Dt cte,L T^/Xe-òe-Mai dire ma suggerire di Fernando Bandini FEBBRAIO 1997 Giovanni Giudici, Empie stelle, Garzanti, Milano 1996, pp. 118, Ut 32.000. Il titolo di un libro di versi è spesso suggerito all'autore da una scheggia dispersa del testo, non fornita in sé di particolare rilievo, anche se l'operazione la carica di senso. Nascono così i titoli sereniani Gli strumenti umani o Stella variabile e così avviene quasi sempre in Giudici. Empie stelle è un sintagma che appartiene alla poesia Alexàmenos, l'ultima della sezione Addizioni a Creùsa. Si suole dire (e usa questa etichetta la recente antologia Poeti italiani del secondo Novecento) che la poesia di Giudici è "vita in versi". Ma talvolta per sintetizzare il giudizio sui poeti ci si attarda su immagini tradite e scontate degli autori, con una non sufficiente attenzione ai loro più complessi percorsi. In una poesia come Alexàmenos (e in gran parte della poesia di Giudici di questi ultimi anni) la "vita" intesa come autobiografia c'è ancora, ma ormai assunta in una sorta di luce purgatoriale. Vicende e uomini vengono contemplati religiosamente quasi sub specie aeternitatis e, non bastasse l'atmosfera che avvolge le poesie di Giudici, potrebbero offrire lampanti indizi di questo mutamento i dantismi che ormai corredano il suo dettato. La persona che regge l'affabulazione poetica, e che sempre più si espande, è ora il tu (o il lei del rispetto borghese): è il colloquio coi morti famigliari, con figure di un passato fioco per lungo silenzio, oppure con personaggi senza nome (ma non per questo meno riconoscibili nei loro precisi caratteri storici) usciti dal naufragio delle grandi fedi che caratterizza questo scorcio di secolo. In Alexàmenos lo spunto è fornito da un'antica iscrizione romana, ritrovata nel Paedagogium palatino, che sotto il graffito di un asino crocefisso reca la scritta (in greco) "Alexàmenos venera il suo dio". Quanti hanno affrontato contrasti e sofferenze, subito persecuzioni e carcere, senza gloria perché la storia si è diretta altrove, vedendo misconosciuta e frustrata la loro fede? Degli intrecciatissimi riferimenti che tramano questa poesia Giudici, impietoso come tutti i poeti d'oggi, fornisce minime labilissime notizie. C'informa che il romanzo che viene nominato in quei versi è Buio a mezzogiorno di Koestler, e questo ci aiuta a capire cosa sia l'"alfabeto di prigione" nominato nella prima strofa: è l'alfabeto morse usato nel carcere dall'ufficiale controrivolu-• zionario dei bianchi per comunicare, ticchettando sulla parete, col bolscevico caduto in disgrazia della cella accanto. Tutto questo è metafora d'una storia pubblica, più che storia personale. Giudici oggi non cerca più di estrarre qualche deduzione gnomica, usufruibile come verità civile, dalle proprie vicende private. Quando questo avveniva, nella sua precedente produzione, il discorso era mortificato, con sapiente strategia, dalla straziante quotidianità degli oggetti. Anche oggi il discorso viene in un certo senso mortificato, non c'è mai retorica o cedimento alla tentazione di toni spiegati, ma la voce che appare così esteriormente dimessa scava in profondità, è la voce di una pietas aperta su un vasto orizzonte del tempo e che da questo si sgancia per rientrare in una privatezza che più non pretende di sottolineare una propria sociale tipicità. "Empie stelle" è un'espressione che rovescia quella di uso comune "esser nato sotto una buona stella", fa riferimento a un eone avverso, a un secolo che ha marciato in senso opposto alle attese della mente (o del cuore). Ed è giusto ripetere che - malgrado tutte le cose scontate che su di essa talvolta si scrivono - la poesia di Giudici è una poesia difficile, e tanto più difficile quanto più essa sembra aggregarsi attorno a nuclei di linguaggio prosastico. Non è soltanto difficile il poeta di Salutz, rapito nei baleni di una centrale metafora trobadorica, alla quale egli confida le sorti del suo arduo canzoniere amoroso. Lo è anche il poeta del Ristorante dei morti e di Lume dei tuoi misteri. In Salutz la lingua poetica realizzava un proprio trobar clus che ambiva, da una parte, a muoversi all'ombra del modello illustre che faceva da sfondo all'operazione, e dall'altra a esprimere l'assoluto di un rapporto amoroso, talmente alto e acuto da configurarsi come una sorta di cella murata: uno dei più alti momenti della poesia italiana dei nostri anni. Ma sbaglierebbe chi pensasse a quella lingua alta e illustre (dove i materiali non sola della tradizione trobadorica ma del più eletto pertrarchismo del passato sono rivissuti senza alcuna inten- zione di deformante ironia) come a un episodio eccezionale nello sviluppo della poesia giudiciana. È che in Salutz alcuni fenomeni della lingua poetica di Giudici appaiono fortemente concentrati, allo stato puro, mentre prima (e poi) quegli stessi fenomeni si presentano in forma aggregata, in combinazione con altri elementi. Tra questi fenomeni - senza in- dugiare in campioni che sarebbero molto copiosi - ne cito soprattutto due. Innanzitutto lo spostamento della parola dalla normale nozione d'uso, non attraverso il consueto procedimento metaforico, né tanto meno coi modi della scrittura automatica cui tanto indulge una parte della giovane poesia d'oggi, ma con un ricorso all'analogia che si offre alla complicità intelligente del lettore. La decifrazione dell'esatto valore semantico di quella parola sarà possibile solo quando tutto il testo sia stato consumato, perché quel valore non si affida agli eventi micrologici del testo (situazioni di contiguità, l'ambito di uno o due versi), ma alla sua completa affabulazione. Il secondo fenomeno che qui segnaliamo è la sintassi, che quanto più il lessico viene desunto dalle zone del quotidiano e del parlato, tanto più s'impenna e si organizza in complesse volute, di antica letterarietà. Si ag- giunga che Giudici nel corso degli anni ha sempre più ridotto la punteggiatura nei suoi testi, se si escludano le lineette che segnalano pause più scandite, vere e proprie fratture del discorso, e che oggi nelle sue poesie la punteggiatura è del tutto scomparsa. Cosicché assistiamo al caso singolarissimo di un poeta che pensa a una poesia fatta di cose e di inquiete verità, lonta- nissimo da ogni idea di orfismo e da ogni rischiosa incongruenza sperimentale, ma che tuttavia scoraggia più di una volta i suoi lettori. Certo, un discorso come quello che noi qui facciamo può scandalizzare, come corrivamente empirico, chi della poesia (e della critica) abbia una concezione talmente eletta da vergognarsi di tentare spiegazioni o parafrasi. Ma Giudici è un grande poeta, e la grandezza richiede di essere misurata e descritta, non può basarsi soltanto su qualche oscura forma di rispetto e di venerazione. Questo vale per lui, naturalmente, e per ogni importante poeta dei nostri anni. Anche la poesia di Zanzotto può essere spiegata con strumenti diversi da quelli usati da alcuni suoi strenui critici lucubranti, basta solo che il critico non pretenda di competere col poeta come chi riproducesse tra sé un alto pezzo di musica cc\> Tu N. 2, PAG. 6 orchestrale fischiettandolo. L'assenza di punteggiatura in Giudici è tanto più singolare perché, com'è noto ai suoi amici e conoscitori, lui è un "fine dicitore" dei suoi versi. Quand'egli si legge, la punteggiatura riappare come pausa, intonazione, perentorietà della voce. La voce (cioè il corpo) esplicita la sostanza sentimentale sottesa nella lingua. C'è quindi una forte divaricazione tra corpo e scrittura, ma non tanto forte che non possa essere colmata dal semplice evento del poeta che legge se stesso, cosa che non potrebbe succedere così semplicemente con altri poeti. Il lavoro faticoso che il poeta affida, attraverso la propria scrittura, al lettore, è parte di una strategia profonda che si rifiuta a donarsi del tutto disarmato, richiede a quel lettore una vivace partecipazione spirituale, cioè fatica, secondo la nota teoria leopardiana degli ardiri. C'è tuttavia alla base di questo atteggiamento anche qualcos'altro: l'impossibilità di affrontare in modo diretto i grandi temi del nostro tempo, alla maniera della poesia ottocentesca (penso soprattutto alla grande poesia dei romantici tedeschi), dire cioè fin dall'inizio, e in modo netto e chiaro, di cosa si tratta. Il mediatore di questa possibilità nella grande poesia dell'Ottocento romantico era il classicismo piegato alle nuove sensibilità del mondo moderno (Goethe, Hòlderlin), classicismo che costituiva un fondo resistente - uno zoccolo duro - di modi linguistici per dire se stessi esorcizzando contemporaneamente il caos della psiche e quello circostante della storia. Giudici per questo rimane e rimarrà un episodio di grande rilevanza in questo scorcio del secolo: perché ha dovuto inventarsi le sue rocche in un tempo in cui si passava dal discorso negativo di Montale (impassibile in alcune sue fasi come un bollettino meteorologico) al tentativo di altri poeti di rispecchiare 0 disordine del mondo in termini di mero disordine linguistico. Il movimento della poesia di Giudici non ha potuto essere che quello del gambero che cammina di traverso. Mai "dire", quindi, in maniera esplicita, ma "suggerire" la cosa alla nostra confusa angoscia con immagini che possono risultare opache, malgrado le subdole cadenze del canto. Questo, per la sua poesia, comportava il rischio di un certo manierismo linguistico, fatto di tic letteratissimi, di canoni ricchi di scontata unzione, ma a Giudici tutto questo era indispensabile. Tra quanti hanno invocato No-venta come loro maestro (Fortini & company) lui è il più corazzato, perché ha capito che le idee di No-venta potevano essere portate avanti non come clamorosa, protestataria pronuncia (magari attraverso l'alternativa del dialetto) ma nei modi gesuitici, sottili, che gli derivano dalla consapevolezza delle deboli armi che oggi il poeta possiede contro la malizia del mondo. Sono i modi per resistere a un'idea della modernità basata su un'eccessiva fiducia nelle poetiche, così affermando una propria legittima, meno provvisoria appartenenza alla modernità. Empie stelle è in un certo senso un libro riassuntivo della musa giudiciana. Il poeta dispone le sue poesie secondo un disegno fornito di una sua coerenza contestuale, ►