N. 5 19 L Antropologia e storia fanon quarant' anni dopo I corpi della rivolta di Roberto Beneduce Frantz Fanon I DANNATI DELLA TERRA pp. 231, Lit 38.000, Edizioni di Comunità, Torino 2000 Ripubblicare un libro quasi quarant'anni dopo la sua prima edizione richiede sempre una certa dose di coraggio: significa riaffermarne l'attualità? E chi può misurarla? Forse è soprattutto la complessità dei problemi contemporanei a imprimere oggi un singolare spessore allo scenario, cruento ma lucido, che Frantz Fanon aveva disegnato dei rapporti fra coloni e colonizzati. Che cosa abbia da dire il suo libro agli immigrati delle banlieue europee o agli sfruttati delle periferie di questo pianeta torrido di conflitti è però domanda mal posta, dal momento che il suo discorso (il suo invito a scrollarsi di dosso il dominio coloniale, in primo luogo) non può pensarsi che dentro il contesto delle lotte per l'indipendenza degli Stati africani, della loro cogenza. Proviamo a guardare invece che cosa scriveva questo psichiatra, martinicano d'origine, formatosi in Francia negli ambienti di una delle più avanzate scuole di psicoterapia, che nell'Algeria coloniale tradusse la sua analisi della violenza psichica, culturale e materiale del colonizzato in un'analisi della necessità della rivolta. Proviamo a restituire alla sua opera la totalità dei profili che la caratterizzano, come già da tempo si è fatto oltre oceano (un titolo per tutti: Fanon: A Criticai Reader, a cura di L.R. Gordon, T.D. Sharpley-Whiting e R.T. White 1996). Nei Dannati della terra Fanon scrive del dominio coloniale sulla scena di un paese lacerato dalla violenza, dalla tortura, dalle stragi di civili. Scrive delle forme in cui tutto questo è interiorizzato dal colonizzato: nei suoi sogni e sintomi, nelle sue transes e danze rituali. Che queste ultime non siano solo strategie regressive o fughe dalla dura realtà del conflitto, il pensiero antropologico di quegli anni fa ancora fatica ad ammetterlo: ci vorrà del tempo perché in queste pratiche si riconosca il valore di un'azione efficace sulla coscienza individuale e collettiva, di resistenza culturale in grado di affermare isole di senso sottratte (e inaccessibili) al potere coloniale, e proprio in virtù di questo capaci di riprodurre memorie e discorsi controegemonici. Ciò diventa possibile perché quei rituali, quelle urla, quelle rappresentazioni dello sposses-samento e dell'alienazione si esprimono per mezzo di gesti e pratiche incarnate, che, se dalla tradizione ricevono la loro matrice originaria, dal presente e dai suoi tormenti traggono potenza e significato. Fanon vuole però spingere sulla lotta, sulla sua urgenza, e non può permettersi di indugiare su forme dissimulate di resistenza, su espressioni altre del politico: ciò nondimeno egli coglie, con molto anticipo sulla letteratura degli anni successivi che parlerà sempre più spesso di "embodimenf e di "embodiedpractices", la centralità del corpo per leggere rapporti di forza e di senso. Il corpo è quasi un'ossessione che trasuda da ogni sua pagina. Un corpo che dice la violenza, l'angoscia e la ribellione prima e meglio delle parole, più delle armi. Lo psichiatra ascolta quei corpi sofferenti che fremono nel corso di "sogni muscolari", che liberano di colpo la loro "aggressività sedimentata nei muscoli"; parla di colonizzati che si lanciano "a pieni muscoli", di "dimostrazioni muscolari" e di "orgia muscolare" (a proposito delle danze di possessione), senza tacere del silenzio al quale questi corpi sono altrettanto spesso condotti: "pseudopietrificati", come paralizzati da una "serenità di pietra". Il ruolo della nozione di "corpo" nei suoi scritti ha d'altronde una preminenza costante, se ricordiamo come si concludeva il libro altrettanto celebre scritto nove anni prima, a soli ventisette anni, Peau noire, masques blancs: "O mio corpo, fa di me un uomo che interroghi sempre! ". Potremmo dire che Fanon intrattenga con il corpo, a partire dal proprio corpo, un dialogo ininterrotto: ma perché stupirsene? Non ha sperimentato in prima persona egli stesso i conflitti razziali, lo scontro con l'immaginario bianco sulla sessualità nera (e il suo reciproco), i pregiudizi di chi, paziente, rifiuta di essere visitato da un medico "negro"? Senza staccarsi dalla pelle di uomini e donne colonizzati, egli ci obbliga però ad andare oltre sintomi e disturbi, prendendo il largo dalle diagnosi psichiatriche (in primo luogo da quelle che avevano scandito i manuali della psichiatria coloniale e riprodotto l'intollerabile immagine di un'alterità culturale infantile, impulsiva o "semplice") per ritrovare la storia, la memoria negata del trauma e della violenza quotidiani in questi uomini "incapaci di smobilitare i loro nervi". Nel suo fastidio verso la banalizzante naturalizzazione operata dalle diagnosi psichiatriche (come ad esempio da quella di "psicosi reazionale"), Fanon potrebbe essere pensato come un antesignano delle critiche alla recente e abusata categoria di Disturbo da Stress Post Traumatico, laddove sottolinea come non possa ridursi a un semplice evento scatenante la condizione di chi vive oppresso da un'atmosfera da "apocalisse". Egli può così anche disfarsi di quell'idea anodina di "cultura" che sedicenti etnopsi-chiatri come Carothers avevano messo al servizio della repressione dei movimenti di lotta nazionali e, quando ne coglie i rischi di "mummificazione", ricorda al tempo stesso il ruolo attivo che la colonizzazione e il dominio esercitano in questo processo. I dannati della terra è percorso però anche da altri motivi, e tutti sono ben lungi dall'aver esaurito la loro forza: meno per il carattere profetico di quelle pagine quanto piuttosto per il continuo riprodursi di contraddizioni, sopraffazioni, rimozioni (psichiatra, Fanon ha nei confronti di intellettuali di ieri e di oggi il non piccolo vantaggio di osservare tutto "O mio corpo, fa di me Fanon è un nero, familiare con i temi della négritude e con le secche alle quali stava andando incontro questo pensiero. I suoi scritti, che fanno incontrare l'inchiostro delle vicende individuali con le pagine della storia, hanno forza proprio perché l'analisi psicologica si muove insieme e dentro quella storica e sociale: nel sintomo, nell'inquietudine, non affiorano solo gli scacchi della nevrosi individuale quanto motivi razziali, ideolo- un uomo questo non attra- ^^^■KJRIIIJPMJinQ verso fatti, docu- j menti, ricerche ^^^^^^BsUUfis o statistiche, ma direttamente dalla voce e dagli occhi dei protagonisti: testimoni di eccidi e vittime di torture, individui la cui coscienza si sperava di spezzare infliggendo violenze ai loro corpi e colonizzando il senso stesso della loro identità: "l'avvenire dell'Algeria è francese"). Le sue critiche alla psicoanalisi di Mannoni e ai modelli che descrivono il presunto "complesso di dipendenza" del colonizzato, nonostante alcuni eccessi, ci avvertono con attualità inesausta dei limiti con i quali persino chi si è sporto a considerare le radici storiche della sofferenza o delle forme talora perverse che assumono le relazioni fra dominati e dominatori è rimasto spesso impigliato nella trappola del proprio etnocentrismo. gici, economici, dialettiche dell'inautentico, riflessi di un duplice e speculare narcisismo (quello dei neri e quello dei bianchi), conflitti che si "epi-dermizzano". Ma Fanon era scomodo per più versi, come dimostra la fredda accoglienza ricevuta da molti capi di Stato africani, perché, insieme agli effetti devastanti (psicologici e sociali) del potere e della violenza coloniali, egli intravedeva e denunciava i compromessi delle borghesie nazionali, l'amnesia delle élite per i problemi dei più diseredati. Mutati alcuni termini, il suo sguardo saprebbe cogliere altrettanto bene oggi le conseguenze nefaste dell'aggiustamento strutturale e le ipocrisie dei modelli di cooperazione allo sviluppo. E dominio coloniale non ha messo d'altronde di produrre nodi atroci. Anche laddove la guerra d'indipendenza ha trionfato, le violenze dell'epoca coloniale, l'erosione massiccia delle culture locali e dei legami sociali da essa determinata, si sono come sedimentate e paiono riemergere sotto forme nuove e non meno tragiche. Bisogna dunque andare al di là della nuda evidenza e risalire alle sorgenti lontane delle contraddizioni e delle violenze di oggi. Questo lo scrive Victor Taussig riferendosi a un altro contesto, la Colombia, ma buona parte delle sue intuizioni potrebbero valere infatti anche per il caso algerino, dove gli interessi economici, le lotte per il potere di bande e gruppi o i conflitti "religiosi" non arrivano a spiegare che una effimera parte di quella violenza agghiacciante che oggi, trasformatasi ormai in dispositivo autonomo, si "scarica" ancora una volta sui corpi inermi delle vittime. Forse la speranza di Fanon nelle capacità di cura delle lotte di liberazione e di indipendenza incontrerebbe nelle vicende dell'Algeria contemporanea una sconfitta dolorosa: tuttavia egli non si accontenterebbe di rimanere "perplesso", ne siamo certi, perché, con buona pace di Toni Negri ("il manifesto", maggio 2000), la perplessità gli era estranea. ■ rs.beneduce@cisi.unito.it La prima raccolta completa del Teatro e del Cinema di Pasolini i Meridiani Meridiani a cura di Walter Siti e Silvia De Laude con due interviste a Luca Ronconi e Stanislas Nordey a cura di Walter Siti e Franco Zabagli con due scritti di Bernardo Bertolucci e Mario Martone e un saggio introduttivo di Vincenzo Cerami due tomi indivisibili MONDADORI http://libri.mondadori.com ■