SETTEMBRE 1997 iscusso in vita e dopo la morte. A più di dieci anni dalla scomparsa, nell'agosto del 1986, Goffredo Parise continua a dividere la critica letteraria in due fronti: da un lato c'è chi ritiene che sia ingiusto dare in pasto al pubblico ciò che un autore, per motivi personali, aveva deciso di riservare alla sfera privata; dall'altra c'è chi sostiene che l'uscita postuma dell'ultimo Parise costituisca l'irrinunciabile epilogo di una straordinaria testimonianza di uomo e di scrittore. A questo secondo schieramento appartiene Mario Fortunato, giornalista dell'"Espresso", che parla di un romanzo "fatto e finito, ipnoticamente sconvolgente, non uno di quei soliti scartafacci postumi, densi di note e postille, che hanno il più delle volte valore filologico, ma non squisitamente letterario o artistico. Non è un'opera incompiuta e lacunosa, utile alla comunità degli studiosi, ma non necessaria ai bisogni del comune lettore di narrativa". Un altro inedito La piccola casa editrice di Pistoia Via del Vento ha pubblicato, a cura di Silvio Perrella, un altro inedito di Parise: Borghesia e altre voci escluse dai Sillabari. (pp. 29, Lit 5.000). Si tratta di tre voci apparse sul "Corriere della Sera" tra il 1971 e il 1978 ma mai pubblicate in volume. Rizzoli ha invece iniziato una nuova edizione di tutte le opere di Parise. Sono già usciti II ragazzo morto e le comete (pp. 200, Lit 18.000) e La grande vacanza (pp. 180, Lit 18.000). Della stessa opinione Ernesto Ferrerò, collaboratore di "Tuttoli-bri", che non sa quali fossero le reali intenzioni di Parise a proposito de L'odore del sangue, ma lo ritiene degno di pubblicazione "così com'è, nelle sue ripetizioni, nell'ossessivo ritorno musicale dei suoi temi". Ferrerò giudica il romanzo degno del miglior Parise: "Le sue pagine hanno la rapidità, la leggerezza, la perentorietà struggente dei Sillabari" e "sullo sfondo, l'estro di Stendhal". Ma Angelo Guglielmi nella sua rubrica sull'"Espresso", stronca con decisione L'odore del sangue-, "Si tratta di un romanzo di stampo moraviano, afflitto dalla pesantezza dimostrativo-linguistica che in genere opacizza i romanzi di Moravia". L'ex direttore di Raitre è seve- N. 8, PAG. 7 re capacità di rendere reali le vicende erotiche del romanzo, di dare vita a personaggi e descrizioni maggiormente credibili per il lettore, pur sfruttando un tema - la signora borghese di mezza età attratta e soggiogata da un ventenne violento e picchiatore, ottuso e neofascita -già ampiamente visto e letto, in tanta letteratura occidentale. La conclusione è perfettamente arbasinia-na: "Le nuove generazioni di picchiatori d'ogni colore che vivono coi genitori hanno un solo scopo nella politica: trovare una signora che poi gli prepara la cuccia e riempie il frigorifero". Questo è ciò che Parise ha capito. Di diverso parere, Raffaele La Capria sul "Corriere della Séra". Il tema del romanzo non è centrato sul solito erotismo moraviano: "Le pagine di questo libro sono il resoconto minuzioso ed ossessivo sulla gelosia, un resoconto scritto con crudele e maniacale abilità". Inoltre, "questa trama, anzi questo supporto, chiaramente autobiografico, (...) non ha l'andamento di una normale storia di coppie contrapposte con relativi inganni, sotterfugi e tradimenti, ma si sente subito che ha un tono tragico ed un presagio di morte". Secondo La Capria, L'odore del sangue è un libro nel quale Parise, sapendo che non l'avrebbe pubblicato, poteva svelare tutto di sé, dove poteva "portare a galla tutte le rimozioni depositate nel fondo del suo animo". Nel lungo articolo non si giudica la scelta editoriale di pubblicare il romanzo postumo, ma si rileva comunque il valore di un'opera che "come ogni vero romanzo, inventa non solo il proprio linguaggio e la propria (funebre) liturgia, ma anche le voci di un suo vocabolario, dove parole molto comuni assumono, immesse in un contesto del tutto nuovo, valenze e significati del tutto nuovi". Alberto Arbasino, Goffredo Parise anima e sesso, "La Repubblica", 27 giugno 1997. Ernesto Ferrerò, Il colera di Parise, "Tuttolibri" di "La Stampa", 12 giugno 1997. Mario Fortunato, L'invidia del sesso perduto. Colloquio con Cesare Garboli, "L'Espresso", 12 giugno 1997. Angelo Guglielmi, Parise, meglio nel cassetto, "L'Espresso", 3 luglio 1997. Raffaele La Capria, Vedi alla voce gelosia, "Corriere della Sera", 15 giugno 1997. L'INDICE ■■dei libri del mese|b Buono, cattivo, ottimo, pessimo di Roberto Gritella quello che già sapeva e la cui novità, se ce ne è una, è che gli viene offerto in versione 'hard'". Alleato di Angelo Guglielmi pare Alberto Arbasino, che sulle colonne di "Repubblica" parla di un romanzo incentrato su un tema che "parrebbe soffocante ed inerte come negli ultimi romanzi clonati di Moravia: dove tutta una lunga esperienza di cultura ed impegno inter- nazionale sembra immiserita nel tormentone se la parrucchiera la dà o non la dà al ragioniere o all'ingegnere". Arbasino però assolve Parise dalla maledizione della letteratura italiana: la noia. Una noia dettata dalla "difficoltà ad uscire dall'autobiografia, dall'appartamento, dall'infanzia, dalla famiglia": lo scrittore vicentino ne sembrerebbe escluso in quanto dotato di una maggio- ro con la pittrice Giosetta Fioroni, compagna di vita di Parise, e con Cesare Garboli, che ha suggerito la pubblicazione a Rizzoli: "Credo che si sia fatto un torto a Parise rendendo pubblico un libro che aveva deciso di tenere per uso privato". Il lettore non scopre nell'ultimo scritto di Parise nulla di nuovo su se stesso e sui suoi sentimenti: "Nel caso di Parise, il lettore impara Iirandagio tra i calcinacci di Alberto Papuzzi |7 ra gli scrittori che si sono misurati con l'esperienza del corrispondente di guerra, Goffredo Parise occupa sicuramente un posto a parte, nel senso che sottopone una scrittura per natura e per educazione sobria a un'ulteriore raffreddamento, a uno sforzo di umiltà, per evitare che, di fronte alla straziante e alienante dimensione della guerra, essa non prevarichi sui doveri elementari del cronista. Se rileggiamo le corrispondenze dello scrittore veneto, soprattutto quelle dal Vietnam e dal Laos, dove andò, la prima volta, nel 1966 per "L'Espresso", ci accorgiamo di come il suo stile si collochi agli antipodi rispetto a quello di Oriana Fallaci, esube- rante e cinematografico, ma "sia lontano anche dalla retorica elegante di Luigi Barzini o di Indro Montanelli. D'altronde Parise teorizzò la necessità di una scrittura delicata: ''Scrivere con parole molto semplici ed elementari; essere sinceri; scrivere quando si ama non soltanto le cose che si scrivono ma, soprattutto, coloro che le leggeranno; non usare mai paroloni" (Claudio Altarocca, Parise, La Nuova Italia, 1972). Di fronte al macello voleva essere un cronista scrupoloso e cercava parole adatte a questa rigorosa funzione. Ma cos'era un cronista per lui? Trovo l'immagine più efficace nella relazione di uno studente (Luigi Soriga) a un seminario uni- versitario sul giornalismo di guerra: "Una specie di randagio che rovista famelico tra i calcinacci della storia". Quando è in Vietnam, Parise parla di se stesso soltanto se è necessario. Non è mai un eroe, sebbene marci con i.soldati americani, raggiunga i campi avanzati, vada in perlustrazione con le pattuglie, corra i rischi della guerra. Ma come se fosse normale routine. Non parla neppure dei nemici, i VC (contrazione di vietcong), fantasmi, echi, proiezioni, come li vedrà anche il grande Stanley Kubrick in Full Metal Jacket. Parla invece di uomini, donne, bambini, paesaggi, come se fossero le fragili cavie di un laboratorio della vita. "Ho pensato - scrive in un reportage che si può rileggere in Guerre politiche (Einaudi, 1976) -che questa guerra si presenta non soltanto come lo scontro violento e sanguinoso tra due ideologie ma soprattutto, nei dettagli, tra due tipi di uomini: l'uomo naturale (vietnamita) e l'uomo artificiale (americano). Tale scontro produce spesso strani fenomeni, incroci che hanno qualcosa al tempo stesso di biologico e di industriale". Nelle stesse pagine dichiarava apertamente di avere giudicato, e di continuare a giudicare, "profondamente ingiusta" la guerra condotta dagli Usa in Vietnam. Ma confessava anche che non gliene importava più nulla di parole come impegno e disimpegno. Quello che aveva chiamato impegno era coinvolgere il lettore nella sorte di ragazzi mandati a fare la guerra a quindici o sedici anni. A questo impegno aveva dedicato una scrittura nitida ed elementare, di filmica documentazione: "Mi avvicino ai morti che nessuno guarda. Possono avere quindici o sedici anni. Il corpi sono lacerati da ferite profonde, uno che sembra il più giovane ha il cranio spaccato. I ciuffetti sono impastati di sangue". Più avanti: "Ne trovo altri due tra bende che si agitano e si impigliano nei cespugli. Le loro mani contratte sono la metà delle mie. Guardo la stoffa delle divise cachi, una povera stoffa, la penna stilografica, loro massimo avere ora totalmente, definitivamente perduto, le nuche da uccellini rasate alla vigilia dell'attacco. Uno di essi, come certi scolari poveri di campagna, ha disegnato sul polso con l'inchiostro un orologio con le ore, le lancette e il cinturino".