Narratori italiani Memorie di relitti di Pietro Spirito Salvatore Mannuzzu ALICE pp. 172, Lit 26.000, Einaudi, Torino 2001 Roberto Alajmo NOTIZIA DEL DISASTRO pp. 187, Lit 25.000, Garzanti, Milano 2001 va): è un'immagine fortemente simbolica, ed è la foto che il protagonista del racconto trova sulla scrivania della sua compagna, Lula. Piero è un magistrato cinquantenne, divorziato e in procinto di lasciare anche Lula per amore di Candida, collega di cui si è innamorato. Nelle more di una situazione sospesa, in cui temporeggia fra l'una e l'altra, Piero trafficando con il computer di Lula scopre un file criptato. La curiosità lo spinge a provare a caso alcuni codici finché, ispirato dalla foto del relitto, tramite la parola "Alice" riesce a decrittarlo. E si trova di fronte un diario nel quale Lula confida un segreto ve al brigantino: come se si trattasse della stessa storia; o almeno di storie intrecciate fra loro e l'una dicesse qualcosa dell'altra". La lezione è conseguente: "Che è così, senza ammainare vele e bandiere, che si va incontro alla rovina; e che alla fine si torna, vestiti dell'abito quotidiano, sul luogo del delitto: dove s'è perduto quel che era nostro". Con l'eleganza formale che gli è consueta, Mannuzzu elabora una storia di forte impatto emotivo, di segno netto e preciso, dove la realtà fattuale - il relitto, la memoria - diventa la chiave, il codice, per tentare di accedere ai recessi della coscienza. ne. L'esito è un racconto mozzafiato, teso e ossessivo, pieno di quelle umanissime incongruenze, coincidenze, incidenze e follie che compongono l'humus della vita quotidiana, e che solo in occasione di violenti e improvvisi corti circuiti vengono proiettate allo scoperto. In queste pagine Alajmo mette a buon frutto una delle sue capacità migliori, di cui ha già dato sfoggio nei vari "repertori de' pazzi": l'osservazione minuziosa, disincantata, impietosa, a volte persino irriverente e indiscreta delle vite altrui. Mischiando la sensibilità curiosa del cronista al pathos del narratore, Alajmo riesce a fare del disastro di Punta Il reportage letterario o storico letterario, il romanzo-saggio, l'inchiesta-romanzo sono alcune delle forme intorno alle quali si interroga parte della narrativa corrente, con esiti spesso felici. Partire dalla realtà effettuale, da una cronaca, da una vicenda accaduta in un passato recente o lontano per imbastire narrazioni di più ampia portata e diverso respiro sembra essere risposta adatta a esigenze narrative svincolate da una fiction che a molti appare inflazionata o incapace dì efficace rappresentazione. Si può prendere ad esempio il recente L'abusivo di Antonio Franchini, dove la vicenda personale del narratore si intreccia con l'inchiesta sul caso Siani, in un continuo rovesciamento di prospettive a tutto beneficio del "dramma"; oppure il programmatico Fiction di Giulio Mozzi, dove cronaca e invenzione si sovrappongono in un non distinguibile miscuglio tenuto insieme da un robusto collante etico. In ambedue i casi è il dato fattuale il motore primo della ricerca, e poco importa se ciò nasce dal bisogno di rispondere alla dilagante virtualità dell'esistenza. L'elemento fattuale, dunque, l'accadimento reale. Come naufragi e disastri, da sempre vettori metaforici dalle vaste potenzialità espressive, che costringono il narratore a fare i conti con i temi fondanti di ogni estetica e di ogni poetica: vita/morte, salvataggio/catastrofe, continuità/discontinuità eccetera. E ai due estremi di un percorso che da un lato si orienta verso esiti più aderenti alla metafora, dall'altro cerca nei dettami della cronaca suggerimenti allegorici, potremmo collocare il romanzo Alice di Salvatore Mannuzzu e il racconto-inchiesta Notizia del disastro di Roberto Alajmo. Nel rievocare il naufragio della vita affettiva del suo personaggio, Piero, Mannuzzu prende spunto dal naufragio del brigantino francese Alice, arenato alla foce del Columbia River agli inizi del Novecento. Il lettore ne ha conoscenza pretestuale: la foto del relitto campeggia sulla copertina del libro, e l'autore ne dà accurata descrizione nelle prime pagine del romanzo. Lo scafo semisommerso e inclinato nell'acqua bassa, le vele a brandelli, tre uomini variamente disposti intorno al vascello abbandonato (uno lo sta raggiungendo a piedi dalla ri- Padova di Lidia De Federicis Giulio Mozzi è nato nel 1960. Il lettore comune non è tenuto a saper dove, perché di questo non l'informano le brevi biografie delle copertine. Quel che invece deve sapere è l'indirizzo, che di libro in libro gli viene ufficialmente comunicato: via Michele Sanmicheli 5/c, 35123 Padova. Cominciamo dunque, da lettori, a prender atto dell'uso privato che Mozzi fa del paratesto. Lì, nei contorni che al testo fanno da supporto e ne orientano la fruizione, Mozzi ringrazia e indugia: sulle occasioni della propria opera e sulle sue sostanziali ragioni, come la conturbata cattolicità e la poetica del non romanzo che governano i due libri usciti a ridosso in meno di un anno da Einaudi, Il culto dei morti nell'Italia contemporanea, un poema o polimetro di circa tremila versi, e la raccolta narrativa Fiction (pp. 272, Lit 28.000, aprile 2001). Perché dunque fermarsi all'indirizzo che Mozzi rilascia così volentieri? L'insolito segnale avrà uno scopo pratico e appartiene alla cronaca. Ma il conoscitore di Mozzi ha appreso da tempo quanto conti per lui l'umile cronaca e quindi è tentato d'interrogarsi sull'implicito che il segnale trasmette. Una risposta tendenziosa può essere che Mozzi resta fedele a una cifra di scrittore in cerca della realtà creaturale e perciò, volendo sottrarsi ai linguaggi delle tecnologie, evade nell'estremismo e nel localismo: l'estremismo dei temi a sfondo cosmologico e il qui e ora dello spazio terrestre occupato da ciascuno. Una risposta più concreta (comportamentale, generazionale) ci rimanda specialmente al dopo Tondelli e a un tipo di scrittore per il quale scrivere è incontrarsi; e a ciò servono appunto le scuole di scrittura. Mozzi a Padova ne ha fondata una nel 1993 e l'ha chiamata Piccola scuola di scrittura creativa, quasi una confraternita; e ha ripreso il progetto di Tondelli curando con Silvia Ballestra un'antologia di giovani, Coda. Undici "under 25" nati dopo il 1970 (Transeuropa, 1996). Mozzi dichiara che "la scrittura non è un'attività solitaria" e apre agli incontri e abbonda nel citare nomi e accoglie in Fiction anche testi sotto nomi altrui, di Franco Briz-zo e del fotografo Carlo Dalcielo e della splendida Giovanna Melliconi (nata nel 1980 a Vignola, stiratrice di professione). Identità finte, nel doppio senso che deriva da fiction e da fictio: persone inventate, modellate secondo gli intenti auto-riali. (E che voce convincente ha Giovanna Melliconi su un caso di maternità punitiva! ). Un trucco adatto alla struttura di questo volume. Narratore in versi e in prosa, da solo o meglio in compagnia, con parole proprie o ricorrendo al montaggio di frasi stupide (vedi II culto dei morti) o creando a quattro mani con Bruno Lo-rini o con Giuseppe Caliceti o Stefano Brugno-lo, e istruendo seguaci e animando serate e performance, Mozzi si comporta da aggiornato scrittore-artista, che può persino seguitare le procedure novecentesche e neoavanguardisti-che dell'agire il testo in pubblico, ma con distacco da quell'espressività. Confondendo il testo nel paratesto e 0 singolo nel gruppo misto di veri e finti amici, celebra la cosiddetta morte dell'autore e (forse) la fine della letteratura. O al contrario il gruppo stesso e il comportamento, e insomma la vita, gli diventano letteratura, modalità retorica? E un problema su cui Mozzi da parecchi libri rimugina. Intanto ci chiama a sé e mette il libro al centro di una rete di relazioni. Fiction raccoglie sedici pezzi, di cui uno ha impianto teorico, Narratology. A raccontare storie, per la maggior parte nere, sono i protagonisti; normali esseri umani che II male natura- passato: Franz, il fratello di Piero morto da qualche tempo, la insidiava, forse l'amava, forse l'ha avuta. Da quel momento per Piero inizia una nuova ossessione, e il magistrato avvia un'indagine sentimentale dagli esiti più che mai incerti. Il padre anziano, la figlia lontana, la sua ex moglie: Piero interroga il presente e il passato alla ricerca di una spiegazione, di una verità che sfugge. Sarà la stessa Lula, alla fine, a sciogliere il nodo nel modo più drammatico. A Piero non resterà che considerare - osservare - la sua vita alla stregua di un relitto, chiedendosi il perché del naufragio, misterioso come quello del brigantino Alice. Anzi, le domande, scrive Mannuzzu, "si mescolano a quelle relati- Tn tutt'altra direzione si muove JjUajmo, che senza inventare una sola virgola ricostruisce la tragedia del DC 9 precipitato in mare a poche centinaia di metri dalla pista di Punta Raisi la notte del 23 dicembre 1978. Morirono oltre cento persone, se ne salvarono ventuno. L'inchiesta di Alajmo non è però rapporto giornalistico. Più che alle cause e alle responsabilità - di cui si dà conto alla fine del libro - all'autore interessa l'intreccio dei destini, delle vite. Da narratore, Alajmo cerca con accanimento un significato, un simbolo, nelle pieghe di tante esistenze unite da quell'unica tragedia. Il libro nasce da un'accurata disamina documentale e da un'altrettanto accurata ricerca sul campo, ma il testo dà spazio alla sola narrazio- Raisi il regesto metaforico di tante vite rimaste intrappolate per sempre al bivio tra caso e destino. Anche qui c'è un relitto, il troncone anteriore dell'aereo recuperato dal mare. E anche questo relitto è oggi memoria, segno di una storia trascorsa alla quale, come a molte altre storie, può toccare in sorte l'oblio. Quel pezzo d'aereo, scrive Alajmo, "lo si vede ancora oggi percorrendo l'autostrada Palermo-Catania. Al generale Massimo Fabbricatore [uno dei superstiti] capita spesso di passare davanti a quel mozzicone d'aereo da cui è scampato, ma sostiene di non provare sentimenti particolari. Né sollievo né ansia né memento mori. Niente di niente". ■ p.spiritoSlibero.it Una precisione ipnotica di Monica Bardi Marosia Castaldi IN MARE APERTO pp. 126, Lit 15.000, Portofranco, E Aquila 2001 Il titolo di questo nuovo libro di Marosia Castaldi, che raccoglie scritti diversi composti nell'arco di più di quindici anni, allude alla visione a 360° di un navigatore ideale, quasi un naufrago che attraversa tempeste e bonacce e scruta l'orizzonte, si volge indietro, tenta nuove vie. Il punto di partenza è una meticolosa ricognizione spaziale (fissata dalla descrizione di strade, case, stanze, locali) da cui emergono via via, in negativo, le figure del racconto e del resoconto autobiografico. L'impressione, tuttavia, è che nessuna figura avrebbe consistenza se il contesto, cioè lo spazio e i suoi cambiamenti, non fosse così scrupolosamente misurato e descritto. Ed è la materia di polvere e oggetti e sangue che conosciamo dai romanzi precedenti di Marosia Castaldi a costituire lo spazio e a comporre il paesaggio, dando luogo a un intimo, consumato dialogo con i vivi e con i morti. Manca nel testo ogni argine all'entropia inevitabile di questa scrittura materica, astratta, che procede per accumulazioni. Da qui uno sperimentalismo estremo sia nell'uso della punteggiatura che nella disposizione grafica della poesia: splendido in questo senso il tentativo di procedere in una definizione per via negativa e differenziale, attraverso un levare e un negare che si fonda sulla ripetizione di "nemmeno" nella sezione intitolata Non paesaggi: "Né grida né urla nemmeno occhi sgranati all'ignoto nemmeno silenzio nemmeno grida nemmeno luci né mani di bimbo nemmeno madre nemmeno donna nemmeno una cosa si tratta così" (Stupro). Per la precisione con cui la scrittrice nomina e pietrifica gli oggetti, le ossessioni e le situazioni, il testo assume un potere ipnotico, fascinatorio, in un gioco di rimandi interni e, per chi conosce l'opera di Marosia Castaldi, di allusioni ad altre storie e a personaggi che vivono altrove. Tale effetto è ottenuto attraverso un massimo di densità e di precisione: esemplari, per la raffinatezza della scrittura, i tre ritratti delle città di Milano, Napoli, Verona. Un testo vario, libero, aperto, dunque, nella cui trama si avverte però il filo rosso di un presentimento di morte, quasi in un tentativo di addomesticamento progressivo o di allenamento interiore: "Col tempo anche i percorsi quotidiani sono diventati come una mappa scaramantica della mia vita (...) una ragnatela dentro la quale si svolge il mio tempo. Al centro della ragnatela, come direbbe Baudelaire, c'è solo un bersaglio: la morte". ■