OTTOBRE 1997 di Piero Boitani Luciano De Crescenzo, Nessuno. L'Odissea raccontata ai lettori d'oggi, Mondadori, Milano 1997, pp. 250, Là 25.000. Antonio Spinosa, Ulisse. Libera immaginazione dell'Odissea, Vietume, Casale Monferrato (Al) 1997, pp. 311, hit 28.000. Luigi Malerba, Itaca per sempre» Mondadori, Milano 1997, pp. 185, Lit 27.000. "Ulisse non è un personaggio ma una mania", dichiara Luciano De Crescenzo al lettore in apertura del suo Nessuno. Niente, oggi, potrebbe essere più vero. Negli Stati Uniti, la produzione Nbc dell 'Odissea ha tenuto incollati al video milioni di telespettatori, e moltissimi ne ha invogliati ad acquistare una copia del poema tradotto da Robert Fagles, divenuto in poco tempo un bestseller nell'edizione Viking. Ulisse compare nella poesia e nel romanzo dei Caraibi, dell'America latina, dell'Africa, dell'India, dei paesi arabi. C'è chi sostiene che i percorsi descritti nell'Odissea sono memoria di un'antichissima circumnavigazione della Terra (Christine Pellech, Odisseo, Ecig, 1992); chi invece argomenta che il mondo di Omero, e in particolare quello di Ulisse, è perfettamente identificabile nel Baltico (Felice Vince, Homericus Nuncius, Solfanelli, 1993). In Italia, traduzioni, mostre, convegni, studi furoreggiano (cfr. "L'Indice", 1994, n. 10 e 1996, n. 6). Siamo ormai vicinissimi al 2001, anno in cui, secondo vaticini cinematografici, si compirà la fatale "Odissea nello spazio", e il 1997 ci consegna intanto ben tre volumi ulissiaci, due "riduzioni" per il lettore moderno e un romanzo. Ri-scrivere l'Odissea non è impresa facile: non perché Omero sia da considerare in alcun modo sacro, ma perché è dannatamente bravo. Ha architettato una struttura, delle scene, personaggi, toni ed enigmi che rappresentano l'inizio della narrativa romanzesca dell'Occidente e ne condizionano tutti gli sviluppi futuri. In Italia, poi, c'è un altro scrittore dannatamente bravo che ha aggiunto alle avventure di Ulisse quella, fatale, dell'ultimo viaggio: Dante, nel canto XXVI dell'Inferno. Riscrivere Omero e Dante non è impresa facile - è disperata. Una leggera forma di disperazione si prova infatti a leggere il Nessuno di De Crescenzo, versione scanzonata e modernizzata del poema omerico, con finale in cui Ulisse, seguendo la profezia di Tiresia, riparte (diciamo alla Dante, ma il paragone più calzante è con Tennyson e Pascoli) alla ricerca della terra che non conosce il mare. Ci si attenderebbe da De Crescenzo la verve comico-erudita che lo contraddistingue e che tanto ci ha divertito in passato, ùn deciso imboccare la via del Ciclope di Euripide. Invece, l'impressione che si ha qui è che l'autore non sappia bene quale strada prendere tra il riassunto, il commento personale e la parodia. Per esempio, il paragone iniziale fra il concilio degli dei olimpici e il Parlamento italiano, con Ares, dio della guerra, a Destra, ed Efesto, "Dio dei metalmeccanici", a Sinistra, promette bene nella direzione di una sorridente e irridente modernizzazione del poema. Purtroppo, però, né Ares né Efesto hanno nulla a che vedere col decreto-legge sul ritorno di Ulisse che quell'assemblea subisce da (Atena e) Zeus, e quel tono deve testa per l'eroe uscito dal mare e che gli fa subito una proposta di matrimonio. Bene: ma perché eliminare una scena tra le più brevi e suggestive della letteratura d'ogni tempo? Oppure: dei tre canti di Demodoco alla corte dei Feaci, ne rimangono soltanto due, quello su Efesto, Afrodite e Ares (Isso, Essa e 'o Malamente), e quello, richiesto da Ulisse medesimo, del caval- la narrazione assai più drammatica ed evocativa, perché suggerisce che il figlio è (quasi) eguale al padre e perché fa speculare il lettore su cosa sarebbe successo se Telemaco fosse riuscito. Insomma, non è facile fare 0 verso a Omero. Terminata la lettura di Nessuno, ho a lungo rivolto nella mente l'interrogativo se questi appunti fossero quelli di un accade- A ritroso sull'orlo dell'abisso di Paola Carmagnani GéRARD de Nerval, Viaggio in Oriente, a cura di Bruno Nacci, Einaudi, Torino 1997, ed. orig. 1851, pp. 565, Lit 120.000. Era il 22 dicembre del 1842. Nerval aveva poco più di trent'anni e da molti mesi manifestava ormai, a fasi alterne, i sintomi di uno squilibrio mentale destinato ad aggravarsi sempre più. Per riprendersi dal primo grave attacco del suo male e per dimostrare a se stesso e agli altri di non aver perduto le sue facoltà e la sua capacità di lavoro, otteneva di farsi assegnare una missione letteraria in Oriente. A partire <Az//'Itinéraire di Chateaubriand, il viaggio in Oriente era stato ampiamente codificato, all'interno della tradizione francese ottocentesca, secondo un sistema di passaggi obbligati che tornano ripetutamente a strutturarne la cronaca. Seguendo le orme di quell'ideale Baedeker, Gautier, Flaubert e molti altri viaggiatori meno noti di loro, avevano fissato sulla complessità del mondo orientale lo sguardo esterno dell'Occidente. Essi viaggiavano dal centro alla periferia, e al centro ritornavano, immutati, con il ricco trofeo esotico riordinato e stilizzato in splendide formule, pronto per essere offerto, nella sua veste più rassicurante, allo sguardo stupito di altri occidentali avidi di novità. Con questa retorica del viaggio in Oriente, Nerval non poteva fare a meno di confrontarsi, e non è un caso che egli elaborasse per anni quelle che divennero poi le pagine del Voyage, rifacendole, pubblicandole in ordine sparso, trasfondendole in altre opere, nel vano tentativo di adattarle alle esigenze di una normalità letteraria mai raggiunta. La pubblicazione in volume dell'opera, che per la prima volta ap- pare oggi in Italia in versione integrale in una bella edizione sapientemente curata da Bruno Nacci, ha il sapore della rassegnazione, della definitiva accettazione di una irrimediabile alterità. Tuttavia nell'agile leggerezza della narrazione nervaliana le frontiere geografiche perdono di significato e l'Oriente diviene lo spazio sacrale di un percorso interiore, situato ai confini dei paesi attraversati dal viaggiatore e infinitamente più carico di senso. Il "frivolo europeo", scrive Nerval, si scoraggia in fretta di fronte agli enigmi e ai misteri di un mondo in cui "la bellezza, come un tempo, si circonda di veli e di bende", e subito riparte, "in cerca di altre delusioni", verso altri simboli di un immaginario esotico destinato a offuscare ogni esperienza reale. Per Nerval, invece, non esiste inferiorità del reale rispetto all'immaginato, poiché la realtà stessa assume nelle pagine del Voyage la leggera inconsistenza del sogno. Egitto, Libano, Turchia: le immagini perdono i contorni netti e rassicuranti di quella che chiamiamo realtà per sfumare nella luce incerta della visione, dando vita a un universo magico in cui i miti di un remotissimo passato si confondono con le ossessioni personali. Attraverso la progressiva eliminazione della struttura unitaria e conchiusa della cronaca di viaggio tradizionale, prende forma una rete complessa di aloni, di zone laterali, di aree di risonanza, che compone nell'inscindibile legame nervaliano fra vita e letteratura l'eco di un'unica opera. Pochi anni dopo la pubblicazione in volume del Voyage, parallelamente all'esplosione sterzare sul serioso un minuto dopo, quando De Crescenzo spiega il discorso di Zeus sul "libero arbitrio". Allo stesso modo, riferimenti, ricordi e commenti personali irrompono spesso nel tessuto del racconto, lacerandolo: l'evocazione del compagno ginnasiale di De Crescenzo, Mautone, il quale sosteneva che Ulisse si masturbasse alla vista delle ancelle nude di Nausicaa, spezza l'incanto di una delle scene più straordinarie perché più silenziosamente erotiche del poema. Vi sono, poi, omissioni strane per un lettore attento e acuto quale De Crescenzo (la cui filologia dell'omerico-tamariano "andare dove ti porta il cuore" è, per dirne una, esilarante e inappuntabile). In Nessuno Nausicaa non dice addio a Ulisse prima che questi parta per Itaca: a De Crescenzo non interessa la "vergine candida e ingenua", ma la ragazza che perde la lo di legno, che porta l'eroe a piangere e infine a rivelarsi. Ma già prima di Afrodite e Ares, Demodoco aveva, nell'Odissea, narrato un altro episodio troiano, la lite tra Achille e Ulisse, che aveva fatto versare lacrime al protagonista. Perdere questa serie di tre significa mancare l'immenso pathos di una scena di riconoscimento (attraverso la memoria, diceva con fulminante intuizione preproustiana Aristotele) che dura per un canto intero. Ancora: Telemaco tende l'arco tre volte e tre volte è costretto a desistere. Ma nell'Odissea non ce n'era una quarta, in cui il figlio stava per riuscire e si fermava soltanto a un cenno del capo paterno? Può darsi che De Crescenzo l'abbia eliminata perché incongrua (se Telemaco tende l'arco, tutto il piano della vendetta salta in aria e Penelope rimane a casa col figlio). Ma quella apparente incongruenza rende mico pedante o un lettore che semplicemente non sopporta lo sgonfiamento Bell'Odissea. Poi, lo sguardo mi è caduto sulla copertina, nella quale figura un De Crescenzo incoronato di foglie dorate d'alloro, di bianca tunica vestito, con occhi socchiusi e aria di soave presa in giro, il volto e le mani posate sulla cetra. Allora ho capito il mio disagio: assomiglia, pensavo, a Qualcuno; non a Ulisse, né a Nessuno. Ma certo: a Nerone! Purtroppo, né a Omero né a Petrolini. Diverso l'Ulisse di Spinosa. Non ci sono, qui, diseguaglianze di tono. La "libera immaginazione" si limita a scomporre e rimpastare le vicende dell'eroe fra "onde di mare e d'amore", invertendo la sequenza di Telemachia e Odissea, spezzando le avventure dei libri IX-XII in tanti racconti, e a essi aggiungendo ulteriori narrazioni (a Eolo e a Nausicaa, sulla guerra di Troia), in modo da fornire al lettore un panorama pressoché completo del mito e della facondia di Ulisse. Non che manchi, per via di questa ristrutturazione, qualche elemento superfluo o qualche incongruenza. Per esempio, il canto di Demodoco sul cavallo di Troia è assente dalla narrazione principale, dove Ulisse si rivela a una semplice richiesta di Arete, la regina dei Feaci, mentre compare più tardi, subito prima del racconto che l'eroe fa a Nausicaa della fine di Troia, dopo il memorabile saluto di lei. Questo stesso racconto non sembra avere alcuna funzione drammatica o narrativa: e infatti Nausicaa non ha, dinanzi a esso, nessuna reazione. Tuttavia, il disegno generale di Ulisse regge bene, forse proprio perché Spinosa vede il suo eroe come "sospinto da onde marine ora tenebrose ora sorridenti" e allo stesso tempo agitato dalle "onde amorose dai molti nomi e dalle molte facce". E del resto sono le figure femminili ad acquistare nel libro l'aura più affascinante: Nausicaa confusa, innocente e palpitante, Calipso "avvolgente", Circe lussuriosa, Ecuba trucidata, Penelope astuta e sapiente. Da Penelope giunge la sorpresa (pre)finale del libro. Dopo la scena di riconoscimento al termine della strage dei Proci, la moglie interroga Ulisse, con insistenza, sulle donne "che venivano offerte come premio ai vincitori nelle battaglie". Non è giusto, pensa Penelope, che esse vengano trattate come oggetti, da usare e gettare. Mentre Ulisse, imbarazzato, finge uno stordimento da sonno, la moglie si lancia in una tirata profetica prefemminista: "Verrà pure un giorno in cui le donne andranno anch'esse per il vasto mare, e anche loro incontreranno avventure e genti diverse (.-..) Giorno verrà (...) in cui anche noi donne ci libereremo dalle angustie e dai timori. Alla pari di voialtri eroi, che brandite il ferro e sognate l'alloro, ci ergeremo contro il destino. Sfidandolo, come del resto abbiamo sempre fatto senza che ci fosse mai riconosciuto". Poi, la moglie si rivolge a Ulisse con la medesima furia: non astuto, ma soltanto furbo è Odisseo, "un trucco vivente, un gioco di parole, un'astuzia verbale", inesistente quando non inganna, Nessuno davvero. Ulisse replica accettando e, con la nota abilità retorica sospesa tra menzogna e verità, ribaltando la definizione: Odisseo, sì, e Nessuno, perciò anche Tutti; nessun uomo, quindi simbolo, archetipo, forma, idea. Ma Penelope s'è addormentata: Ulisse ha parlato a nessuno e ora rabbrividisce. I suoi ultimi pensieri notturni sono amletici: restare a casa o imbarcarsi per il folle volo, "partire o non partire"? Il giorno dopo, si fa riconoscere dal padre e riprende il suo potere su Itaca. Lo vediamo, alla fine, con le dita intrecciate a quelle della moglie. Ma all'inquietante domanda della veglia non risponde mai. Sembra che la rivalutazione e la protesta di Penelope facciano parte dello spirito del nostro tempo.