N.6 10 Un'esemplare biografia Nuovi ordini di cose di Luciano Guerci Sublime senza fatica, profondo senza oscurità di Dino Carpanetto Carlo Capra I PROGRESSI DELLA RAGIONE Vita di Pietro Verri pp. 613, €37, il Mulino, Bologna 2002 avvero viviamo in tempi bui. Tempi nei quali il comune senso del pudore storiografico sta andando, o è ormai andato, a quel paese come obsoleta bacchettoneria di bigotti e fastidiosi sacerdoti di Clio. Le regole dell'arte sono oggi allegramente ignorate, vilipese, disprezzate: è l'esatto contrario di ciò che accade nella splendida biografia scritta da Carlo Capra, dove quelle regole sono rigorosamente osservate e messe a frutto con ammirevole perizia. Su Pietro Verri, figura importante dell'Illuminismo italiano (e non soltanto italiano), si sono venuti accumulando (dopo la biografia di Nino Valeri e le essenziali pagine di Franco Venturi) saggi, libri, convegni, e dello stesso Verri si sono pubblicati testi tratti dall'enorme quantità di materiali inediti che ci ha lasciato (vedi recensione a fianco). Capra, che in questo fervore di ricerche ha avuto un molo di primo piano, non si colloca tra gli spensierati e insieme sussiegosi adepti del postmodernismo che, quando i documenti scarseggiano, si abbandonano a salti di gioia perché possono dispiegare la loro impareggiabile genialità di iperinterpreti. I copiosi documenti che aveva a disposizione (ma i documenti bisogna anche cercarli, ed egli lo ha fatto con tenacia e pazienza), Capra li ha considerati non un impaccio a divagazioni ermeneutiche, ma un tesoro cui attingere con oculato criterio. All'ampiezza documentaria si accompagna il rispetto del documento, il che significa vigile attenzione a evitare forzature e arbitrii in sede interpretativa, nonché rifiuto di quella "voglia di sistemizzare" da cui invitava a guardarsi Alessandro Verri in un passo che si legge nella prefazione e che tutti dovrebbero imparare a memoria. Ancora: "per non separare l'autore dalla sua opera" Capra si è attenuto (con mia profonda soddisfazione, ma certo con scandalizzato orrore degli impavidi campioni dell'"anacronismo creativo") all'ordine cronologico. Vogliamo dare un nome alla somma delle caratteristiche di questo volume? Propongo "positivismo". Sono convinto che il positivismo nella versione di Capra vada valorizzato con fermezza e caldà-mente raccomandato sia a chi procede errabondo al di qua del métier d'historien sia a chi tale métier s'illude di aver superato o oltrepassato. Capra, come egli stesso ci dice, è stato affascinato soprat- tutto dall'uomo, ma - aggiungo 10 - nella sua narrazione si intrecciano sapientemente piani diversi. Orgoglioso, indipendente, ansioso di primeggiare, teso a raffigurarsi come virtuoso e disinteressato, incline ad amareggiarsi e risentirsi quando pensava che le sue qualità non ottenessero adeguati riconoscimenti: questo il Verri che Capra ci presenta senza cedere a tentazioni apologetiche (pur nell'indubbia simpatia per 11 personaggio), e non senza evidenziare sfaccettature e contraddizioni. Non manca la vita privata, e se talvolta c'è forse qualche dettaglio di troppo, Capra non indulge a una petite histoire che, riguardo al Settecento, sembra tornare di moda. atti privati, ma connessi con problemi dalle molteplici implicazioni di cui si discuteva in tutta Europa, furono il matrimonio con la nipote Maria Ca-stiglioni e l'educazione della figlia Teresa. Capra individua acutamente nel cosiddetto Manoscritto per Teresa "una tensione irrisolta tra utopia e realtà", tra istanze innovatrici sollecitate dalla ragione e adattamento alle convenzioni cui era inevitabile che le donne si sottomettessero; ed è osservazione esatta quella secondo la quale "è e rimarrà estranea all'orizzonte mentale del Verri, come d'altronde di Rousseau, ogni idea di parità tra i sessi e di emancipazione femminile". A me pare, tuttavia, che non sarebbe stato inutile soffermarsi su taluni aspetti del dibattito che si svolgeva, negli anni settantaottanta, intorno alla famiglia e alla donna. Lo stesso atteggiamento di Verri ne sarebbe stato meglio caratterizzato. Quando Verri permetteva alla figlia di leggere romanzi (a patto che fossero accuratamente selezionati), egli volgeva le spalle ai molti, anzi moltissimi, secondo i quali la lettura dei romanzi non poteva che avere effetti perniciosi sulle donne, facilmente impressionabili e pronte a crearsi un mondo fittizio che le distoglieva dai doveri domestici; quando invece esortava Teresa a comportarsi da "eroina" - cioè a sopportare con rassegnazione - in caso di infedeltà del marito, egli si allineava alle posizioni più conservatrici, che erano anche quelle maggiormente diffuse. La decisione, poi, di eliminare le fasce e di optare per l'allattamento materno era l'applicazione di precetti instancabilmente ripetuti - pur con modesti successi a breve scadenza -in una sterminata letteratura a sua volta espressione di un'impetuosa ondata igienista. Anche altrove. sarebbe stata desiderabile una prospettiva più larga, magari sacrificando qualche ci- Pietro Verri MEMORIE a cura di Enrica Agnesi, pp. 272, €25,82, Mucchi, Modena 2001 Pietro Verri DISCORSO SULL'INDOLE DEL PIACERE E DEL DOLORE a cura di Silvia Contarmi, pp. 170, € 10,85, Carocci, Roma 2001 1 ritorno di interesse per la vita e l'opera di Pietro Verri ha tratto impulso dalla donazione dell'archivio di famiglia fatta nel 1981 da Luisa Sormani Andreani Verri alla Fondazione Raffaele Mattioli per la storia del pensiero economico, a cui è seguito il riordino dei documenti. La parte intitolata "Raccolta Verriana" riunisce i manoscritti definibili come "letterari" o "di biblioteca", per distinguerli da quelli più propriamente "d'archivio". Si tratta di carte personali redatte dal senatore Gabriele Verri, dal fratello, monsignor Antonio, e dai figli Pietro e Alessandro. Quella di Pietro Verri costituisce una sezione singolare non solo per la rie delle opere pubblicate, progettate o abbozzate. Resta l'attesa per un'edizione nazionale degli scritti che restituisca, tra l'altro, in una trascrizione filologicamente corretta, il carteggio con il fratello Alessandro, sicuramente il fondo epistolare di maggiore interesse nella cultura italiana del secolo dei Lumi. Enrica Agnesi ha messo mano alle carte ver-riane per estrarne una serie di scritti, mossa non tanto dalla ricerca dell'inedito, quanto da un più organico disegno di selezione che desse conto del gusto memorialistico di Verri, tante volte spinto a fissare annotazioni prese a caldo, a registrare giudizi, a schizzare atmosfere di ambienti e ritratti di uomini, da depositare sul foglio prima di tornarvi, eventualmente, per pacate riflessioni meno distorte dall'impulso del momento. Ne è derivata una silloge di testi autobiografici, la più parte già pubblicati sparsamente, che attengono al periodo incluso tra il 1771 e il 1789 e a svariati temi di interesse personale e politico. Inedita è l'edizione integrale del codice manoscritto intitolato Memorie sincere del modo col quale servii nel militare e dei miei primi progressi nel servigio politico, frutto della sistemazione fatta nel 1784 di lettere scritte allo zio Primecerio Antonio, in cui scorrono vent'anni decisivi. Verri ritorna alla sua avventura militare nella guerra dei Sette anni, momento di passaggio verso l'impegno amministrativo nella Mi- chezza del contenuto, specchio fedele di una personalità di non comune ingegno, ma anche lano di Maria Teresa, e racconta eloquentemen-per la mole della documentazione conservata, te dell'Accademia dei Pugni, fucina dell'Ululili che offre testimonianza della multiforme e diu- nismo lombardo, turna laboriosità profusa dall'illuminista milanese, così come dei suoi rapporti epistolari e (Mia ragione tazione e qualche notizia non strettamente necessaria. Mi limito a ricordare che se nelle Meditazioni sulla economia politica (1771) Verri si dichiarava favorevole all'addensarsi della popolazione nelle città, un cospicuo filone (nel quale spicca Rousseau) denunciava i guasti inerenti alle città-formicai. Sarebbe però ingeneroso insistere su ciò che manca, o è rapidamente accennato, in un libro che tanto contribuisce ad arricchire e rinnovare le nostre conoscenze su un personaggio che ci viene rivelato nella sua tormentata umanità, nella sua ultraventennale carriera di funzionario, nella sua multiforme produzione di scrittore. Capra ricostruisce meticolosamente, ma non prolissamente né aridamente, l'attività riformatrice di Verri, segnata da periodi di alacre e persino massacrante impegno e periodi di disillusa stanchezza. Periodi, questi ultimi, in cui affioravano tratti di misantropia, ma che stimolavano anche una più riposata riflessione su temi economici, morali, storici, come testimoniano opere notevoli della cui genesi e del cui itinerario compositivo veniamo puntualmente informati. Tenace, ad onta di dubbi e ripiegamenti, l'illuministica fiducia nei "progressi della ragione", che ebbe uno dei suoi momenti forti nell'esperienza del- ■•Bwàim-' ili 'Iridi e ii> SirU l'Accademia dei Pugni e del "Caffè", esperienza a proposito della quale Capra fornisce precisazioni attingendo agli inediti, ma di cui non si occupa analiticamente - e a mio parere è un approccio condivisibile -perché altri - specialmente Gianni Francioni e il compianto Sergio Romagnoli - l'hanno esaminata con esemplare strumentazione erudita ed eccellenti risultati. Un solo motivo di dissenso: è da respingere la categoria di "preromanticismo" alla quale talvolta Capra ricorre richiamandosi a Fubini, Binni e Bonora. Ancorché accreditata da illustri studiosi e tuttora impiegata nell'ambito della storia letteraria, quella categoria attiene a un'indebita ottica teleologica che del resto entra in conflitto con l'immagine dei lumi quale si può ricavare dall'intero libro. i particolare interesse sono gli ultimi due capitoli dedicati all'adesione di Verri alla Rivoluzione francese. Non era affatto una scelta scontata, tanto più che avvenne in una fase di rifugio nel privato dopo che Giuseppe II aveva inaugurato la stagione del radicalismo innovatore mettendo da parte il nostro orgoglioso personaggio. Né bisogna dimenticare che dinanzi agli sconvolgimenti d'Oltralpe il comportamento dei philosophes italiani fu assai differenziato. Sebbene i giudizi verriani subissero mutamenti col mutare delle circostanze, es- si non giunsero mai al ripudio della Rivoluzione, considerata, anzi, il frutto dei "progressi della ragione". Tale espressione, già usata in opere precedenti, s'incontra più volte in quello straordinario documento che è il catechismo politico composto tra il 1791 e il 1792 e pubblicato qualche anno fa da Gennaro Barbarisi. Certo i massacri di settembre e il Terrore suscitarono la condanna del philosophe milanese: il quale, peraltro, in una lettera al fratello Alessandro di poco successiva al 9 termidoro, non esitò a giustificare la dittatura giacobina, resa indispensabile da una gravissima situazione di emergenza. E una testimonianza preziosa che Capra ha il merito di aver portato alla luce. Nel 1796 Verri ricoprì cariche, schierandosi su posizioni moderate, all'interno del "nuovo ordine di cose" introdotto in Lombardia dai francesi. Ed egli tenne a rivendicare la coerenza mantenuta per tutta la vita nel segno del repubblicanesimo ("la mia anima è sempre stata repubblicana"). Ma fu davvero così? E in che cosa consistette, nei decenni anteriori alla Rivoluzione, il repubblicanesimo di Verri, se repubblicanesimo ci fu? Bastano quel fermento di libertà, quel sentimento d'indipendenza che molti hanno notato e che anche Capra nota? Il problema rimane aperto, benché numerosi siano gli spunti che ci vengono forniti per ulteriori indagini e considerazioni.