r indice ■■dei libri del meseBI Conversazione di Andrea Bajani con Bosonetto, Cavaglion e De Federicis Andrea Bajani La scrittura è testimonianza, è il racconto che viene dopo il fatto. Su questo si gioca la trama del tuo romanzo. Nonno Rosenstein è un reduce dai campi di sterminio nazisti, ma nega la loro esistenza. Perché? Marco Bosonetto La rimozione di Simon Rosenstein dev'essere totale, deve coinvolgere il destino di tutte le vittime dell'Olocausto, non solo quello di Simon stesso. C'è un brano dei Sommersi e salvati di Primo Levi che sembra il riassunto del mio romanzo. Parla di persone che hanno attraversato l'esperienza del Lager e che "provano ripugnanza per le cose fatte o subite, e tendono a sostituirle con altre. La sostituzione può cominciare in piena consapevolezza, con uno scenario inventato, mendace, restaurato, ma meno penoso di quello reale; (...) la distinzione tra vero e falso perde progressivamente i suoi contorni, e l'uomo finisce col credere pienamente al racconto che ha fatto così spesso e che ancora continua a fare, limandone e ritoccandone qua e là i dettagli meno credibili, o fra loro incongruenti, o incompatibili con il quadro degli eventi acquisiti: la mala fede iniziale è diventata buona fede". Peccato che all'Einaudi se ne siano accorti in pochi e alla fine la casa editrice abbia respinto il mio libro giudicandolo "irriguardoso" anche per un riferimento a Levi. Forse è una forma di riparazione tardiva per il rifiuto di Se questo è un uomo nel 1946. Certo il mio non è un libro liturgico, Simon come reduce è tutto fuorché solenne. Ma credo che il rischio della banalizzazione, quando si parla della Shoah, risieda proprio nei cliché e nelle liturgie. bajani L'ironia, la comicità, così presenti in Nonno Rosenstein nega tutto, segnano la tendenza dominante di tanta narrativa contemporanea. E forse un indice di disillusione? Lidia De Federicis Ma in questo romanzo l'aspetto comico non è esclusivo. C'è infatti un doppio registro. La comicità - che ci disturba quando investe anche temi intoccabili - implica il filo sotteso di un serio messaggio reso esplicito dalla conclusione: là dove in sogno si avvera la speranza della Terra Promessa a tutti (quel che Cases sintetizzava anni fa nell'utopia del poter essere miti "senza essere vittime"). Aggiungo ancora qualcosa sul valore attuale dell'ironia. Viviamo in un'età confusa, di passioni e di bugie, di maschere moltiplicate. L'ironia di Bosonetto, a tratti sguaiata e spesso irresistibile (assai spiritoso il suo "celeste Fruttivendolo", detto così per via della mela; e ben giuocati i "Poeti di Razza"), può essere un segnale positivo, un appello alla ragionevolezza, un antidoto contro luoghi comuni e fedi pietrificate (e fanatismi e revisionismi o negazionismi). Bajani II romanzo di Bosonetto scomoda l'evento più tragico... Alberto Cavaglion È vero, Bosonetto "scomoda" la Shoah, ma, per nostra fortuna, Nonno Rosenstein nega tutto non è un'operazione commerciale, scaltra, come il film di Benigni. Bosonetto non è Cerami. Ha assimilato bene Singer e i suoi capitoli hanno il ritmo della musica klezmer. Il libro a me sembra soprattutto una satira di quelli che sono definiti "i dopolavoristi del negazionismo": i vari Mattogno che negano l'esistenza delle camere a gas. E altresì una parodia dello Shoah business, o meglio degli effetti perversi che l'eccesso di memoria produce anche nel nostro paese. Nel demi-monde descritto da Bosonetto non sfigurerebbero il professor Marsiglia di Verona, che ha ritrattato tutto come Nonno Rosenstein, oppure la preside di quella scuola che in queste settimane, non sapendo a chi intestare il proprio istituto, ha scartato il nome di un bambino morto davvero ad Auschwitz e ha optato per La vita è bella. Scuola Media Statale "La vita è bella": la realtà, in Italia, supera l'immaginazione, per altro vulcanica, di Bosonetto. bajani II tuo libro sembra un manifesto contro una certa narrativa ombelicale e giovanilistica che è stata, e in parte è tuttora, à la page. Alla microvicenda del giovin scrittore opponi la grande Storia con la S maiuscola... Bosonetto Mi limito a scrivere storie che non mi annoino. E la biografia della maggior parte dei trentenni dell'Occidente oggi rischia di essere molto noiosa. Una specie di Grande Fratello con i congiuntivi (o anche senza, ma apposta). Credo che un'occhiata fuori dalla cameretta ogni tanto sia opportuno darla. Soprattutto in tempi in cui di Storia si occupa gente della caratura di Storace. La scelta dell'Olocausto è stata dettata dall'esigenza di parlare di un evento tanto traumatico da indurre una persona a sposare la tesi dei suoi nemici pur di anestetizzare la sofferenza del ricordo, "una sofferenza tanto grande da spingere un uomo a rimodellare la Storia per procurarsi una biografia decente", se mi è permesso au-tocitarmi. Bajani Bosonetto si tuffa nella Storia. Eppure molta narrativa contemporanea sembra quasi negarla, la Storia. De Federicis Qui è giusto scrivere Storia con la maiuscola, per contrap-porne la micidiale grandiosità alle vite spicciole e spezzate. Di grande Storia racconta infatti Bosonetto. Racconta di Auschwitz, un evento che ha avuto la massima risonanza simbolica, e di varie altre specie di massacri e massacratori. Ma in ciò non è un'eccezione. Di storia oggi si affabula molto e in un'ampia tipologia testuale. Tanto che il genere stesso del romanzo storico conosce una nuova fioritura e nuovi e un po' speciali autori. La novità di Bosonetto sprizza invece dall'attrito fra il piglio del racconto e la materia. È insolita infatti la contaminazione fra quella storia e questo stile, con il parlato basso, il gioco linguistico, l'iperrealismo, l'irriverenza: lo stile finora preferito dalle avanguardie giovanili. Bajani Questo libro è un'occasione per un bilancio del Novecento? Cavaglion Non gli attribuirei una responsabilità così grande. Come nel precedente suo romanzo, Il sottolineatore solitario, Bosonetto è maestro nel genere della parodia, fa venire in mente il primo Arbasi-no. Non a caso l'epicentro del libro rimane la biblioteca. Sot-tolineatori di libri, osservatori metafisici di libri negli scaffali. Questo non vuol dire che sia un'operazione colta. E uno scrittore giovane, che piace molto ai giovani. Pieno di talento, dotato di uno stile ironico particolarissimo, perlustra la società dei nostri giorni con occhio divertito. Per questo dobbiamo seguirlo con attenzione. ■ Progetto Resurrezione Marco Bosonetto, Nonno Rosenstein nega tutto, pp. 166, Lit 22.000, Baldini & Castoldi, Milano 2000 Affabulatori si nasce, non si diventa, e Marco Bosonetto è senza dubbio uno dei più talentosi. Già nel suo romanzo d'esordio, Il sottolineatore solitario (Einaudi, 1998), di storie ne aveva raccontate a bizzeffe, mirabolanti e paradossali, disegnando un mondo simpaticamente cartoonesco che a tratti ricordava le avventure di tanti personaggi di Pennac. Con il secondo romanzo, Nonno Rosenstein nega tutto, Bosonetto raddoppia la puntata, coniugando le mille storie e i mille personaggi del Sottolineator'e con la Storia dalla "S" maiuscola, quella dei grandi fatti e delle grandi tragedie, quella, nella fattispecie, dello sterminio dègli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nonno Rosenstein è un reduce da Auschwitz, un ebreo che passava la vita a girare il mondo con il clarino tra le mani e con al seguito la sua banda di keltzmorin, un esuberante che sembra uscito da un romanzo di Hrabal. Questo fino alle guerra. Poi Rosenstein torna dai campi di concentramento e comincia a scrivere un diario, che finirà tra le mani di Viola Evaga (già personaggio del Sottolineatore, così come il bibliotecario Silvano Biula, nipote di Rosenstein, il commissario Pierangelo Vairos e Anna Crono) portando alla luce una terrificante verità: la Shoah non è mai esistita. L'Olocausto è soltanto il frutto di un fantomatico "Progetto Resurrezione", un grande inganno orchestrato dalle grandi potenze avversarie di Hi-der. Il nonnetto di Varsavia finisce così vittima dei raggiri di una setta strampalata di negazionisti internazionali, in cui confluiscono personaggi degni della migliore tradizione comico-surreale di casa nostra (del resto chi non penserebbe, incontrando il bizzarro don Zaffa di Bosonetto, al don Bifferò della benniana Compagnia dei celestini.?). Nonno Rosenstein, alla fine, nega anche la sua negazione. Confessa cioè di avere dato fiato alla sua (falsa) teoria simil-nega-zionista perché incapace di sopportare il dolore della memoria dei campi di concentramento e dello sterminio. Bosonetto toglie così ogni dubbio, liberando il lettore da qualsiasi possibile fraintendimento. Eppure, se anche Bosonetto avesse lasciato spazio a qualche ambiguità, Nonno Rosenstein non sarebbe stato comunque un romanzo irriguardoso. Mettere a soqquadro la Storia, nel modo in cui lo fa Bosonetto, non può che essere un invito a raccontarla di nuovo (sia detto, naturalmente, da un punto di vista narrativo e non storiografico). Bosonetto ha avuto il coraggio di stimolare uno sguardo strambo, diverso anche sul genere comico e sulla sua utilità. Operazione doverosa, in un periodo in cui forse si vorrebbe che gli scrittori comici fossero soltanto divertenti, rassicuranti e inoffensivi. Un po' come scimmiette da circo. Andrea Bajani Torino Torino, città tradizionalmente minore nella geografia della letteratura, ha un insolito risalto verso lo scorcio del secolo. Attorno a Torino è fiorita infatti negli ultimi anni una svariata narrazione. E in questo momento stanno sul banco della libreria il secondo romanzo di Marco Bosonetto, cuneese di trent'anni (passato da Einaudi a Baldini & Castoldi), e il terzo, Lampi nella nebbia (Marsilio), di Gianni Farinetti, torinese, anni quarantasei; il settimo, Romanzo di un ingenuo (Sperling & Kupfer), di Pansa, nato a Casale Monferrato nel 1935; e La vera storia di Rosa Ver-cesi e della sua amica Vittoria (Einaudi), di Cero-netti, nato a Torino nel 1927, scrittore anomalo che, oltrepassato il numero di trenta titoli, saggia ora la formula del racconto-ricerca. Editori diversi. Diverse fasce d'età. Interessante miscuglio d'autori piemontesi. Non mi fermo tuttavia su di loro. E neppure su Torino città-laboratorio. Penso invece alla Torino che entra nel romanzo tematicamente e prende posto fra le nostre visioni. La Torino romanzesca è stata costruita sul rapporto ambiguo che la sua forma suggerisce: tra il fuori e il dentro, tra l'ordine formale e la deformità delle vite, geometria e anarchia (di segrete pulsioni). Forma di nobili edifici sui quali s'affacciano però le escrescenze maligne degli abbaini. Dunque, nella realtà romanzesca, un tipico luogo di contraddizione; o un luogo comune? Alla città visibile Farinetti è ben attaccato. Pare che racconti il nebbioso enigma dell'amore e della morte. Ma quel che davvero gli riempie le pagine è invece una leggibilissima guida al paesaggio urbano, una mappa esattissima. Per il lettore di casa non sarà facile resistere alla seduzione di certe vedute che l'autore stesso a romanzo concluso gli addita ; così "l'imboccatura rosata di via Provana, la scuola elementare Niccolò Tommaseo di via dei Mille (e in special modo i due platani e il frassino nel cortile della medesima)". Bei nomi risorgimentali virati in rosa e verde. Bosonetto al contrario fa correre i suoi antieroi in mezzo al traffico di strade anonime e nell'eccesso di iperboliche ridondanze. Ma a metà libro si concede un buon passo di realismo grazie alla precisione dell'indirizzo, "in corso Re Umberto, al numero 75 " ; e subito ecco raffigurate in poche frasi piatte e con totale trasparenza le scale dove precipita Primo Levi. Ceronetti è come Farinetti (o viceversa). Si serve di un caso giudiziario del 1930 per agganciarvi il tema che gli piace, l'invisibilità del profondo da cui discendono inspiegabili destini, "pulviscolo umano e cosmico". Ma quel che ci stampa in mente è una minuziosa toponomastica d'epoca, specie il "corso Oporto (dal 1945 Matteotti)", celebrato "Corso della Tranquillità" dove al numero 51 esplode "un eccitante ferragosto criminale". Il narratore Pansa è storico e politico. Di Torino negli anni cinquanta rievoca l'Università, una stanza in via Bogino, il mestiere alla "Stampa" e Mario Soldati che gli consigliò di andarsene, spiegandogli "a Torino c'è la monarchia". Stanco di domandarsi "perché il centro della nostra vita dev'essere una fabbrica di automobili", Pansa infine se ne andò. Dagli scrittori maestri, un Soldati appunto e Pavese e il Calvino di La giornata d'uno scrutatore (e Frutterò & Lucentini e Volponi), sono discesi i due o tre schemi di Torino, fra descrizione e astrazione, tuttora in corso. Ma dov'è finita la monarchia, dove la centralità di una fabbrica detta la Feroce ? (Peccato per i romanzi, ai quali si sa che gli antagonismi giovano). Chi ha bisogno di passioni e memorie non solo private può leggere in "MicroMega" (2000, n. 5) La morale laica: settant'anni di vita torinese riassunti da Alessandro Galante Garrone in una piccola autobiografia. Lidia De Federicis "Credo che il rischio della banalizzazione, quando si parla della Shoah, risieda proprio nelle liturgie"