N. 6 11 Scrive tra l'altro parole chiarificatrici su come vide la luce 0 Dei delitti e delle pene, germogliato dalla persona del gruppo meno portata alla fatica della penna. Fugando ogni dubbio sulla paternità dell'opera e presentandola nel nesso tra autore e ambiente, Verri fornisce impareggiabili annotazioni. Ecco, a titolo di esempio, il gustoso racconto che fissa l'atto di nascita del capolavoro: "Il libro è del Marchese Beccaria, l'argomento glielo ho dato io, e la maggior parte de' pensieri è il risultato delle conversazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro, Lambertenghi e me. Nella nostra società la sera la passiamo nella stanza medesima ciascuno travagliando. Alessandro ha per le mani la Storia d'Italia, io i miei lavori economici politici, altri legge, Beccaria si annoiava e annoiava gli altri. Per disperazione mi chiese un tema, io gli suggerii questo conoscendo che per un uomo eloquente e di immagini vivacissime era adattato appunto (...) Cominciò Beccaria a scrivere su de' pezzi di carta staccati delle idee, lo secondammo con entusiasmo, lo fomentammo tanto che scrisse una gran folla di idee (...) ma è tanto laborioso per lui lo scrivere e gli costa tale sforzo che dopo un'ora cade e non può reggere. Ammassato che ebbe il materiale io lo scrissi e si diede un ordine e si formò un libro". a riflessione sull'opera di Pietro Verri è stimolata altresì dalla recente ristampa curata da Silvia Contarmi del Discorso sull'indole del piacere e del dolore, uscito la prima volta a Livorno nel 1773 e rielaborato nell'edizione milanese del 1781. Lo si può giudicare come l'espressione più matura della riflessione filosofica di Verri, da affiancare alle Meditazioni sulla felicità del 1763. E un testo di grande suggestione e che condensa ricerche lungamente perseguite in- torno a un dibattito cruciale nell'Illuminismo europeo, la cui eco si era avvertita già al tempo della giovinezza di Pietro. Nel gruppo del "Caffè" aveva avuto ampie ripercussioni. Definire l'origine e la natura del piacere e del dolore significava entrare nel vivo di una questione che trascinava con sé i problemi della morale, della politica, della religione, della storia, e che sfidava la ragione sul terreno più insidioso, quello della sensibilità e delle passioni, oscure forze che muovono l'animo umano. Si può considerare il Discorso di Verri un'ulteriore conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, di quanto gli illuministi fossero lontani da quella caricatura di freddi filosofi del calcolo razionale e di vacui cantori dell'ottimismo che è stata da taluni disegnata. Al contrario, appaiono furiosamente spinti a scandagliare il territorio dell'irrazionale, a costo di scoprirlo lastricato di passioni difficili da ammansire con i dettami della tranquilla ragione, e di sentimenti dolorosi solo parzialmente leniti da istanti di felicità. "Io però credo che il dolore è il principio motore dell'uomo", afferma lapidariamente Verri. Lungo il viaggio ai confini della razionalità gli illuministi si mostrarono pronti ad attingere chiavi interpretative e figure retoriche da un variegato orizzonte di cultura. A tale proposito Silvia Contarmi, nell'introduzione e nelle preziose note esplicative del testo, indica una pista di lettura che connette le teorie morali di Pietro Verri con le indagini fisiologiche della medicina del tempo. In appendice al libro è pubblicata una scelta di sette lettere che i fratelli si scambiarono in occasione della prima edizione. Nel passo di una lettera scritta da Alessandro a commento del manoscritto sottopostogli da Pietro, si legge un giudizio che può essere condiviso dal lettore di oggi: "Quello che più mi incanta è la natura dello stile, sublime senza fatica e profondo senza oscurità". Arte e vita di Lorenzo Lotto In odor di Riforma di Massimiliano Rossi Massimo Firpo ARTISTI, GIOIELLIERI, ERETICI Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma pp. 418, €29,95, Laterza, Roma-Bari 2001 na ricerca che racconta una sostanziale sconfitta (benché siano molte le acquisizioni) è prima di tutto garanzia di onestà intellettuale, ma anche consapevolezza di aver sollevato una questione capitale che resta irrisolta e, se forse irrisolvibile, merita ancora lo sforzo di congiunte competenze. Nel caso di Lorenzo Lotto, il riesame accuratissimo tanto della vicenda critica, insolito finanche per lo storico dell'arte, che della documentazione edita e inedita relativa a quegli ambiti veneti, così vicini all'artista, passati dagli anni trenta del Cinquecento con coraggio e determinazione alla Riforma, se coincide con la pars construens della ricognizione positiva dei dati, della ricomposizione affascinante del contesto in cui matura la stagione eretica del pittore, non riesce a funzionare come chiave ermeneutica dell'opera, rimasta muta 0 elusiva di fronte a questa moderna e partecipata inquisizione. Alla domanda iniziale "Quali sono i margini di libertà del linguaggio pittorico e dei suoi codici iconografici in un contesto censorio?", Firpo risponde al termine della sua indagine, portando un bilancio risicato: "Inflessioni minime, screpolature iconografiche di una produzione artistica vasta e, senza tener conto della ritrattistica, di contenuto quasi esclusivamente religioso, la cui percezione trova in fondo la sua primaria legittimazione in fonti estranee ai quadri stessi. A sollecitare un'indagine sul Lotto nella prospettiva di un suo coinvolgimento nelle dottrine ereticali largamente diffuse in tutta Italia tra gli anni trenta e quaranta, e in particolare a Venezia che ne fu il crocevia più vivace, non sono tanto le sue opere, quanto la collaborazione con la tipografia giuntina per l'edizione della Bibita del Brucioli, i 'doi quadretti del retrato de Martin Lutero et suo moier', l'acquisto di ben cinque copie di un"instituta Christiana' per bambini a una data in cui 1 catechismi diffusi in Italia erano per la maggior parte di dubbia ortodossia, i rapporti con perso- naggi in fama di eresia come Mario d'Arman, Bartolomeo Carpan e Lauro Orso. In altre parole, è la documentazione esterna ai dipinti lotteschi a suggerirne una lettura che sarebbe pressoché impossibile a chi affidasse la comprensione della sensibilità religiosa dell'artista veneziano solo e soltanto a un pur penetrante studio delle sue opere". La possibilità di un nesso in cor-pore vivo di eresia e pittura "dovette misurarsi non solo con una repressione sempre più severa e capillare, ma anche e forse soprattutto con le difficoltà e le contraddizioni stesse del trasferire quegli orientamenti e quelle dottrine nella dimensione figurativa del proprio sentire ed agire, del proprio immaginare e pensare". Dunque da destra e da sinistra. Firpo giunge alle conclusioni negative tratte da Lionello Pup-pi, nel suo Trono di fuoco, a proposito del tanto più disgraziato Riccardo Perucolo da Coneglia-no, un minimo al quale l'estraneità e l'indifferenza dei vigenti codici figurativi per la sua scelta di fede avranno tutt'al più concesso qualche criptica trasgressione iconografica. Ma si pensi allo sforzo titanico di Vasari nel considerare luxta propria principia il Giudizio michelangiolesco, preservandolo dalle accuse abbastanza esplicite di eterodossia formulate proprio nel contesto veneto, a garanzia di una storia che fosse anche apologia della raggiunta credibilità e dell'auspicata centralità culturale e sociale delle arti. Non furono solo la divina e calcolata indifferenza della maniera moderna e, più in basso, le esigenze dei committenti e i timori della censura a ostacolare la via italiana alla pittura riformata, restò sempre il nodo ineludibile della polemica iconoclasta, soprattutto in accezione calvinista: "Un nodo che, anche a prescindere dallo specifico dei contenuti iconografici e della destinazione e fruizione sociale della pittura religiosa, poneva un problema di natura dottrinale tale da mettere in discussione la liceità stessa delle immagini sacre". Quando poi anche le arti figurative serreranno i ranghi, da un'ottica persino corporativa, contro la minaccia dell'iconoclastia protestante, fino a rivendicare, talvolta, lo stesso valore sacramentale del culto eucaristico, visto che nella medesima liquidazione si ritrovavano coinvolte, le già scarse possibilità di dissenso an che (o solo) visivo si esauriranno. Verrà il tempo, sono le ultime parole del libro, di "una lunga Controriforma, capace di continuare per secoli a rispecchiare in quei dipinti le sue tranquillizzanti certezze teologiche e devozionali". irpo accomuna l'Aretino e Vasari nel sancire il fallimento artistico di Lotto, dietro il comune, ambiguo encomio del preponderante fervore religioso: si può essere d'accordo nella sostanza, anche se, nelle Vite giuntine, non si rinuncia mai a un apprezzamento che, seppure parziale, è sempre circostanziato. Le Dove trovare ventiduemila recensioni di ventiduemila libri? Offerta speciale € 20,00 (€ 15,00 per gli abbonati) Per riceverlo, contattare l'ufficio abbonamenti tel. 011-6689823, fax 011-6699082, e-mail lindice@tin.it "molte figurette et animali in va-rii luoghi" in quel "paese bellissimo" della pala dei Carmini o la predella del polittico di Recanati, "che è di figure piccole e cosa rara", con la storia di "San Domenico che predica, con le più graziose figurine del mondo", individuano un ambito valutativo che nel lessico vasariano esula dalle dimensioni obbligate o dalle convenzioni di genere. Anzi, semmai è proprio nell'arcaismo tipologico di polittici e predelle che Vasari riconosce, e a ragione, la maniera peculiare, preziosa, di un artista al quale è impensabile assegnare un posto tra i protagonisti della "terza età", quasi fosse rimasto sempre lì, com'era da "giovane", "imitando parte la maniera de' Bellini e parte quella di Giorgione". Ora si potrebbe tornare all'Aretino e alle Vite per contrapporre alle scelte di Lotto la predisposizione, che fu di tutto un secolo, a una grandezza eccezionale e dunque "terribile". Si pensi a una lettera del 1537 di Pietro: "Guardate dove ha posto la pittura Michela-gnolo con lo smisurato de le sue figure, dipinte con la maestà del giudizio e non con il meschino de l'arte". E all'ecfrasi vasariana del Giudizio, nel quale "la moltitudine delle figure, la terribilità e la grandezza dell'opera è tale che non si può descrivere" e dove Michelangelo "ha lassato da parte le vaghezze de' colori, i capricci e le nuove fantasie di certe minuzie e delicatezze". All'interno, giocoforza, del sistema figurativo del classicismo cinquecentesco, Lotto sceglie di restarne decentrato, di non partecipare a quella "ideologia del presente", traguardo di un lungo travaglio del tempo e delle forme, come l'aveva definita Giancarlo Mazzacurati nel Rinascimento dei moderni, insomma a non battere la grancassa alla aretiniana "perfezione della presente età". La vera dissidenza fu in questo, e forse da qui, cioè proprio dalle scelte di forme e modelli più che dall'iconografia, si dovrà ripartire per valutare se arte e vita ebbero di tanto in tanto la possibilità di esprimere la reciproca sintonia, ora che grazie a Firpo siamo convinti che l'adesione alle idee della Riforma fu reale, circoscritta a certi anni e tanto forte da suscitare infine l'oblazione alla Santa Casa di Loreto, una sorta di abiura: molto più che un'ipotesi attraente, una ricostruzione di fatti e motivazioni che pare definitiva. Ecco perché, in un saggio tanto calibrato, si legge sorpresi che "anche questo lavoro non è né vuole essere uno studio di storia dell'arte, e prescinde quindi da ogni discorso stilistico". E davvero possibile credere, dopo aver ripercorso l'intera sorte critica di Lotto, che la storia dell'arte sia solo storia dello stile, o è questa, piuttosto, una forma di nicodemismo metodologico? E poi, la storia dello stile non è per l'appunto, ancora una volta, storia? m. rossi@sesia.unile.it