Politica < dell'Arcipelago, ma senza successo: e lo capisco. Salamov nei suoi racconti non ha un attimo di dubbio, a differenza di Solzenicyn: il lager è solo una mostruosa, inaccettabile, umiliante violazione dei più elementari diritti umani. Ed è forse per mantenere fede a questa sua convinzione che ha preferito restare narratore dei misfatti di Kolyma e non cronista òc\V Arcipelago. Fa bene perciò la Spinelli a citare le sue categoriche parole a proposito dei reclusi nei lager. "Qualcosa di criminale si è radicato per sempre nella loro anima (...) Il lager è una scuola di vita negativa in tutto e per tutto, sotto ogni punto di vista. Nessuno ne riporterà mai qualcosa di utile e di proficuo (...) Ogni minuto della vita in un lager è un minuto avvelenato. In esso ci sono molte cose che un uomo non dovrebbe sapere né vedere mai, e se le ha viste, meglio sarebbe per lui morire". Parliamo delle duemilacinquecento pagine àéXArcipelago e cerchiamo di rintracciarne qualche linea di lettura. Vi si intrecciano quattro livelli: l'esperienza personale dell'autore, le testimonianze di altri zek (sigla per condannati), raccolte in un ventennio direttamente o da terze persone, i materiali storici, di archivio, volti a dimostrare sia la vastità del fenomeno sia il suo sviluppo storico e l'ingigantirsi ri- spetto alla situazione zarista (Solzenicyn insiste sul dilatarsi a dismisura della repressione in epoca sovietica) e per ultimo le considerazioni a carattere generale. L'esperienza personale è molto nota (viene accuratamente ricostruita da Maurizia Calusio nella utilissima cronologia iniziale: a lei si devono altri due lavori encomiabili, la revisione della traduzione della Olsufieva risalente agli anni settanta, e un indispensabile sommario delle varie parti e relativi capitoli, che permette di orientarsi in un materiale oceanico): arrestato nel 1945 a ventisette anni con l'accusa di aver espresso "opinioni disfattiste" in alcune lettere inviate dal fronte ad un amico, subisce interrogatori, violenze, vessazioni, e viene condannato a otto anni di lager che sconta fin al 1953. La sua vicenda è narrata in ogni dettaglio, in ogni fase (prima tre parti: L'industria carceraria, Moto perpetuo, Sterminio con il lavoro): Solzenicyn, cerca di far capire al lettore il funzionamento del sistema, i meccanismi di coercizione, i soprusi coperti da articoli del Codice, le torture mascherate da procedure d'urgenza. Intreccia la propria storia a quella altrettanto (e forse ancor più) crudele di molti altri, come lui finiti nel "tritacarne", e insieme non perde mai di vista la documentazione: fornisce dati precisi sulla provenienza dei vari "flussi", sulle diverse tecniche con cui venivano condotti i processi nelle varie epo- che (fine anni venti, inizio anni trenta), descrive la complessa struttura dell'articolo 58 in base al quale veniva condannata una buona metà degli arrestati (propaganda antisovietica, attività controrivoluzionaria, sabotaggio ecc.), illustra con precisione le torture più comuni e le più spietate (in piedi per giorni e notti senza dormire, luce elettrica negli occhi per ore e ore, gli interrogatori a metà notte). Passa poi a illustrare le fasi successive alla condanna, il viaggio verso la destinazione, le zone storicamente più note (le isole Solovki, l'estremo Oriente, Kolyma, Kazakistan: ognuna con le sue caratteristiche disumane, le temperature polari, le baracche, le celle di punizioni), i vari sistemi di lavoro coatto (miniere, taglio dei boschi: un capitolo è dedicato alla costruzione, con manodopera esclusivamente carceraria, del canale Mar Bianco - Baltico, impresa esaltata da scrittori come Gor'kij e Kataev), e la sua sempre più ampia rilevanza economica, essendo lavoro non retribuito, dunque un'autentica forma di schiavitù. Due domande affiorano a metà dell' Arcipelago e sconvolgono: possibile che nessuno abbia protestato, fatto resistenza, possibile che quaranta milioni di persone per lo più innocenti si siano incamminate in silenzio per le strade quasi sempre senza ritorno dell'Arcipelago? E poi: che cosa faceva la gente, fuori, che cosa pensava, come si comportava, come reagiva quando padri, madri, mogli, mariti, figli, parenti, amici, conoscenti, vicini di casa, collaboratori, superiori o dipendenti sparivano di giorno e di notte senza dare più notizie per mesi, per anni? Alla prima domanda Solzenicyn dà due risposte apparentemente contraddittorie: sì, è vero, nessuna ha urlato quando veniva arrestato per strada o in casa, nessuno ha fatto scandalo, nessuno ha opposto resistenza, anzi per lo più la gente teneva sempre pronta una valigetta con l'indispensabile per il "viaggio". Le reazioni non sarebbero servite a gran che, commenta l'autore, avrebbero al massimo spinto a un po' più di cautela nei sistemi di arresto i gendarmi del Kgb: ma ci sarebbe stato almeno qualche segno, ci sarebbe stata meno rassegnazione, e forse meno omertà, meno consenso. Nei lager invece ci furono rivolte, e anche massicce: Solzenicyn ne racconta alcune, di cui nulla si sapeva prima della sua testimonianza, soprattutto quelle del cantiere 501, di Retijurin, Ekibastuz (a cui partecipò anche l'autore), Kengir. Finite tutte naturalmente con massacri, esecuzioni in massa. Dunque la reazione degli zek ci fu, ma fu inutile. Più inquietante e insieme illuminante la risposta alla seconda domanda. L'Arcipelago Gulag non avrebbe potuto esistere se non fosse stata compiuta un'operazione capillare, astuta, perversa di manipolazione dell'opinione pubblica. Questo fu il vero trionfo dell'apparato poliziesco staliniano. I concetti di "pericolo sociale", di "difesa della linea di partito", di "minaccia di sabotaggio", di "atteggiamento controrivoluzionario", di "nemico del popolo" vennero quotidianamente veicolati da radio, giornali, pubblici dibattiti, romanzi, film: la gente (si tratta naturalmente di quei vasti strati la cui conoscenza politica era facilmente influenzabile, non quindi degli strati più avveduti che colsero la dimensione strumentale dell'operazione e cercarono di reagire, subendone le più dure rappresaglie) si convinse in breve tempo che il paese pullulasse di agenti mascherati dell'imperialismo occidentale. L'unica salvezza, l'unico compito, a cui ognuno era chiamato, consisteva dunque nel vigilare, nel collaborare alla lotta, nel partecipare al grande sforzo di difesa: e così la delazione divenne encomiabile pratica quotidiana, e il proliferare di arresti ingenerò nella massa più sprovveduta una sensazione di sollievo, protezione, sicurezza. Nei lager, assicurava la propaganda, i nemici del popolo si sarebbero trasformati in lavoratori consapevoli e sarebbero tornati al loro impegno di veri comunisti. Per qualsiasi errore nei piani, nelle programmazioni, per qualsiasi disguido, mancanza, ostacolo c'era pronto il sabotatore, il nemico del popolo, il controrivoluzionario, e con lui tutta una serie di congiurati, che venivano prontamente arrestati e sostituiti. Questo sistema creò, in effetti, una grande mobilità sociale: le carriere divennero in taluni casi velocissime e brillanti, salvo poi incappare nello stesso meccanismo e chiudersi altrettanto velocemente. Nel capitolo II tartassato mondo libero, Solzenicyn elenca una serie di caratteristiche che si diffusero nella società sovietica a partire dalla fine degli anni venti: diffidenza, insicurezza, menzogna, reticenza, indifferenza. "La forma più blanda ma in compenso più diffusa di tradimento è non fare direttamente nulla di male, ma di non accorgersi di chi muore al tuo fianco, non aiutarlo, voltargli le spalle". E in più, grazie alla incessante pressione esercitata sull'opinione pubblica, fu estremamente facile reclutare collaboratori "civili" all'intera operazione. "Farò una stima approssimativa, superficiale: a uno ogni quattro o cinque abitanti delle città fu sicuramente proposto, almeno una volta, di diventare uno spione. Forse la proporzione è anche maggiore. Oltre allo scopo di indebolire i legami tra le persone (...) ce n'era anche un altro: chi si era lasciato reclutare, temendo di venire pubblicamente smascherato, sarebbe stato personalmente interessato all'in-crollabilità del regime". E questo il più grave, il più disastroso danno subito dalla società sovietica, soprattutto per le sue durature conseguenze: chiunque abbia frequentato l'Unione Sovietica in anni recenti (parlo degli anni settanta, ottanta) non può non essersi reso conto di quanto agisse ancora la mentalità "staliniana" di diffidenza, di istintivo sospetto, di rifiuto per tutto ciò che non è "allineato". Non a caso la Spinelli cita una delle frasi più inquietanti del capitolo Perché avete tollerato?: "Fino a quando in questo paese non esisterà un'opinione pubblica indipendente, non avremo alcuna garanzia che lo sterminio immotivato di molti milioni di uomini non si ripeterà di nuovo, che non ricomincerà una notte, una notte qualsiasi, magari questa stessa notte, quella che seguirà questa giornata". A che serve, a chi serve questo libro oggi in Italia? La Spinelli risponde "non alle vecchie generazioni, affinché ricordino, regolino conti, e tornino ad azzuffarsi sul passato: è innanzitutto per coloro che apprendono oggi l'arte dell'a-nimale politico, del dire il giusto e l'ingiusto". È vero solo in parte: anche i vecchi ne hanno bisogno. L'Arcipelago serve alla memoria. Serve a chi non sa, serve a chi sa e non ha riflettuto alle radici profonde del fenomeno, o lo ha liquidato con troppa sicurezza e comodi schemi. Queste duemilacinquecento pagine riaprono il problema. E l'urgenza di riaprirlo è tanto maggiore in quanto i germi del suo riprodursi non sono affatto scomparsi. I recenti fatti nell'area balcanica ce lo ricordano ogni giorno. B Il bolscevismo come satanocrazia Nikolaj Berdjaev NUOVO MEDIOEVO Riflessioni sul destino della Russia e dell'Europa ed. orig. 1923, a cura di Massimo Boffa, pp. 192, Lit 30.000, Fazi, Roma 2000 Nuovo medioevo di Berdjaev si pone al centro di una peculiare concezione anagogica e apocalittica della filosofia della storia ed è - insieme a La filosofia dell'ineguaglianza e Le fonti e il significato del comunismo russo - un'opera fondamentale per comprendere il pensiero politico e religioso del filosofo russo. Nuovo medioevo (ora tradotto per la prima volta in italiano e pubblicato a Berlino nel 1923) si presenta, infatti, come una riflessione sul destino apocalittico della Russia e dell'Europa: la prima guerra mondiale aveva impresso a tale destino un ritmo catastrofico, facendo entrare la storia in una "fase di dissoluzione", quale annuncio di un'"era ignota". Autentica apocalisse "interiore" nel "quadro dei tempi storici", la prima guerra mondiale significava l'esaurimento del pathos della secolarizzazione e il crollo dell'umanesimo. La catastrofe bellica aveva favorito l'avvento del "nuovo medioevo", annunciato dalla comparsa di due fenomeni politici antidemocratici e antiumanistici che rappresentavano una cesura rivoluzionaria con l'epoca moderna: il fascismo e il bolscevismo. Delineando i tratti di una sorta di historia in nuce del "nuovo medioevo", Berdjaev considera il fascismo e il bolscevismo come il rovesciamento dell'ordine sociale e politico moderno, fondato sul principio di legittimità: il nuovo ordine non si reggeva più su basi giuridiche ma "socio-biologiche" e sul "prin- cipio della forza". Il fascismo italiano era la sola "invenzione politica" postbellica che si identificava con la "filosofia della vita" ed era una "manifestazione spontanea della volontà di vivere, della volontà di dirigere". Mussolini ("unico innovatore tra gli uomini di Stato europei") aveva inaugurato l'epoca del ' "cesarismo": tuttavia il fascismo era un "nuovo medioevo" imperfetto, come il bolscevismo. Per Berdjaev, la Rivoluzione d'ottobre aveva avuto un carattere "nazionale", perché era l'incarnazione "snaturata e rovesciata" dell'idea russa. La Russia (che era rimasta estranea all'umanesimo moderno) con la Rivoluzione aveva fatto un "salto" senza transizione dal vecchio medioevo (la vecchia teocrazia) al nuovo medioevo (la "satanocrazia"). Portato alle sue estreme conseguenze, il comunismo si sarebbe autodistrutto e si sarebbe compiuta la trasfigurazione religiosa della Russia, quale avvento di un regno millenario neocristiano: alla gerarchia satanocratica dei bolscevichi si sarebbe sostituita una comunità spirituale organica (sobornost') e una "gerarchia della qualità", quali colonne di un cosmo cristianizzato. Il "nuovo medievismo" di Berdjaev è stato fatto proprio dalla nuova destra russa sia all'epoca del dissenso antisovietico, sia nella Russia postcomunista. Sebbene le profezie di Berdjaev godano di una rinnovata fortuna, la "satanocrazia" comunista non si è rovesciata nel suo contrario, come, con il suo illusionismo spiritualista, aveva vaticinato il filosofo russo. La Russia postcomunista non sembra avviarsi né verso una transizione apocalittica, né, tanto meno, verso un'improbabile trasfigurazione religiosa. (RV.) "Il proliferare di arresti ingenerò nella massa una sensazione di sollievo, protezione, sicurezza"