Rilanci di letteratura italiana Sulla crisi intellettuale degli anni '70 Contro la violenza, il manierismo di Sergio Luzzatto D: furante il sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse, nella primavera del 1978, Alberto Moravia confessò di provare, rispetto alle febbrili circostanze del rapimento, una forma di "estraneità dolorosa". Era qualcosa più che una boutade, questa dello stagionato autore degli Indifferenti. L'affermazione di Moravia rimandava a un dibattito che era andato facendosi tanto più acceso quanto più i terroristi rossi avevano alzato il tiro delle loro armi automatiche: un dibattito intorno al significato politico della letteratura nella società neo-capitalistica, e alla funzione storica della violenza come levatrice di progresso. Nel diluvio di parole di quei cinquantacinque giorni, la frase di Moravia sull'"estraneità dolorosa" non mancò di suscitare rinnovate controversie. In generale, l'intellighenzia della Prima Repubblica fu chiamata allora a un drammatico appuntamento con se stessa. Settanta va considerato il primo libro di storia su quel dibattito e su quell'appuntamento. Non che il volume di Belpo-liti abbia nulla di monografico né, in senso stretto, di storiografico. E propriamente un saggio, in cui l'autore trasceglie materiali e personaggi secondo un criterio sovranamente personale. E un libro letterario, dove gli auctores di Belpoliti vengono trattati come testimoni a carico di una tesi - la crisi dell'intellet-tuale-scrittore negli anni settanta - che forse non terrebbe alla prova di autori deliberatamente esclusi (Paolo Volponi, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, lo stesso Moravia). È un libro maniacale, dove la passione bibliografica per le lettere private e le lettere aperte, le schede di lettura e le quarte di copertina, trasforma in evento anche il più modesto degli interventi giornalistici, il più burocratico dei passaggi editoriali (si potrebbe definire Belpoliti come lui stesso definisce Pasolini: un "divoratore di dettagli"). Eppure, Settanta è anche un grande libro di storia, dove sapientemente si ricostruiscono le affinità elettive di una generazione intellettuale. Nel terribile decennio che va dall'"autunno caldo" del 1969 alla primavera del '78 - dalla Milano di piazza Fontana alla Roma di via Fani -, alcuni fra i maggiori interpreti di questa generazione si arrovellano intorno a problemi che sono poi i medesimi della società italiana nel suo complesso. Sciascia e Manganelli riflettono, ciascuno per suo conto, intorno al tema della prigione e della prigionia: ferita aperta in quell'Italia di carceri speciali, "supercarceri" e "car- vino si Marco Belpoliti Settanta UMudJ \ Ol^aO m un "Blob" Belpoliti chi è? di Lidia De Federicis ceri del popolo". Faticosamente dialogando l'uno con l'altro, Pasolini e Parise studiano i propri e gli altrui corpi sino a farne una chiave di lettura dell'intero Novecento italiano, riconosciuto come una tragedia corporale. Erede fortunato di Pavese, Cal-attarda sulla questione che porta molti giovani di allora in galera, e qualche vecchio all'obitorio: la "decapitazione dei capi", il nesso fra sacrificio rituale e moralità della violenza. Mentre Arbasi-no riconduce il tutto - operai e intellettuali, brigatisti e democristiani, vittime e carnefici - a puro effetto di linguaggio, avanti lettera. Di Alberto Arbasino, la nostrana Repubblica delle Lettere festeggia quest'anno, con unanime trasporto, le settanta primavere. Ma proprio il caso di Arbasino, che nei giorni del rapimento Moro ebbe il coraggio di rimontare le lettere del prigioniero sino a farne un grottesco pastiche, illustra tutta la gravità della vicenda intellettuale ripercorsa da Marco Belpoliti. Perché quanto avvicina l'autore di In questo stato a Manganelli e Calvino, Pasolini e Celati, è un fondamentale manierismo: non soltanto come scelta di gusto ma anche, più profondamente, come modo di essere. Dal loro comune maestro, Gadda, gli scrittori di cui sopra non hanno imparato solamente l'arte del rifacimento dotto e della citazione ammiccante, il segreto della letteratura au deuxième degré. Hanno imparato - chi più chi meno, chi felice chi infelice - a vivere la vita stessa come un esercizio di secondo grado. Esiste una correlazione fra il manierismo di questa generazione letteraria e la sconfitta della sinistra politica? Domanda cruciale, che Belpoliti si limita a suggerire nell'appendice bibliografica del suo volume. Quand'anche correlazione vi sia stata, restano da identificare la causa e l'effetto. L'investimento sulla maniera fu piuttosto un ritiro, un rifugio dell'in-tellettuale-scrittore di fronte al fallimento di ogni gramsciana città futura? Oppure il fallimento della politica fu accelerato (se non causato) dagli amori e dagli umori di certa nostra intellighenzia, che al chiaccheric-cio operaistico degli intellettuali organici non trovò da contrapporre se non la decostruzione e il gioco di parole, il luddi-stico ludo del post-moderno? Altrettanti interrogativi per gli storici di domani. Ma fin d'ora una cosa è sicura: nei prossimi anni, chi vorrà rispondere farà bene a conservare il pionieristico saggio di Belpoliti in bella vista sulla scrivania. ■ Sergio.luzzattoSlibero.it Nato a Reggio Emilia nel 1954, Marco Belpoliti è saggista e scrittore. Ha pubblicato da Einaudi il saggio L'occhio di Calvino (1996) e apprestato nel 1997 l'edizione delle Opere, di Primo Levi e del volume Conversazioni e interviste. È condirettore di "Riga". Collabora a quotidiani e settimanali. Nient'altro dice il risvolto di copertina. Di anno in anno Belpoliti precisa la propria fisionomia, riducendola all'essenziale per via di esclusione. Altre notizie si trovano qua e là negli altri suoi libri: come i titoli dei giornali sui quali scrive, "il manifesto", "La Stampa", "L'Espresso"; e prima l'esordio da narratore (1986) con racconti nell'area di Gianni Celati, e due romanzi; non solo la direzione di "Riga", ma la cura di numeri speciali di cui uno su Arbasino recentissimo (18, marzo 2001) assieme a Elio Grazioli; e la direzione per Bruno Mondadori (dal 1998) della "Biblioteca degli scrittori", una collana di monografie che spiega, nella premessa, la nozione di "ipertesto cartaceo". Settanta riassume molte esperienze. È un'opera di saggismo narrativo. Ha incipit da romanzo, spesso con una data. Incomincia con "Era il giorno della morte di Moro" e si chiude come un cerchio sulla soglia di quella morte nel Settantasette. Fra l'inizio e la fine non lascia scorrere una sequenza storica, bensì la conversazione degli intellettuali che interagiscono fra di loro e con gli eventi, nei canali tipici dell'allora società letteraria: articoli e interviste, polemiche, lettere e libri. Belpoliti in sette capitoli racconta altrettante storie di scrittori. Rinuncia invece a rendere esplicita la propria, rinuncia alla sfida della prima persona per sciogliersi in una storia collettiva. Nella composizione dei Settanta è sottesa l'idea dell'"ipertesto". Ogni capitolo ha un nucleo, un centro da cui si diparte la rete delle connessioni. Nel primo è la vicenda di Sciascia durante il caso Moro. Nel secondo è la storia parallela di Pasolini e Parise. Nel terzo è il Calvino del Sessantotto fuoruscito a Parigi. Nel capitolo centrale ricompare Celati a proposito della rivista "Ali Babà". Nel quinto Calvino e Manganelli. Nel sesto Calvino e Parise. Nel settimo ecco la Bologna carnevalizzata. Tornano dappertutto gli stessi episodi e personaggi. Ma è invece variegata e larga la rete degli allacciamenti. Chiunque, secondo le intenzioni dell'autore, può aprire il volume dove gli piace e tirarne un filo. Belpoliti, nel dar forma al rapporto fra sistemi letterari e extra, ha scelto la collaudata mediazione biografica: centralità dell'autore in quanto unità semantica. Testa che pensa. Critico che milita. Ha riempito la scena con la generazione degli anni venti. A farne il bilancio ha chiamato però la propria generazione, ben visibile nella ragionata bibliografia. In questa pagina intervengono uno storico e un letterato, entrambi nati nel 1963, Sergio Luzzatto e Giuseppe Traina, che con Belpoliti ha collaborato. (Parlando da lettrice, devo aggiungere che nello specchio della letteratura e della politica solo metà del cielo si è vista riflessa. È tutto maschile l'intellettuale che si è pensato protagonista. E anche dell'aborto, anni settanta, discutono Pasolini Parise Manganelli. Do a tale constatazione il massimo della neutralità. Ma è stato così?) Marco Belpoliti SETTANTA pp. 302, Lit 32.000, Einaudi, Torino 2001 Farsi le storie di Giuseppe Traina Settanta è frutto di una scommessa con se stessi: raccontare la letteratura come fosse una storia, senza per questo fare "storia della letteratura"; raccontare storie di scrittori come fossero storie della società che le ha generate. E a patto che queste "storie di scrittori" non siano soltanto le storie dei loro libri ma le storie del loro agire complessivo: progetti di libri o riviste, abbozzi di romanzi o romanzi incompiuti, idee scartate, lettere, articoli di giornale, prefazioni per libri altrui, polemiche, risvolti di copertina. E silenzi. Le crisi (parola ricorrente nel libro) di Sciascia, Arbasino, Pasolini, Parise, Calvino, Celati, Manganelli, si rivelano le crisi stesse della società italiana degli anni settanta; i nodi (altra parola-chiave) che essi non seppero sciogliere sono quelli ereditati dal decennio successivo, che infatti apre la porta a una letteratura ormai diversa, mentre gli anni settanta segnano, in questa prospettiva, la fine del XX secolo. Talché la parabola di Umberto Eco dalla saggistica alla narrativa è "un modo complesso e certo indiretto per fare i conti con quell"istinto di morte', con l'elemento biologico, che la vicenda di Moro ha messo prepo- tentemente al centro dell'attenzione". La morte di Moro e quella di Pasolini sono infatti i due buchi neri del decennio, sacrifici senza catarsi, tragedie individuali ma catalizzatrici di una diffusa tendenza allo spreco di energia. Non sarà un caso che Belpoliti proceda con un metodo fondato su una serie di confronti binari: Parise-Calvino, Parise-Pasolini, Calvino-Celati, Manganelli-Calvino, e ovviamente Calvino-Pasolini (ma in termini alquanto diversi da quelli adoperati qualche anno fa da Carla Benedetti). Un metodo che si dimostra particolarmente adatto ai giudizi molto netti del nostro autore, sempre capaci di suscitare una riflessione o una discussione, sia quando appaiono meno convincenti ("Sciascia è uno scrittore di stati d'animo, è fondamentalmente uno scrittore di umori") sia quando si rivelano illuminanti ("al visivo di Calvino, all'occhio come strumento indagatore degli indizi, Celati preferisce le metafore auditive, la musica, il tono, la voce"), talché questa tendenza a riassumere un autore attraverso uno "stemma" riesce a lasciare aperte ulteriori ipotesi di lavoro. Il procedimento binario restituisce inoltre il senso di una frammentazione del dibattito intellettuale tipica degli anni settanta: dopo il sanguinoso avvento delle Brigate Rosse non ci sono più movimenti collettivi die- tro l'agire dello scrittore, c'è piuttosto l'acuirsi di umanissimi sentimenti. Se questi scrittori - con maggiore o minore consapevolezza e capacità di formalizzazione - si fanno interpreti e testimoni di persistenze e mutamenti agenti nell'intera società, allora "nel mezzo della crisi politica e sociale degli anni settanta, i sentimenti negati divengono, volenti o nolenti, simboli d'identificazione collettiva. Dalla paura all'angoscia, dalla gelosia all'invidia, la società italiana si alimenta di se stessa e delle proprie malattie storiche". Gli scrittori, con le loro contraddizioni, e Calvino più di tutti (non c'è quasi pagina del libro in cui il suo nome manchi) esprimono così le tendenze antropologiche di fondo di tutta una società. Ma perché Belpoliti ha scommesso sulla narrazione? Perché, parafrasando Eco, ciò di cui non si può scrivere deve essere narrato; perché Belpoliti ha conosciuto quel decennio in prima persona. Leggendo l'ultimo capitolo del libro - dov'è ricostruita la Bologna-Wonderland di Gianni Celati, Piero Campo-resi, Carlo Ginzburg e delle mongolfiere di Giuliano Sca-bia -, ci rendiamo conto di quanto Belpoliti stia dentro questo libro. Insomma, parlando dei suoi personaggi egli ha finito per parlare di se stesso: ha raccolto l'invito (formulato da Celati in quel fatidico '77) a riscoprire il "piacere di raccontare storie e di 'farsi' delle storie nella propria vita". ■