o sparivano nella macchina della repressione stalinista, Markus continuò a sostenere la nuova patria sovietica lavorando a Radio Mosca, alle trasmissioni in tedesco. Quando nel dopoguerra venne formata la Rdt, il partito decise che Wolf ritornasse cittadino tedesco per lavorare all'ambasciata moscovita di questo nuovo paese amico. All'inizio degli anni cinquanta fu mandato a Berlino Est per organizzare i servizi segreti. Qui comincia la storia della superspia. Fino al 1980 la Cia, come il Mossad e tutte le altre agenzie del mondo occidentale, non riuscì neppure a conoscere il volto del responsabile del temibile spionaggio della Germania Est. Markus poteva spostarsi in altri paesi, incontrare i propri agenti, tessere trame di ogni tipo senza essere conosciuto dagli avversari. Rimase a capo dei servizi fino al 1986, andò in pensione quando altrove il comunismo iniziava a vacillare, e si fece scrittore. Poi, nel 1990, la stessa Rdt fu liquidata. OTTOBRE 1997 ù e Ò~tcrVÒc\- N. 9, PAG. 12 Del periodo in cui fu un "uomo senza volto" Wolf ci racconta di avere invaso l'Occidente di spie, di aver mandato finti seduttori o seduttrici che Conquistavano i cuori e i segreti di persone con ruoli riservati, di aver stabilito contatti con uomini politici e spie in tutti i paesi in cui si estendeva l'influenza sovietica. Ne risulta un quadro della guerra fredda composto da vari episodi di spionaggio, tra cui vicende minori e casi noti (come quello di un agente infiltrato nell'ufficio di Willy Brandt). Wolf ci informa anche, senza dire nulla di non prevedibile, del modo in cui la Rdt considerava i movimenti pacifisti in Occidente, e dell'ospitalità fornita ai terroristi della Baader-Meinhof. E si affretta a spiegare che non dipendeva da lui l'aiuto ai terroristi, che non aveva responsabilità in violenze compiute all'estero. Il processo Nel 1947 André Gide e Jean-Louis Barrault collaborarono a una versione teatrale del Processo di Franz Kafka. Ne risultò un testo in cui più della perizia letteraria di Gide emergevano lo straordinario talento drammaturgico di Barrault e la vitalità originaria del romanzo di Kafka. Il libro viene ora tradotto per la "Colle-. zione di teatro" Einaudi (Torino 1997, pp. 99, Lit 15.000) da Enrico Badellino. L'edizione è corredata da una postfazione dello stesso Badellino e da una nota informativa sui principali adattamenti teatrali, musicali e cinematografici del Processo. Le pagine più riuscite sono quelle in cui tratta dei rapporti con i "colleghi" sovietici e di vari incontri a Mosca con i responsabili ai massimi livelli del regime. Ed è interessante come descrive vari personaggi, e tra questi Erich Honecker. Un po' fastidiose sono invece le sue considerazioni politiche, ovviamente democratiche, che partono da un'apparente comprensione per gli operai in rivolta nel 1953 e arrivano a banali simpatie verso Gorbacev. Quando andò in pensione, mentre la Rdt di Honecker seguiva ancora il corso comunista dei vecchi tem-pi, Wolf seguiva già la via della perestrojka indicata da Mosca. Fu sempre comunista, questo lo ammette con orgoglio, e innamorato dell'Urss fino a quando Gorbacev non si sbarazzò della Rdt e dei suoi agenti. Il libro è da considerare non come un saggio di analisi politica o sociale, ma come un lungo documento storico: è utile per un'indagine sul percorso di un dirigente comunista tipico, sul suo modo di pensare e di raccontarsi, sul suo essere legato all'Urss, e sul suo diventare po-stcomunista; spesso però è inaffidabile, in genere non esauriente e allusivo. A chi voglia fare altri passi verso la conoscenza di Markus Wolf e del suo mondo potrei consigliare un libro su di lui, quello scritto da Leslie Colitt (Spy Master. The Real Life Karla, Wesley, 1995), che non ha motivo di essere reticente e che tratta anche della società tedesco-orientale in cui lavoravano i servizi segreti più efficienti di tutta l'area comunista. Si troverà quanto Wolf non descrive: il clima di sospetto, gli intellettuali sotto controllo, l'abitudine a compromettere gli altri, a spiare e a essere spiati. Sosta all'inferno di Angela Massenzio Stephen Crane, I1 mostro, a cura di Giorgio Mariani, Marsilio, Venezia 1997, testo inglese a fronte, pp. 185, Lit 22.000. Il titolo di questo racconto sembra affiorare da una zona d'ombra indefinita e cupa per attrarre, sorprendere o semplicemente incuriosire. Si scivola oltre scorrendo le pagine per saperne di più, e l'impressione d'incertezza aumenta attorno a quel nome, quasi toccasse al lettore far luce, indagare sull'intera vicenda e sciogliere i nodi accuratamente intrecciati dalla scrittura. Il mostro nasce in una cittadina statunitense dell'inizio secolo quando una, volontà diabolica e misteriosa dà fuoco alla casa del dottor Trescott animando una tribù magica • di fiamme, e catturando nell'incendio un servitore nero mentre tenta di soccorrere il figlio del suo padrone. Anche se entrambi vengono portati in salvo, l'uomo è ormai in punto di morte, la sua testa, per una strana fatalità, completamente bruciata nel rogo. Ciononostante, il dottore riesce a curarlo e in segno di riconoscenza sceglie di mantenerlo in vita (cos'altro può fare?), quasi producendo artificialmente una creatura diversa, come un nuovo Frankenstein. Tuttavia, la breve sosta all'inferno priva quel volto della sua coscienza e ne distorce i lineamenti in uno spettacolo orrendo che annichilisce gli abitanti bianchi e neri di Whi-lomville. E la stessa voce del narratore a definirlo con disinvoltura "mostro", specchiandosi nella mentalità di chi guarda, compreso il lettore, trascinato a chiedersi cosa sia, invece. Mentre lo sguardo affonda nelle piaghe della società moderna, condito di squisita ironia, emerge la vena naturalistica del racconto, che percorre molti dei romanzi di Grane, fra cui il capolavoro The Red Badge of Courage, e affiora anche un'altra caratteristica della scrittura di questo autore, cioè la tendenza a comunicare. significati e sensazioni attraverso raffigurazioni verbali capaci di ricreare in modo "sensuoso" o "impressionistico" la realtà. Oltre alla straordinaria scena dell'incendio, queste immagini sparse qua e là lungo il testo compaiono all'improvviso, balzano agli occhi come animando con un qualche effetto speciale le righe della pàgina scritta, e culminano -in quell'ultimo, conclusivo disegno che lascia aperte e inconcluse tutte le strade dell'interpretazione. Con una tecnica da regista cinematografi-■ co, l'autore introduce la scena finale via via restringendo il campa visivo attorno a quindici tazze vuote in cui sembrano prendere forma i volti delle quindici donne che non fanno, più visita alla signora Trescott, disertando i suoi ricevimenti. Se la voce narrante si allontana e tace, le tazzine lucide restano sotto i nostri occhi qualche istante ancora per racchiudere un semplice vuoto, sordo e agghiacciante nella sua indifferenza. IL ultimo fotogramma avvolge nell'oscurità la scelta del medico, circonda di silenzio lo spettatore, 10 confonde, lo interroga sul significato di quella resistenza ai percorsi dèlia-Natura, alla volontà del destino, proiettando sul foglio 11 profilo mostruoso delle quindici teste di porcellana. va Markus Wolf e ora scrive libri per parlare di sé e dei misteri del suo paese. L'uomo senza volto è un'autobiografia, che lascia intravedere un personaggio affascinante e imprese intriganti. Dico intravedere, perché Wolf, che era un furbone come spia e uomo politico, continua a essere tale come scrittore. Racconta un po', allude, nasconde. Se fosse interrogato in un tribunale sarebbe considerato un testimone reticente o un imputato che si difende. E in effetti è tale, perché dalla fine del comunismo in poi è stato spesso in tribunale, accusato di colpe commesse al servizio della Germania Est. Le accuse che gli sono mosse riguardano rapimenti fatti dai suoi agenti, violenze a persone, tentativi di destabilizzare l'ordine politico della Germania federale, tradimento. L'imputato sostiene di non avere mai tradito il suo paese, che era appunto la Rdt, un paese che ora non quisivano informazioni superando il muro dèi silenzio e permettevano perciò, in qualche modo, la comunicazione e un dialogo. I tribunali gli hanno inflitto varie condanne, ma per ora Wolf è a piede libero. Scrive e si discolpa. L'autobiografia è del resto spesso uno strumento di giustificazione anche quando non deve tener conto di tribunali. Wolf racconta la propria vita come un percorso lineare, giustificato e anche morale; noi dobbiamo mantenere un po' di distacco e non credere a tutto. Vediamo i tratti essenziali di questo percorso incriminato. Il padre di Markus Wolf era commediografo, medico o-meopatico, comunista ed ebreo. Di questi attributi, i due ultimi costituivano una colpa terribile nella Germania del 1933, dove egli viveva e da dove fuggì portando con sé la famiglia. La destinazione era la grande Unione Sovietica. Markus, che aveva allora dieci anni, iniziò a frequentare una