Storia Cinquantanni di Pei In un mondo diviso di Leonardo Rapone Una lunga storia di sconfìtte di Alessio Gagliardi Luigi Di Lembo GUERRA DI CLASSE E LOTTA UMANA L'anarchismo in Italia dal biennio rosso alla guerra di spagna (1919-1939) pp. 231, € 15,49, Biblioteca Franco Serantini, Fisa 2001 La storia dell'anarchismo italiano negli anni successivi alla prima guerra mondiale è, quale emergere dal libro di Luigi Di Lembo, la storia di un'esperienza indubbiamente minoritaria, ma molto meno marginale di quanto spesso sia apparso dagli studi. Un'esperienza che, pur sconfitta, rappresentò una componente certo non ininfluente all'interno delle instabili vicende italiane negli anni che vanno dalla fine della guerra alla marcia su Roma. Grande fu il numero delle organizzazioni e federazioni (145 delle quali diedero vita nel 1919 all'Unione anarchica italiana) e crescente, negli anni del dopoguerra, l'adesione che esse ottennero: l'Usi, il sindacato legato agli anarchici, vide crescere anno dopo anno i tesserati, sino a superare i trecentomila nel 1920, e straordinariamente ampia, e non solo in base ai parametri dell'epoca, fu la diffusione del quotidiano "L'Umanità nova" sin dalla prima uscita nel febbraio dello stesso anno. E tuttavia una storia poco scavata, che con difficoltà riesce ad avere spazio al di fuori della pubblicistica a vario titolo militante o delle pagine della "Rivista storica dell'anarchismo", di cui, tra l'altro, Di Lembo è redattore. Certo, la marginalità politica dell'anarchismo negli anni del secondo dopoguerra e dell'Italia repubblica- na ha contribuito non poco alla difficoltà nel ritessere il filo della memoria interrottosi negli anni del fascismo e nel sottoporre le vicende del movimento anarchico a indagine storiografica. Il libro di Di Lembo vuole ridare luce e voce a quella storia e ai suoi protagonisti (tra i quali alcune notevoli figure come Errico Malatesta, Armando Borghi e Camillo Berneri), indagando il ventennio nel quale si consumarono le sorti del movimento anarchico italiano novecentesco: dalla fase di maggior espansione, dunque, alla definitiva sconfitta consumatasi in Spagna nel corso della guerra civile. Tra i due momenti, l'esito rovinoso dell'occupazione delle fabbriche — sul quale pesò l'atteggiamento della CGdL e del Partito socialista in tutte le sue componenti - è presentato come un autentico spartiacque, da cui derivarono la divisione e lo sbandamento delle organizzazioni del proletariato. Gli anni che seguirono, quelli del regime fascista, furono principalmente gli anni dell'esilio: dai nuovi approdi, generalmente la Francia, gli anarchici provarono a tessere alleanze con altre forze dell'antifascismo europeo (soprattutto con Giustizia e Libertà) sino al momento della partecipazione alla guerra di Spagna, cui diedero un decisivo contributo per quel che riguarda la formazione della prima colonna di volontari italiani. Una parabola, quella percorsa dall'anarchismo italiano nei venti anni in questione, che il libro ripercorre quasi esclusivamente attraverso lo studio sistematico della stampa anarchica, privilegiando in questo modo la ricognizione minuziosa del ricco dibattito interno più che l'analisi approfondita dell'effettiva incidenza che il movimento ebbe nella società italiana. Da Togliatti a Craxi di Aldo Agosti Antonello Trombadori DIARIO IN PUBBLICO Lettere agli amici de "La Carbonara" a cura di Paolo Franchi e Duccio Trombadori, pp. 99, €9,30, Marsilio, Venezia 2001 La Carbonara è un'accogliente trattoria nel cuore di Roma, a Campo de' Fiori: un luogo da sempre frequentato dal gruppo dirigente del Pei e particolarmente dai suoi intellettuali. Vi era di casa anche Antonello Trombadori, comunista dal 1939, inviato speciale dell'"Unità" e collaboratore assiduo di "Rinascita", funzionario della Commissione stampa e propaganda del Pei fino al 1948: uno dei tanti giovani intellettuali di cui si circondò Togliatti al suo ritorno in Italia nel 1944. Alla fine del 1992, pochi mesi prima di morire, Trombadori aveva raccolto e ordinato cronologicamente una scelta di articoli non pubblicati e di lettere agli amici risalenti al decennio precedente. Questa specie di "diario in pubblico", come lui stesso lo definì, viene ora, a nove anni dalla sua morte, pubblicato a cura del figlio Duccio e di Paolo Franchi, con un'introduzione di quest'ultimo in grado di restituire con efficacia e misura il clima politico di quegli anni. Nell'edizione di questi interessanti documenti c'è però una vistosa inesattezza da segnalare: la lettera agli amici della Carbonara "Paolo e Rosario", del 27 febbraio 1990, non poteva essere indirizzata, come suppongono i curatori, a Paolo Spriano, che era morto prematuramente nel settembre del 1988: il "Paolo" in questione deve essere, probabilmente, Bufalini. Trombadori apparteneva all'ala cosiddetta "migliorista" del Pei: a quella "destra" riformista, cioè, che aveva il suo padre nobile in Giorgio Amendola e che annoverava anche uomini come Giorgio Napolitano, Emanuele Macaluso e Gerardo Chiaromon-te. Nella geografia del partito questa corrente (anche se era ancora scandaloso usare questo termine) era al pari delle altre ostile al rumoroso e spregiudicato protagonismo di Craxi, ma più sensibile alle ragioni di un coerente progetto riformista dell'intera sinistra. Al tempo stesso era poco incline alle rotture clamorose con il "socialismo reale" e aveva assecondato con qualche riserva la strategia berlingueriana del compromesso storico. Al suo interno, Trombadori svolse un ruolo particolare, coerente alla sua natura di personaggio irruente e per natura "ba-stian contrario", tanto da risulta- re alla fine abbastanza emarginato. L'aspetto più interessante del suo percorso non è tanto nel suo approdo, esplicitato da un articolo - poi non pubblicato per le pressioni dell'amico Paolo Bufalini - in cui dichiarava che alle elezioni del 1992 avrebbe votato per il Psi di Craxi, quanto nel tormentato processo di revisione dell'eredità togliattiana, a cui si dimostrava ancora all'inizio degli anni ottanta legatissimo. Inizialmente il pensiero di Togliatti viene difeso a spada tratta, da un lato, dall'accusa di essere stato tra "i veicoli d' infezione totalitaria e di settarismo massimalista", dall'altro, dall'accusa di aver abbandonato la via della trasformazione socialista della società mossagli dalla "campane operaiste, neobordighiane, neospartachiste, guevaro-polpotti-ste, dei Bombacci-Capanna di ieri e di oggi". Ma con il passar del tempo si fa strada in Trombadori la convinzione che il "Togliatti preso tra due fuochi", di cui parlava nel 1984, "quei due fuochi li portava in sé medesimo, e noi con lui". Di qui un'autocritica sofferta e profonda, anche se ingenua nel momento in cui crede di individuare nel Psi dei suoi ultimi anni l'erede di una tradizione riformista lungo la linea Andrea Costa -Prampolini - Turati che poco o nulla aveva a spartire con la realtà del partito purtroppo tan-gentizio di Bettino Craxi e dei suoi "mariuoli". ■ agostitteisi. unito. it IL PCI NELL'ITALIA REPUBBLICANA 1943-1991 a cura di Roberto Gualtieri prefaz. di Giuseppe Vacca, pp. 407, €28,92, Carocci, Roma 2001 Il più forte partito comunista dell'Occidente e la sinistra italiana, che su di esso s'incardinava, si sono rivelati all'esame della storia giganti dai piedi d'argilla, e hanno lasciato come erede la sinistra più scarna e desolatamente impotente, ad oggi, tra quelle operanti nei paesi che videro svilupparsi oltre un secolo fa il movimento politico della classe operaia. Quali le ragioni di questa metamorfosi, o di questa nemesi, e quali i nessi tra l'una e l'altra fase della storia politica e sociale dell'Italia? Con i problemi posti da questi interrogativi dovrà misurarsi la ricerca storica sull'Italia della seconda metà del Novecento. Il lavoro è appena agli inizi, e il libro curato da Roberto Gualtieri sul Pei tra il 1943 e il 1991, derivante da un convegno della Fondazione Gramsci, offre numerosi spunti per la riflessione. Molto spesso i convegni sono un'occasione per mettere a confronto i risultati di ricerche già compiute o ancora in corso e fare così il punto sullo stato degli studi: questo, invece, spingendosi ben oltre il terreno più dissodato dalla ricerca, quello degli anni immediatamente successivi all'uscita dal fascismo, ha soprattutto messo sul tappeto ipotesi di lavoro e categorie interpretative, fornendo un viatico agli studi a venire. Dell'esperienza del Pei viene messo a fuoco in particolare il rapporto tra l'azione svolta in ambito nazionale e l'orizzonte internazionale. Negli interventi di Silvio Pons e di Gualtieri (quelli che meglio permettono di cogliere anche il senso politico-culturale del convegno, dato il ruolo dei due relatori, rispettivamente direttore e vice direttore della Fondazione un tempo legata al Pei) si respinge la visione della politica comunista come mera proiezione degli interessi sovietici, ma si prendono le distanze anche dalle interpretazioni proposte in passato dalla storiografia vicina al Pei, in cui si mettevano in risalto soprattutto l'autonoma creatività dei comunisti italiani e la loro emancipazione ideologica dall'Urss. Qui si suggerisce invece che il riferimento all'Urss, benché diversamente modulato nel tempo, è rimasto un dato costante della vicenda comunista, deliberatamente preservato fino all'ultimo, e che non si è trattato solo di un residuo inerziale: la politica na- zionale del Pei non si sviluppò cioè come una variabile a sé stante, e portò fin nelle sue più tarde manifestazioni le stigmate di un mondo diviso e dell'appartenenza al proprio "campo" d'origine, anche quando, con Berlinguer, si giunse a negare che l'Urss fosse ancora in grado di interpretarne le ragioni ideali più valide e durature. Questa immagine ancipite della politica comunista, segnata a un tempo dall'identità nazionale e dal vincolo internazionale, non è però considerata una peculiarità del Pei, ma è vista come una manifestazione della duplice pressione che grava sui maggiori soggetti politici operanti nel contesto del mondo bipolare (e quindi, in Italia, anche sulla De), costretti a una continua mediazione tra imperativi scaturiti dall'ambito nazionale ed esigenze derivanti dal quadro internazionale (a tal proposito si fa largo uso della categoria di "doppia lealtà", a suo tempo elaborata da Franco De Felice). Dal convegno e dal libro non emerge però a sufficienza che il comunismo non fu solo un legame internazionale, ma si espresse anche attraverso un'analisi sociale, una visione e una pratica del conflitto tra le classi e una concezione dell'alternativa all'economia di mercato germinate dal ceppo della tradizione socialista: aspetti che sarebbe sbagliato isolare o addirittura contrapporre al richiamo internazionale, ma che è altrettanto importante considerare nella loro realtà effettuale e nei loro mutamenti attraverso il tempo se si vuole afferrare nella sua complessità il senso della presenza comunista nella storia del paese e ripercorrerne la parabola. Le ragioni del suo radicamento, prima, e del suo scacco finale non possono ridursi al "primato della politica estera" (e-spressione che Giovanni Gozzini preferisce a "doppia lealtà") o all'improduttività della risorsa esterna a cui il Pei si affidava, condannandosi alla subalternità rispetto a una De capace di una gestione "virtuosa" della collocazione internazionale del paese (Gualtieri). Che la chiave "internazionale" non apra tutte le porte ce lo ricorda Donald Sassoon, osservando che aspetti caduchi della politica del Pei hanno un corrispettivo in determinate pratiche della socialdemocrazia europea e non sono quindi sic et simpliciter un riflesso condizionato della presenza sovietica, e lo stesso Gualtieri, quando osserva che da ultimo "la reticenza ad affrontare la questione dell'identità comunista" fu "assai più la conseguenza che la causa" òédì impasse in cui la politica interna del Pei si trovò dopo il fallimento del compromesso storico. ■ raponel@tin.it Il PC) nell'Italia repubblicana twd Mt-mCwtM Lsroilt