Letterature < cita creativa che la letteratura del dopoguerra abbia prodotto. Mi si potrebbe obiettare che è naturale che lo scrittore che nel 1978 ha scritto questo romanzo nel 1996 abbia poi scritto l'articolo di cui parlavo. Ma io non sono sicuro che i tempi interni dello scrittore e della scrittura appartengano al calendario gregoriano. Direi piuttosto così: che nel 1978 Mario ha scritto La zia Julia "perché" nel 1996 avrebbe scritto questo articolo distruggendo E professor Steiner. E per lo stesso motivo capisco "perché" Mario ha scritto nel 1962 La città e i cani o nel 1981 La guerra della fine del mondo: per E semplice motivo che nel 1996 avrebbe scritto II vecchietto con i calli o nel 1997 Una passeggiata per Hehron, altri due articoli per "E1 Pais". Il primo è, apparentemente, una normale recensione al Diario di un autore oggi tornato di moda in Francia che coUaborò con i nazisti e che morì suicida, Drieu de la Rochelle. Mario ne ammira un romanzo, Fuoco fatuo, che ho amato anch'io, ma parlando di questo Diario della guerra si pone una domanda che va al di là deEa letteratura e ne cerca le più profonde ragioni: "Come coniugare questi due aspetti? Forse non c'è risposta accettabEe a questa tremenda domanda, ma è indispensabEe formularla, perché è certo che le mie idee e le parole non sono irresponsabili e gratuite. Esse generano azioni, modeEano condotte e muovono da lontano la mano degli esecutori di massacri". E secondo è quasi la cronaca di una passeggiata in una città palestinese occupata dagli israeliani. Credo che le ragioni di un conflitto ancora non risolto e dal quale provengono molti dei disastri che tormentano oggi E mondo siano più facilmente comprensibili da questa "passeggiata" che dalle complicate analisi dei politologi (altre Sibille) che tutti i giorni pretendono di spiegarci E mondo. E molte altre "ragioni" alla sua letteratura potrei trovare negli articoli di giornale che per tutti gli anni novanta Mario ha scritto per "E1 Paìs". Per me, italiano, la vena fascistoide (di quel fascismo ineffabEe, categoriale, che non appartiene esattamente all'ideologia, ma che può incarnarsi in qualsiasi Paese e in qualsiasi epoca; insomma, quel tratto di volgarità, di arroganza, che caratterizza certi colonnelli o certi ca-ciques dei suoi romanzi e che Mario prontamente coglie in una frase di un ministro del primo governo Berlusconi nel 1994) spiega l'Italia di oggi ai non italiani meglio di quanto non sappiano fare gli analisti politici che oggi in Europa si interrogano sull'ideologia deU'Italia e dei suoi leader: "Il portavoce del governo italiano, sig. Giuliano Ferrara, rispondendo alle critiche dell'opposizione che accusavano E primo ministro Berlusconi di agire fuori dai limiti della Costituzione, ha esclamato con indignazione: 'Dove credete di vivere? In Bolivia?'. Riconoscendogli E pieno diritto di criticare le varie manifestazioni di barbarie che esistono in Ame- rica Latina, affermo che E portavoce del governo italiano è una persona non aggiornata, che dovrebbe rinfrescare la propria informazione politica" (L'Italia non è la Bolivia, 1994). Con pacatezza, e con un buon numero di dati alla mano, Vargas Llosa dimostra che la Bolivia è un Paese abbastanza meglio amministrato dell'Italia: non ha certo la mafia, non conosce la corruzione italiana, pare abbia istituzioni più solide e una classe politica più ri-spettabEe di quella italiana, visto che i personaggi corrotti che l'avevano caratterizzata nelle decadi passate scontano le pene che la giustizia ha loro inflitto per le loro malefatte. In Italia, come sappiamo, chi aveva pendenze giudiziarie si è rifugiato in parlamento. Ma non vorrei che si equivocasse: non c'è niente di autoreferenziale negli articoli di Mario Vargas Llosa: sono io che li sto usando a posteriori perché in essi trovo oggi la ragione dei suoi libri di ieri. Così come nei suoi libri di ieri, e in quelli che pubblica oggi, trovo una ragione per capire la realtà di oggi. Una di queste realtà è ad esempio la babele di gerghi specialistici e letterari che caratterizza i linguaggi deEa nostra società occidentale: una difesa corporativa spesso mascherata di pseudotecnicismo che serve sostanzialmente ad escludere E cittadino dalla partecipazione sociale o politica di un certo Paese. Ma altri gerghi non sono da meno, e fra questi un luogo eccelso è occupato dai linguaggi dell'espressione artistica contemporanea: linguaggi esoterici e orfici che fanno spesso da cinghia di tra- smissione dall'artista al critico al marchand con E fine di imporre sul mercato, non di rado a prezzi esosi, prodotti "artistici" inconsistenti ed effimeri, basati soprattutto sul messaggio scandalistico o provocatorio che recano in sé. Ma l'espressione artistica non di rado è per Vargas Llosa E pretesto per una riflessione sociale e politica. Ne è un bell'esempio l'articolo La città dei nidi (1998) dedicato al Festival di Salisburgo, dove egli ironizza, non senza ragione, sull'elegantissimo pubblico del jet set internazionale che applaude entusiasta alla messa in scena, con criteri rigorosamente marxisti, del Mahagonny di Bertolt Brecht. E Mario non perde l'occasione per stigmatizzare severamente l'ideologia che 10 entusiasmò nei tempi giovanili. 11 che è più che plausibEe. Meno convincente mi pare la sua susseguente manifestazione di simpatia per E libero mercato. Mario ha un pensiero troppo solido per potersi Eludere che l'economia possa sostituire egregiamente le ideologie, come vorrebbero i teorici del neoliberalismo, o credere che la trinità neoliberista Deregu-lation-Liberalizzazione-Privatiz-zazione possa comunque sostituire Liberté-Egalité-Fraternité. Del resto come ha cinicamente osservato dopo l'I 1 settembre E grande sociologo tedesco Ulrich Beck (spesso i sociologi possono essere più cinici degli economisti), "le immagini di orrore di New York sono portatrici di un messaggio che non è ancora chiarito: uno Stato, un Paese, possono neolibe-ralizzarsi a morte" ("Le Monde", 10 novembre 2001). Avanzo l'ipotesi che per un pensatore e un uomo di idee come Vargas Llosa, senza chiese e pregiudizi, convinto difensore della democrazia politica, del pluralismo e deEo stato di diritto, una totale adesione al pensiero neoliberista possa costituire una contraddizione. Ma osservo anche che le contraddizioni sono inevitabili componenti di un inteEettuale libero, del quale eventualmente si può dire quanto lui stesso ha magnificamente detto di Octavio Paz, sforzandosi di capirlo quando, in disaccordo con lui, Paz manifestò un avvicinamento verso E vecchio Pri messicano. E cioè che "la forma ideale dell'imprescindibEe democratizzazione del suo Paese era l'evoluzione e non la rivoluzione" (El Eenguaje de la pasión, 1998). Altri due articoli di carattere politico che vorrei mettere in evidenza sono II "nascituro" e II sesso debole, entrambi del 1998. 11 primo è una argomentata difesa dell'aborto e una solenne reprimenda al parlamento spagnolo che per un voto ha respinto una maggiore liberalizzazione deEa legge che in quel Paese è molto restrittiva (prevede infatti solo i casi di stupro, di malformazione del feto e di pericolo di salute per la madre). Mario evoca una Spagna cattolica, profonda e oscurantista, che ha organizzato processioni e intimidazioni ai parlamentari, una Spagna dove la Conferenza episcopale ha pubblicato un "tremebondo" documento intitolato Licenza ancora più ampia per uccidere i figli, letto da ventimEa parroci durante la messa domenicale. La difesa di uno stato lai- co, dove una supremazia confessionale "può minacciare la democrazia, a breve e medio termine, in uno-dei suoi attributi essenziali: E pluralismo, la coesistenza nella diversità, il diritto alla differenza e alla dissidenza", è un ossigeno per un lettore come me che vive in un Paese dove raramente la stampa osa rivendicare la laicità dello stato sancita dalla nostra Costituzione. Alla difesa deEo stato laico segue una difesa dei diritti deEa donna che è confortante sentire neUa bocca di uno scrittore. Ma non potrei terminare questo mio breve vagabondaggio nel El Eenguaje de la pasión senza soffermarmi su queEa che è la vera passione che anima tutto E libro, tutta l'attività del giornalista politico, sociale, opinionista, viaggiatore, antropologo: la letteratura. Perché per Mario la letteratura è una forma di conoscenza del reale, e qualsiasi analisi del mondo che egli fornisce è sempre confortata, sostenuta, fEtrata dalla testimonianza letteraria. Pier Paolo Pasolini aveva coniato l'espressione "amicizia delle idee". A questa aggiungerci "amicizia del gusto". Perché il gusto è qualcosa di meno cerebrale, di più viscerale, di più naturale delle idee, e quando due scrittori amano gli stessi scrittori significa che fra di loro c'è una profonda affinità, che è poi una forma di amicizia. Nel Eenguaje de la pasión ritrovo i "miei scrittori": Baudelaire e Guimaràes Rosa, Pessoa e Naipaul, Ortega, Garda Màrquez, Borges e tanti altri. Ma vorrei concludere con un poeta, da entrambi amato, al quale non è toccato nel Novecento quel posto centrale che forse gli aveva vietato la sua vita schiva e marginale, e una lingua che non è fra le più diffuse del pianeta, il greco moderno. Si tratta di Costantino Kavafis, al quale Mario dedica uno splendido "medaglione" aEa fine del suo libro, intitolato L'Alessandrino. Nel celebrarlo, Mario tesse un elogio deEo scrittore lontano dal potere, lo scrittore come "imboscato", come marginale, come vagabondo, come colui che gira in un'orbita eccentrica e periferica; uno scrittore cittadino del mondo, che appartiene solo aUe proprie idee, che non suona le serenate a nessuno, uno scrittore apolide e senza bandiere, che preferisce l'anonimato e la libertà interiore ai riconoscimenti e aEe decorazioni: "Era un Alessandrino singolare, un uomo della periferia, un greco deEa diaspora che scelse come patria culturale, più di ogni altro scrittore deH'epoca classica, queEa deEa sua lingua e deEa sua antichissima mitologia. Eppure, come ascrivere aEa storia deEa letteratura neogreca questo mediorientale così identificato con gH odori, i sapori e E passato deEa sua terra di esiEo, questo incrocio culturale e geografico dove Asia e Africa si toccano e si confondono, così come vi si sono confuse tutte le civEtà, le razze e le religioni del Mediterraneo?". E neEa simpatia di Mario per questa figura che io riconosco la mia simpatia per Mario. E forse è proprio questo il motivo per il quale ho scritto quanto ho scritto. ■ di inalvearsi inertemente in una tradizione ha voluto per un verso misurarsi con un costituito mondo di motivi e di forme autorevole e incombente, e per l'altro ha saputo "evitare E bric-a-brac dei romantici, cioè l'uso avventato e la mescolanza di parole e forme vetuste, qualificate come poetiche, con parole e forme andanti o addirittura moderne". Nencioni ci fa in queste sue beEissime pagine vedere come Carducci rinverdisca E mito deU'ecceEenza linguistica toscana, scevro però di fanatismo, come contemperi insomma stile classico e soavità toscana, cercando di procurare quando può che l'arcaismo sia anche popolarismo, dove - commenta Nencioni -queOe forme "dal repertorio deEe voci poetiche passano neEa categoria dei toscanismi popolari, con un effetto di geloso ritorno, di riappropriazione per un lettore toscano, di dialettizzazione per un lettore non toscano accorto ai fatti d'intonazione e ai mutamenti di chiave. Effetto, comunque, anticlassico, e non puristico". Una toscanità di memoria avvivata con una toscanità di presenza. Una umorosa capacità di macchia e di modulazione che Carducci ha trasmesso certamente a quei poeti del Novecento che hanno saputo senza pregiudizio rileggerlo, cogliendo E senso di una lingua di grande spessore, una lingua presente ma anche di profonda storicità. Un poeta che è piaciuto a chi ne ha saputo apprezzare lo stile "sempre eletto, sostenuto, a volte solenne, raramente antiquario", perché Carducci - conclude Nencioni - è poeta che "oppone la continuità deEa sua tavolozza aEo sperimentalismo pancronico del caleidoscopio dannunziano, dove la tradizione cessa di esser tale per diventare archeologia". In questi saggi di stilistica Nencioni tocca a mio parere E culmine deEa finezza nelle pagine dedicate a PirandeEo, all'esame del dialogo teatrale, che è un parlato, ma non un vero parlato, perché c'è E pubblico, elemento essenziale del teatro, e dunque le battute tra gli attori sono dette anche per lui, è il pubblico E destinatario del dialogo che si svolge suUa scena, un dialogo dunque tridimensionale, un dialogo - e PirandeEo è maestro grandissimo nel montarlo - in cui l'informazione retrograda deve essere abE-mente propinata per non spiatteUare subito tutto, lo spettatore deve centeEinare quel dialogo, la sua curiosità ha da essere non tanto soddisfatta quanto aguzzata, il dialogo deve dare schegge di informazione, addendi e non E totale. Si capisce come un linguista quale Nencioni possa essere stato attratto da un drammaturgo che ha avuto come nessun'altro acuta intuizione dei processi linguistici propri al parlato e in particolare del condizionamento proprio a queEa sottospecie di parlato che è E parlato-recitato. PirandeEo mostra di sapere come pochi che E parlato del dramma dev'essere naturale, ma non naturale di natura: naturale di arte. Questo naturale di arte è fatto affiorare daE'analisi puntigliosissima di Nencioni, che mostra come classiche e strutturate con architettura perfetta siano le sue frasi, ma come questa compatta architettura sia modulata, interrotta da una scansione melodica, da una segmentazione sintattica, lacerata quasi da fuochi enfatici e contrastivi. Strutture sintattiche ampie, regolari, ma zeppe di scansioni, di variazioni tonali, e incisi, interiezioni, vocativi, elementi fàtici che consentono l'impatto vivo, discorsivo con gH ascoltatori e che frantumano solo apparentemente E filo perfetto del discorso. Il pensiero si snoda con forza e consequenziarietà, ma ai di sotto dello schema corre una partitura melodica che lo frange passionalmente. Nencioni fa affiorare un Pirandello creatore di una lingua teatrale che muove sì da parametri naturali, ma li supera in un modello di arte e con suggerimenti di recitazione non naturalistica