Idei libri del mese| FEBBRAIO 1997 Il miele di Citati di Claudia Moro itcksiickstvi ba scongiura la morte nelle Mille e una notte. Nulla però, se non la voce nar- _ N. 2, PAG. 9 Teatrino di fine millennio Pietro Citati, La luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo, Mondadori, Milano 1996, pp. 402, Lit 32.000. Ariegga altri tempi quel magniloquente sottotitolo, I grandi miti nella storia del mondo, sottaciuto, e pour cause, in frontespizio: tempi neanche troppo remoti di meritorie iniziative editoriali (basti'ricordare la serie "mitologica" di Longanesi) o di inesausto comparati-smo alla Pettazzoni. E arieggiando fuorvia, anche se un'indicazione che schiudesse il bel titolo ossimo-rico bisognava pur darla allo smarrito lettore. Citati non emula Robert Graves né Raffaele Pettazzo- ni; non sembra gareggiare neppure con più attuali oceanografi del mito, e diserta a bella posta chi al mito impone di accostarsi solo nella bardatura di prolegomeni scientifici. Se Citati è un mitografo - leggiamo così, e crediamo non in minore, il sottotitolo -, lo è in un senso che addirittura precede la modernità mitografica dell'ellenista Apollo-doro o di Antonino Liberale, con la loro disciplina compendiosa; lo è a patto di intendere mythos secondo le sfumature semantiche che gli assegna la lingua greca classica: discorso, conversare, narrazione, racconto dell'origine, leggenda o leggendario, favola e, non ultimo, intreccio. Tutti domini in cui Citati fa eccellere il suo talento di empatico incursore, che elude le forme inamene del logos per tenersi stretto alla fantasticheria, al pensare per immagini, a una figuralità acrobatica. Sulle orme dell'amatissimo Montaigne, e del modello socratico che vi traspare, rivisita in modo personale l'arte erotica della conversazione ("perché Eros è in primo luogo passione della parola, non dei corpi"), dell'interloquire a distanza con opere, con uomini e con divinità dei sopramondi o della mente, in un muto dialogato che traduce, sunteggia, commenta, arabesca: insomma prende piacere a raccontare senza posa, e gusta la libertà di trarne echi risonanti e variopinti aloni. Chi conosce il Citati recensore, saggista, biografo, articolista d'occasione, si reimbatte qui in alcune sue predilezioni, magari rapprese in pochi cenni (è il caso della faustiana discesa alle Madri), ma soprattutto nel curioso effetto-Sistina di ravvivo a fondo dell'oggetto. Il risultato finale disorienta, tanto è smagliante. Venuti a parlamento, dèi ed eroi, tragedi, mistici d'ogni risma, filosofi scettici, poeti, favolisti, geni della musica, pittori e falsi messia si scoprono affratellati da uno stile che li rimette a nuovo. Per paradosso, a far da legante non è neppure l'immagine che si vuole più intensa, la "luce della notte", ossia il prendere corpo della verità grazie ai suoi velami, e non solo al rante, rende significativo il loro accostamento. "Le api saccheggiano fiori qua e là, ma poi ne fanno miele, che è tutto loro: non è più timo né maggiorana", ripete con Montaigne. Nell'orchestrare i suoi miti -da cui sono assenti le crudezze del Nord nibelungico, mentre il mondo celtico ha diafani rappresentanti negli elfi e coboldi di Robert Kirk -Citati a volte ne riproduce le mosse, con consapevole malizia. È lui l'ulisside dal racconto inintermes-so, l'isiaco versipelle, è lui l'evange- di Sergio Peni Ferdinando Camon, La Terra è di tutti, Garzanti, Milano 1996, pp. 117, Lit 22.000. Anche i territori dell'anima sono gelosi dei loro personali confini. Ciò che appartiene al giro d'orizzonte dei sentimenti di ciascuno non offre confidenza alle interferenze di esotismi non richiesti. Poi capita, talvolta, che il mondo ti entri in casa e (sempre preferiti alla verdiana "scuola dell'effetto") - per inciso: l'interferenza di modello comico e modello melodrammatico spiega molto di quel che si è soliti chiamare umorismo nieviano. Il discorso politico riserva qualche sorpresa: se è scontata la vena pole-mico-patriottica, che punta il dito (censura permettendo) contro le irrazionalità dell'ancien régime austriacante non meno deciso è l'attacco all'egoismo gretto della borghesia e-mergente, a nuovi avari e speculatori d'ogni sorta. L'indignazione scaturisce da nostalgia per i valori della tradizione umanistica, non certo da un'analisi consapevolmente "di sinistra" della nuova realtà economica (la coerenza ideologica dello scrittore friulano è spesso labile; il valore "progressivo" di testi come il cosiddetto Frammento sulla rivoluzione nazionale è stato spesso sopravvalutato). In questo, Nievo è "letterato" (e anche un po' proprietario terriero); paga il suo tributo a una mentalità attardata, che per altri versi ripudia con decisione. Questa di Sellerio, egregiamente allestita, introdotta e annotata da Ugo M. Olivieri (che insiste sulla "pluralità tonale e stilistica" favorita dal "gioco pseudonimico"), è purtroppo un'edizione parziale degli scritti giornalistici di Nievo; la cui importanza è però assicurata dal fatto che raccoglie per la prima volta i pezzi non compresi nel secondo volume dell'antologia nieviana curata da Folco Cortinari per Mursia nel 1967. Integrando le due raccolte, insomma, quasi tutto Nievo è finalmente a disposizione dei lettori; che non potranno fare a meno di stupirsi, ancora una volta, del versatile attivismo di uno scrittore morto a trentanni: dopo essere stato adolescente innamorato è grafomane, ventenne ironico fustigatore dell'amor romantico, grande romanziere (Le Confessioni), gradevolissimo epistolografo, e ancora discreto novelliere rusticale, modesto autore di romanzi di genere, cattivo e prolifico poeta, saggista politico farraginoso, e frattanto patriota convinto e garibaldino impenitente; non da ultimo, brillante giornalista. di là di essi. È indubbio che di questo sortilegio siano titolari in molti: Apollo, "splendore eccessivo" che "contiene in sé tutta la profondità della tenebra"; il suo tragico parodista Nerone, anch'egli "sole tenebroso"; la cosmogonia gnostica, lacerata tra luce e tenebra; Iside, "brillante di atro splendore", vero nume dell'Occidente che dall'epifania dall'Asino d'oro di Apuleio si riaffaccia nel Flauto magico di Mozart; Agostino e la sua città terrena circonfusa di una "nebbia di luce"; l'Islam e la sua leggendaria montagna di Qàf, eden ai confini della terra rischiarato da una "luce azzurro-smeraldina"; il Dante trasumanante del Paradiso-, la civiltà az-teca, che scorse la propria fine nel bagliore sinistro di un prodigio; la mistica chassidica, alla ricerca delle scintille di splendore divino imbrattato e ottenebrato dalle cose di quaggiù; Shahrazàd che sul limitare tra l'oscurità e il chiarore dell'al- lista Giovanni che divora i libri profetici per meglio assimilarli, è ancora lui che si incanta di fronte ad Allah creatore del calamo con cui scrivere il mondo (perché "tutto esiste per essere raccontato"); è lui che, novello Hàrun al-Rashld, si traveste da ' 'spirito che ascolta" per tutto sentire, o che, come l'imperatore della Cina, l'azteco Montezuma o il regale Inca, costruisce, lontano dal mondo, un mondo in miniatura che splende più del vero. Una presa mimetica che felicemente si allenta nei capitoli migliori, per esempio sulla gnosi di Valentino, narrata "senza alone, né eco e ricchezza", e su Leopardi poeta dell'/nfinito, dove il pensiero resiste all'eccessiva frollatura operata dalle immagini. Del resto è risaputo: il miele di qualità non deve coprire il sentore del nettare, bensì conservare l'amaro del castagno, il profumo dell'acacia, l'aroma del timo e della maggiorana. ti sorprenda nudo e senza difese, e se vuoi sopravvivere devi accettare il destino della collettività, renderti conto che ormai fai parte, volente o dissenziente, di un variopinto e caotico villaggio globale. Camon, con questo rapido romanzo che inaugura il "Ciclo dei Primi", tenta la carta del divertisse-ment, della parodia esistenziale legata, più che alla realtà dei fatti, alla giocosa mitizzazione dei nuovi orizzonti umani che stanno sconvolgendo la paciosa provincialità di troppi presuntuosi occidentali finora integrati soprattutto in se stessi. Siamo in fase di assestamento, accampati alla meglio in zone di rifugio provvisorie, in attesa di una collocazione sociale definita: il mondo è una passerella di etnie che cercano radici nuove in ambienti meno ostili, e questa è forse la generazione maggiormente destinata a vivere i conflitti e i contrasti delle diversità razziali. Ciò che preme a Camon è di farci intendere come ci si dovrà adeguare alla convivenza coi sorrisi stranieri, e sembra sottolinearlo soprattutto per evitare taumaturgicamente le possibili deflagrazioni razziste che covano sotto la cenere dell'abitudine. In una provincia radicata ai propri atavici costumi com'è, ad esempio, quella del Nord-Est industrioso, è difficile accettare che una figlia si fidanzi ufficialmente con un cinesino d'importazione, o che una torpida nigeriana buddhista e una filippina in esilio si occupino a turno dei malanni senili di tuo suocero; così come la gente diffida degli oscuri traffici di certi maghrebini e li accoltella, col plauso popolare a fargli da scusante. È un universo in fermento, quello che attraversa il giornalista di provincia Giovanni Della Valle, inviato di cronaca di una testata locale, ma ciò che un tempo costituiva il fattaccio isolato, ora va analizzato in termini globali, poiché la sonnacchiosa provincia ha assunto le dimensioni dell'intera umanità. Si sente a disagio, Giovanni, ma riesce a districarsi con disincanto da novizio nelle curiose avventure che lo coinvolgono in prima persona, sorridendo a denti stretti al fidanzamento cinese della figlia quindicenne (con tanto di gigantografie di defunti invitati alla cerimonia), accettando di buon grado le interferenze esotiche ed esoteriche al capezzale del suocero (tanto, chi se ne occuperebbe?), e trovando, nel dialogo d'addio con l'amante di un decennio Clodìn, una giustificazione a cambiare abito, a rinnovarsi dentro, quasi in vista di un repentino mutamento sociale. Se non altro, lui si predispone spiritualmente all'evento. Ciò che resta, delle radici di ciascuno di noi, è nel conflitto d'anime erranti che - come quella del surreale taxista che di notte tornava a casa, da Milano al Veneto, uscendo dal suo corpo d'emigrato per riabbracciare i parenti - si adeguano a una vita di spostamenti d'orizzonte perdendo qualcosa di sé, ma preparando un terreno di quiete sociale -almeno si spera - per le nuove generazioni. Col sorriso sulla penna, Camon riesce a creare un significativo teatrino di fine millennio, sfiorando a tratti l'apologo, sbeffeggiando la falsa morale di certe ipocrisie borghesi di vecchia data - meglio morti che divorziati! -, creando soprattutto i presupposti per un nuovo, personale discorso narrativo, partito dalle zone dei campi veneti per approdare, felicemente, alla prospettiva d'i un dialogo aperto tra culture diverse, al di là degli attuali inevitabili conflitti da neoconviventi.