Saggistica Storia del canone da Cicerone a Mike Bongiorno Cosa bisogna leggere IL GIUDIZIO DI VALORE E IL CANONE LETTERARIO a cura di Loretta Innocenti pp. 168 Lit 25.000, Bulzoni, Roma 2000 L canone letterario rivela n'incoercibile e per certi versi paradossale vitalità. Archiviato come reliquia di un sistema letterario ormai definitivamente in frantumi, liquidato o rimpianto come simbolo di una "età felice" in cui ancora era possibile identificare gerarchie, campi e valori specifici, demistificato come costruzione ideologica che riflette e al tempo stesso rinsalda l'egemonia culturale dei gruppi dominanti, difeso come ultimo baluardo di un umanesimo minacciato dal mondo globale, dalle tecnologie, dai media, sembra comunque ancora in grado di catalizzare le energie critiche, di essere luogo di scontro e di conflitto. Se ha certamente perso la sua "innocenza" - è oggi infatti di Donata Meneghelli difficile sostenere, anche nell'ambito della sola tradizione occidentale, che esista un insieme finito di testi esemplari, rappresentativi, la cui lettura vada considerata imprescindibile -, il canone mantiene una sua ambigua centralità. Fragile, poroso, dai confini mobili e dall'estensione variabile, non più struttura autorevole o autoritaria, e tuttavia ancora dentro il nostro orizzonte, anche solo come uno spazio rimasto vacante che non smette di suscitare interrogativi: che lo si rimpianga o che se ne celebri euforicamente la dissoluzione. Da considerazioni analoghe sembra partire il libro curato da Loretta Innocenti, che raccoglie - nell'ordine in cui sono stati presentati al convegno da cui il volume trae origine - una serie di interventi sul rapporto tra canone letterario e giudizio di valore. Volutamente non sistematico, l'insieme degli interventi suggerisce però un disegno, fa emergere in controluce una sorta di tracciato storico: certo, un tracciato che procede per omissioni, per grandi salti cronologici, ma che forse vale la pena recuperare, esplicitare, anche correndo il rischio di una ricostruzione necessariamente semplificata. Proviamo allora a prendere come punto di partenza il saggio dedicato alla formazione del canone classicista nel Cinquecento e al conflitto tra funzione prescrittiva dei modelli e originalità individuale. Attraverso un percorso convincente e suggestivo, Lina Bolzoni finisce per rovesciare i ruoli convenzionali di tale conflitto (classicisti come pedissequi imitatori contro i più "moderni" fautori dell'originalità), mettendo in rilievo come il canone classicista sia un modo di assumere, in piena consapevolezza, in termini persino drammatici, una condizione di posterità, e alla luce di quella consapevolezza negoziare i propri ineludibili rapporti con la tradizione. Principio vitale, dunque, dinamico, che consente di fare fino in fondo i conti con la storia, con la propria storia. Questo carattere dinamico, questo rapporto dialettico tra la formazione del canone e il presente di chi lo propone, lo istituisce, lo modifica, emerge anche nella complessa vicenda - ricostruita da Maria Corti - della scoperta critica e poi delle successive interpretazioni di William Blake: l'inserimento nel canone romantico a partire dalla seconda metà dell'Ottocento è solo l'inizio di un processo in cui ogni volta, attraverso Blake, viene diversamente riletto tutto il Romanticismo. Nei secoli che separano la discussione tra ciceroniani e anticiceroniani dalla scoperta critica di Blake accadono parecchie cose: un insieme di fenomeni che modifica completamente il campo letterario. Ce intanto quella rottura fondamentale con il passato che Alberto Castoldi identifica nel passaggio da una società aristocratica a una borghese. Entriamo, insomma, nella modernità, con tutto quello che sappiamo: lo sviluppo di una vera e propria industria editoriale, l'avvento della letteratura come merce, il conflitto che si apre tra intellettuali e borghesia, la messa in discussione del ruolo e dell'identità dell'intellettuale. "In una società come quella aristocratica - scrive Castoldi -, in cui il potere stimolava la produzione, svolgendo al tempo stesso un ruolo coercitivo e di promozione, i canoni avevano svolto la funzione delegata di datori di senso, e quindi di ordine, in quanto legati a personalità o istituzioni eminenti (...), in grado cioè di elaborare un modello ma soprattutto interessate a imporlo". Nel corso dell'Ottocento, quest'ordine si sgretola: "non c'è più un'autorità in grado di farsi da-trice di senso, né gli intellettuali riescono a svolgere una reale funzione di supplenza, in mancanza di un mandato sociale". A scegliere, a formulare giudizi, a decidere cosa bisogna leggere non sono più gruppi ristretti e selezionati che propongono o impongono un modello: a decidere sono i lettori, il canone lo fa il mercato. È questo il presupposto da cui parte Franco Moretti nel suo progetto di analisi darwiniana dei meccanismi di sopravvivenza letteraria (condotta, non a caso, sul genere emblematico della modernità: il romanzo): "lavorare sulla serie" per capire cosa "uccide" il 99 per cento dei romanzi pubblicati in Inghilterra durante l'Ottocento, un'ecatombe da cui si sono salvati solo qualche centinaio di titoli, che formano il canone - già estremamente dilatato -del romanzo inglese. E una fase che prelude già alla letteratura di massa, e il ruolo della mediazione editoriale nella pratica di lettura è destinato ad assumere importanza crescente. Le scelte dell'editoria decretano l'esistenza o l'inesisten za di un'opera, garantendone quanto meno la prima lettura. E quelle scelte - come sottolinea Ernesto Franco - sono sempre attraversate da una tensione, da una contraddizione: se la letteratura è una merce che si vende e si acquista, "il giudizio di valore che si emette dall'interno di una casa editrice è sempre anche un giudizio sul plusvalore che l'opera sarà in grado di produrre". Ma torniamo al tracciato storico di cui parlavo. Tra gli anni in cui scrivono Jane Austen e le sue rivali più sfortunate (uno dei casi esaminati da Moretti) e il 6 marzo 1997, data in cui su Panorama appare una recensione di Mike Bongiorno all'opera di Aldo Busi (episodio preso a simbolo da Franco Marenco), c'è ancora una volta un intervallo considerevole: un intervallo che ci conduce fino alla cosiddetta post-modernità e alla "crisi del valore-letteratura". La crisi, come Marenco indica lucidamente, investe tanto l'oggetto, la letteratura, la sua irriducibilità, violata o irrisa dalla società me-diatica, quanto lo sguardo che lo indaga: la critica e le discipline letterarie, travolte dall'urto dei cultural studies, dall'"assorbi-mento del testo letterario nel testo culturale". Di fronte a questa duplice crisi, possiamo (ri)costruire un canone altamente selettivo e idiosincrati-co — come fa Harold Bloom - e ribadire la natura non ideologica, trasparente, universale del giudizio di valore che lo fonda. Oppure, come suggerisce Lucien Dàl-lenbach, possiamo collocarci dentro i confini del testo e lì rintracciare i criteri per definire e valutare la letteratura, nella sicurezza che ogni opera contiene e trasmette la propria assiologia. Ma basterà? m pel4066@iperbole.bologna.it ^^ BULZONI EDITORE MARIA TEODOLINDA SATURNO VOCI DAL PICCOLO TEATRO DI ROMA Orazio Costa dalla pedagogia alla pratica teatrale ISBN 88-8319-572-8 313pog. L 45.000-€ 23,25 Voci dal Piccolo Teatro di Roma è il racconta dell'avventura dello stabile (ondato e diretto da Orazio Costa negli anni Gnquanta a Roma. In sei anni di attività (1948-54), fra difficoltò di ogni genere, che porteranno infine il Piccolo romano alla chiusura, lasciando agli stabili di Milano e Genova un ruolo sempre maggiore nel panorama teatrale italiano, Orazio Costa firma trenta regie, alcune delle quali rimaste storiche. Basti ricordare lo regio dei Sei personaggi, lo spettacolo di apertura, Ira i cui interpreti compaiono Tino Buazzelli, Rossella Falle, Marina Bonfigli, Flora Cerebello, Antonio Crasi, Franco Giacobini, Nino Manfredi, Elio PandoKi, Paolo Panelli, Gianrico Tedeschi, Bice Valori; attori provenienti, quasi tutti, dall'Accademia d'arte drammatica e, quasi tutti, allievi di Costa, formati quindi ol metodo mimico, che esordiscono in quell'occasione e vanno a costituire una compagine unica nel panorama teatrale italiano. Parte rilevante di questo studio occupa lo ricostruzione degli spettacoli e la loro analisi in una chiave che recupera la sapienza scenica del maestro, troppo spesso messa in ombra dal rigore etico, dalle riflessioni teoriche, dalla precisione dell'indirizzo poetico. Lo svolgersi dell'attività artistica, il suo intrecciarsi con le vicende personali, amministrative, finanziarie, politiche - che tanta responsabilità, come emerge con evidenza, ebbero nella chiusura del Piccolo - si snoda in un vasto racconto a più voci in cui, attraverso il continuo ricorso alla tecnica del discorso diretto, le testimonianze dei protagonisti (Orazio Costa, ma anche Mario Ferrerò, Marina Bonfigli, Franz De Biase, Rossella Falle, Nino Manfredi, Elio Pandolfi, Anna Pro demer), interloquiscono con le fonti inedite reperite nell'archivio Costa (lettere, note di regia, relazioni, ecc.) e con un corpus critico costituito da oltre cinquecento recensioni agli spettacoli. Il taglio dato dall'autrice è quello di chi, avendo avuto il privilegio di essere stato allieva, interprete e assistente durante l'ultimo decennio di attività del maestro, ho potuto integrare la ricerca storica con la conoscenza diretta del metodo mimico e dell'operare teatrale di Orazio Costa Giovangigli. BULZONI EDITORE $0 dei librai, Ì4 -00185 Ramo lei. 06/445S2D7 - fax. 06/44S03S5 tep://«W/.yzMÌ It «ticii: Wis!i#ifis3;wig Il vestire è body art di Elide La Rosa Paola Colaiacomo, Vittoria Caterina Caratozzolo CARTAMODELLO pp. 135, Lit 45.000, Luca Sossella, Roma 2000 Lontano da ogni frivolezza, e tuttavia alieno dalla solennità di un trattato di sociologia, questo "Cartamodello" è un testo sofisticato, che elegge l'abito a oggetto in cui si condensano riflessioni estetiche, visioni del mondo, immaginazioni del corpo, regole del mercato. Il volume raccoglie scritture sulla moda di romanzieri, poeti e saggisti, intrecciate ai pensieri di chi la moda la produce e alle considerazioni delle autrici, Paola Colaiacomo e Vittoria Caterina Caratozzolo, docente la prima di lingua e letteratura inglese, studiosa della moda e traduttrice la seconda. I titoli delle sezioni in cui si organizza il libro - "Taglio", "Materiali", "Telette", "Confezioni", "Scarti" - illuminano il progetto di una immersione nella materialità e nell'artigianato della couture, ma in realtà dell'abito celebrano l'artificio, lo scarto dalla natura, la trasfigurazione del corpo. Le studiose non intendono compilare una storia del vestire attraverso le trasformazioni delle fogge, anzi la loro attenzione è orientata sulla moda contemporanea, e il vestito è analizzato in quanto rivelatore del senso che il corpo assume nel tempo. Si parla anche di abbigliamento del passato (il drappeggio delle statue greche, Wat-teau e l'arcadia, il vestito Impero che resuscita il gusto attico e l'immortalità del peplo, la pletori-cità ornamentativa del Napoleone III), ma come di un archivio offerto alla memoria e al gusto ci-tazionista degli stilisti d'oggi (Vivienne We-stwood che studia per mesi al Victoria & Albert Museum la struttura del costume del pirata settecentesco e vuole riprodurre l'effetto rinascimentale del taglio che apre un velluto sulla seta sottostante; Versace che crea una maglia metal- lica di avanzatissima concezione tecnologica ispirandosi alle cotte dei guerrieri medievali; Miyake che trasporta nelle sue astratte gabbie-corsetto le antiche armature dei samurai). Le connessioni tra arte, linguaggio e couture sono esplorate attraverso testi di Leopardi, Benjamin, Baudelaire, Mallarmé, Barthes, Bal-zac, Wilde, Hogarth, Loos, Délaunay, Carlyle, Swift, interpellati in quanto "scrittori di moda": e moltissimi sono i temi che vengono alla luce. Le dichiarazioni degli stilisti spiegano le intenzioni che muovono la loro creatività e le modalità del loro lavoro. Rei Kawakubo (Comme de Gargons): "Quello che faccio non è influenzato da ciò che accade nel mondo della moda o della cultura. Parto da oscure immagini astratte, per creare un nuovo concetto di bellezza". Issey Miyake: "Non parto da schizzi quando lavoro. Creo avvolgendomi tutt'attorno un pezzo di stoffa. Si tratta di un procedimento manuale". Yohji Yamamoto: "Il mio sogno è disegnare il tempo". Vivienne Westwood: "I miei vestiti ti obbligano a un diverso portamento. Tanto per cominciare non ti permettono di assumere la posizione consueta. Non ti consentono l'anonimato". L'inclinazione più innovativa e interessante della moda contemporanea è comunque "far indossare l'interiorità". Arioso e sfolgorante, questo libro introduce ai misteri del tailoring (taglio) e del dressmaking (cucito) quasi come a una sezione della body art, facendoci osservare come il lavoro planare con le forbici e quello scultoreo con la massa del tessuto dei designer di abiti giunga alla stessa riconfigurazione del corpo che la body art si prefigge. Le immagini che lo decorano sembrano appartenere a quell'ornamentazione concettuale - distante, spirituale, di angelicato nitore - che nulla concede a una facile bellezza; anch'esse sono state sapientemente sforbiciate, cucite e intonate su grigi astratti e ghiacciati che si accendono di scarlatto in rare fioriture di calcolata dissonanza.