l'INDICF ^■■□El LIBRI DEL MESE^I 4 VILLAGGIO GLOBALE da BUENOS AIRES Francesca Ambrogetti Nell'Italia fascista di prima della guerra un diplomatico romano si innamora di una bellissima mulatta figlia di un ufficiale italiano e di una principessa africana: è il primo racconto, quello che dà il titolo al libro, di Canta negra (Facceta nera) di Giovanni Jannuzzi, da poco uscito a Buenos Aires, dove sta ottenendo notevole successo. Fino a pochi mesi fa ambasciatore italiano in Argentina, l'autore racconta la sua esperienza in questo paese a pennellate brevi ma precise. L'ondata di nostalgia che pervade il precedente romanzo di Jannuzzi, Casadangelo, è presente nel primo racconto, che si svolge in Italia ma ha una connessione argentina. Per allontanarlo dalla bella mulatta, il diplomatico innamorato di "faccetta nera" viene trasferito a Buenos Aires, dove suo nipote, l'autore, ricostruisce la storia. Due giovani turisti italiani che finiscono per caso in un albergo a ore a Mendoza, un gendarme di origine india ma che vanta una nonna italiana e vuole diventare console onorario in uno sperduto paesino del sud, un trafficante di armi che sfugge per caso a un appuntamento con la morte, un imprenditore che perde la testa per una "bella italiana" che in realtà è una Ferrari, il figlio del pizzaiolo arricchito che riesce a introdursi nel jet-set porteno. Sono i personaggi di alcune delle storie ambientate nell'Argentina degli anni novanta che prima del recente brusco risveglio era abbagliata dal miraggio di un finto benessere. Ci sono poi dei bellissimi racconti che hanno come protagonisti i "nuovi mostri", i computer. Tra questi la storia commovente di una coppia che dopo anni di matrimonio riscopre attraverso la posta elettronica l'amore e la comunicazione che sembravano ormai esauriti. Jannuzzi, che in uno dei racconti confessa di essere Asmoedo, e cioè l'autore anonimo di An-dreotti e il cavaliere, conclude il suo libro con due brevi storie crepuscolari piene di nostalgia e rimpianti. Nel penultimo racconto uno scrittore fa un patto con la morte, alla quale chiede 0 tempo di finire il suo ultimo libro. Nell'ultimo, Il tesoro, il narratore chiede di portare con sé dopo la fine che ormai intravede non tanto lontana qualche libro, alcuni dischi, delle foto, che lo aiuteranno a non sentirsi tanto solo. da MADRID Franco Mimmi Si può scrivere un libro accolto da critiche entusiastiche in tutto il mondo, si può compiere il miracolo di trasformare un raro esempio di letteratura in un best-seller, e finire per questo in un vicolo senza uscita, ovvero senza la motivazione o il coraggio per affrontare di nuovo la pagina bianca. È successo a Enrique Vila-Matas, a causa di quel Bartleby e compagnia che due anni or sono fu l'evento letterario spagnolo (in Italia uscirà nell'aprile prossimo, tradotto per la Feltrinelli da Danilo Manera) e che trattava, dietro il nome del disperato e disperante scrivano creato da Herman Melville, degli scrittori che hanno deciso di non scrivere più o che addirittura decisero di non scrivere mai, gli "scrittori del No", quelli nei quali "abita una profonda negazione del mondo". E dunque, della letteratura. Come uscire da siffatta teorizzazione? Con un libro, naturalmente, e infatti Vila-Matas sta lavorando a El mal de Montano, nel quale il narratore, un critico letterario afflitto da una vita in cui solo ha valore la letteratura, cerca di curarsi con una visita al figlio Montano, che però è autore di un libro sugli scrittori che non scrivono, sicché cerca a sua volta il modo per guarire della sindrome di Bartleby. Ma in questa vicenda in cui la letteratura è l'ossessione quotidiana fino a divenire un male di famiglia, genetico, ereditario, che cosa è vero e che cosa è falso? È davvero una malattia? Sì, ma forse desiderabile. da NEW YORK Andrea Visconti In questi giorni sono in uscita negli Stati Uniti cinque libri sul terrorismo, la jihad e l'Afghanistan. Ma quello che sta ottenendo maggiore attenzione è Wkat Went Wrong? (Che cosa è andato storto?) scritto da Bernard Lewis, la massima autorità in America per quanto riguarda l'islamismo. La Oxford University Press ha fatto una prima tiratura di ottantamila copie, chiaro indice dell'interesse che questo tema suscita. Lewis, che insegna studi mediorientali a Princeton, aveva ultimato questo libro prima della tragedia dell'11 settembre. Ma alla luce degli eventi ha riscritto la prefazione. Una frase tuttavia è rimasta invariata: "Se la gente in Medio Oriente continuerà lungo il percorso che ha intrapreso - scrive Lewis con tono premonitore - i terroristi suicidi diventeranno una metafora per l'intera regione". D'altra parte Lewis ha spesso ragione quando prevede gli sviluppi politici in Medio Oriente. Nel 1979 per esempio fu l'unico esperto di islamismo ad avvertire che la caduta dello scià in Iran avrebbe portato al caos nel nome della teocrazia e dell'intolleranza religiosa, non a un avanzamento del processo democratico. What Went Wrong è un'eccellente analisi di una realtà che ha portato ai fatti dell'11 settembre, ma proprio perché fu scritto pri- ma dell'attacco al World Trade Center non contiene suggerimenti o ricette su quale corso l'America farebbe meglio a seguire nel riposizionarsi rispetto al Medio Oriente. Ed è proprio questa la sua forza: è un libro che spazia ben oltre l'immediata reazione all'abbattimento delle torri gemelle. da PARIGI Fabio Varlotta Mademoiselle Libertà, romanzo d'amore e di passione di Alexandre Jardin, è il libro francese più venduto di questo inizio 2002. E la storia di un amore che non concede nulla al compromesso, della ricerca di una passione senza concessioni, di un rapporto ideale. Alexandre Jardin, figlio dello scrittore Pascal Jardin, ha 37 anni e ha cominciato a scrivere nel 1986. Il suo secondo romanzo, La zebre, vinse il premio Femina nel 1988. Da Le Petit Sauvage del 1992 - in cui il protagonista si scopre finalmente adulto - ad Autobiographie d'un amour del 1999 - rivisitazione del mito di Don Giovanni - la sua è una scrittura simbolica e provocatoria, che in Le Zubial del 1997 trova la massima ispirazione. Liberté, la protagonista del romanzo, ha un nome e un carattere che più francese non si può. Ha 18 anni e rifiuta quello che la maggior parte delle donne che vede attorno a sé accetta: l'amore imperfetto, senza sbalzi, senza follie, tranquillizzante. Mademoiselle Liberté non vuole nemmeno sentir parlare di compromessi, di ragionevolezza, di felicità parziale; pretende tutto, l'infinito, l'assoluto. Liberté ha fame di piaceri, vuole soddisfare tutti i suoi appetiti e, fatale, arriva l'incontro con Horace, nientemeno che il preside del suo liceo: un uomo anch'egli proteso verso l'iperbolico a tutti i costi, in preda alla furia dell'assoluto, ma sposato con una mogliettina modello che non condivide la sua brama di assoluto. I due destini si incontrano inevitabilmente, ma Liberté non si accontenta di una relazione parziale, vuole la passione portata fino all'inverosimile, al delirio. Ancora una volta, Alexandre Jardin si misura con la prova del fuoco: l'amore ideale, la ricerca del capolavoro. da PECHINO Francesco Sisci Contadini poveri fino alle lacrime, che cercano di evitare le tasse per sopravvivere, per riuscire a mandare i figli a scuola e liberarli dall'antica schiavitù della miseria. Funzionari corrotti, che intascano i soldi delle tasse, che fanno tutto solo con l'aiuto delle bustarelle, che moltiplicano la burocrazia di villaggio per consolidare il proprio potere. Questa è la fotografia delle campagne cinesi che emerge da un libro subito diventato un bestseller in Cina: Ho scritto al primo ministro di Li Changping. Li era un piccolo funzionario di un distretto della provincia meridionale Jiangxi, e racconta le sue peripezie di funzionario che si sforza di essere onesto in mezzo al degrado più profondo della campagna cinese. Li racconta delle sue battaglie con gli altri funzionari corrotti e di come si sia rivolto direttamente al primo ministro Zhu Rongji per cercare giustizia. La sua è una storia agrodolce. Dolce perché una semplice lettera riesce a far muovere il primo ministro, agra perché la radice del problema, il progressivo impoverimento delle campagne rispetto alle città, è intatta. Oggi il volume nelle librerie testimonia come il governo centrale sia impegnato contro la corruzione e a favore dei contadini e, diversamente dal passato, non abbia paura di immagini sincere. Ma allo stesso tempo permane una realtà dura: le riforme e la modernizzazione del paese stanno facendo le loro vittime. da Delhi, Anna Nadotti Dal 28 gennaio al 4 febbraio 2002 si è svolta a New Delhi la XV edizione della Book Fair, la più importante rassegna editoriale del subcontinente indiano. Un appuntamento biennale che vede convergere nella capitale editori di tutti gli stati e in tutte le lingue dell'immensa federazione indiana. Quest'anno 1030 espositori, oltre a 37 rappresentanze di paesi straniere e organismi internazionali (tra cui Unesco, Banca Mondiale, UE). Nella Hall 14, quella riservata ai partecipanti stranieri, l'assenza del Pakistan sembra sancire una divisione che almeno in quest'ambito non si era finora manifestata. Assente purtroppo anche l'ambasciata italiana, il cui stand nell'edizione del millennio aveva suscitato moltissima attenzione. Non mi soffermo sull'effetto che fa aggirarsi tra i libri in compagnia di una media di 500.000 persone al giorno, parlanti 15 lingue in una felice capacità di comprensione ("Se Dio fosse nato in India la Bibbia sarebbe stata diversa", dice in un suo libro Shashi Deshpande). Essendo il multilingui-smo l'espressione stessa dell'India, il tema scelto per questa BF è "Globalizzazione della parola scritta: tradurre la diversità creativa". Nei numerosi convegni e seminari si sono messi a fuoco tre ordini di problemi: la traduzione delle letterature indiane nelle lingue straniere; la traduzione delle letterature straniere nelle lingue indiane; e infine la traduzione da una lingua indiana all'altra. Problema non secondario se pensiamo che ognuna di esse significa decine di milioni di parlanti. Mi preme segnalare il grosso lavoro in questo senso che stanno facendo le due case editrici storiche delle donne: Kali for Women a New Delhi, e Stree a Calcutta. Sono infatti le donne, nel doppio ruolo di scrittrici e di lettrici, le maggiori interessate a una diffusione della cultura che non passi necessariamente attraverso l'inglese. Strumento cui peraltro sono costretta a ricorrere anch'io - pur escludendo volutamente gli editori inglesi e americani, presentissimi qui come nelle librerie e nelle fiere del libro di tutto il mondo - per scegliere alcuni titoli da proporre all'attenzione dei lettori dell'"Indice". Un bellissimo libro per bambini, con straordinarie illustrazioni del pittore Suddha-sattwa Basu, pubblicato da Ravi Dayal, uno dei più raffinati e interessanti editori indiani: Homecoming, breve storia sulla Partizione - tema cruciale e più attuale che mai - raccontata a un bambino da un vecchissimo saggio elefante. Un saggio di estrema attualità politica e sociale, Militarism & Women in South Asia di Anuradha M. Chenoy, edizioni Kali for Women. L'autrice traccia un quadro accuratissimo del rapporto tra spese militari e (non)investimenti per lo sviluppo, documentando come e quanto, nei paesi di quest'area infuocata dai conflitti, militarismo, fondamentalismo e sciovinismo nazionalista rafforzino le pratiche patriarcali e sottraggano mezzi ed energie umane allo sviluppo delle economie locali. Un dato soltanto: i paesi del sud asiatico contano, in media, un soldato ogni 250 abitanti e un medico ogni 3000. Un libro fotografico pubblicato dall'editore svizzero Scalo: Myself Mona Ahmed, storia di vita dell'eunuco Mona Ahmed, fotografata da Dayanita Singh. Racconto doloroso e sobrio della propria emarginazione, di un'autointerrogazione costante, di un tentativo di sottrarsi alle definizioni altrui, il libro diventa anche la storia di una lunga e delicata amicizia tra le due autrici