N. 5 Idei libri del mese| 31 L Poesia in dialetto Piero Manni, salento, Salento, pp. Lit 18.000, Manni, Lecce 2000 73. Un libro indefinibile e che sfugge a qualsiasi categoria questo dell'editore Piero Manni. Una sorta di lunga canzone dedicata al Salento inteso come terra d'origine archetipa di storie di migranti, di agricoltori, di pescatori, di mafiosi, di turisti. Ognuno con la sua propria lingua, per lo più il dialetto locale, ma anche il latino macaronico o gli inserti di slang contemporaneo. Alla narrazione cantata si alternano vere e proprie poesie costruite sulla base di antiche filastrocche, di proverbi, di canzoni della tradizione. In questo andamento, altamente evocativo, si riconosce l'anomalia di un libro che condensa i molteplici aspetti di una terra fortemente amata. Attraverso l'uso del dialetto, ben misurato, l'autore racconta presente e passato: un passato caratterizzato da un'economia agricola su cui si innestano forme di capitalismo indisciplinato e arcaico. È la lingua, però, nonostante l'illeggibilità del mondo, a riportare il gusto delle cose per quello che sono: "il rosmarino e l'olezzo acuto di mentastra e l'azzurrovaricoso dei cardi di sangiovanni e l'olivastro cespuglioso salmastro che ricordo laddove le ruspe hanno squassato". Camilla Valletti Poesia in dialetto Letterature Gialli Medioevo Storia Società Comunicazione Dante Maffìa, papaciòmme, pp. 92, Lit 22.000, Marsilio, Venezia 2000 I lettori di poesia rappresentano una nicchia elitaria, colta e raffinata. Vieppiù un'élite è quella che si avvicina alla poesia dialettale, e tuttavia non pochi sono gli autori ricchi di una vena poetica di prima grandezza che hanno dato alle stampe poesie dialettali: ricordiamo ad esempio la raccolta einaudiana (nella "Collezione di Poesia") di Franca Grisoni (L'Oter). In questa direzione si muove il volume di Maffìa, che ha già pubblicato tre volumi di poesie dialettali e un volume di poesia in lingua. Le liriche sono in dialetto calabrese, o meglio - come specifica la nota linguistica iniziale - "nel dialetto della 'zona Lausberg', parte integrante di un nucleo conservatore che si può denominare (...) 'sardo-calabro-lucano'" Tali liriche offrono un'assonante musicalità, sono ricolme di un'ironia che dissolve da subito il rischio e il pregiudizio che il comporre in dialetto comporti una stereotipata scrittura da sussidiario e immagini da cartolina. La traduzione italiana a piè di pagina permette di cogliere la musica del verso senza smarrirsi in dubbi semantici. Papaciòmme, ad esempio, che dà il titolo alla raccolta, significa "spaventapasseri", ed è anche il titolo della terza parte del volume. I versi di Maffìa sorprendono per la maturità espressiva e la modernità dello sguardo. Andrea Bosco Nino De Vita, L'arena ri Spagnola, pp. 124, s.i.p., Grafiche Campo, Alcamo (Tp) 2001 Da anni gli estimatori della limpida poesia in dialetto marsalese di Nino De Vita ricevono in dono semestrali plaquettes che poi compongono libri di mirabile omogeneità, stampati a spese del poeta. È già successo con l'esplorazione nel ricordo infantile dei testi confluiti in Cutusìu (1994) e con la diversione favolistica di Cùntura (Grafiche Campo, 1999; cfr. "L'Indice", 1999, n. 6). I testi più recenti, e L'arena ri Spagnola per ultimo, sono invece quelli che più s'avvicinano al romanzo memoriale in versi di struttura modellata su Bertolucci (né mancano significativi echi del primo romanzo di Consolo, La ferita dell'aprile, Einaudi, 1977). La primigenia vena lirica di De Vita s'incontra con un'osservazione, più ironica ma non distaccata, dell'agire degli uomini, che arricchisce di nuovi elementi il suo romanzo-poema "di formazione". La crescita di colui che in Cutusìu era ancora un bambino è co- stellata da riti di passaggio: come la scoperta della pietà, suggellata nel terzo poemetto dal gesto del ragazzo cacciatore che seppellisce l'allodola appena abbattuta. E il primo poemetto testimonia che a tale crescita contribuì anche il cinema, meno per i film visti che per il diverso spettacolo offerto dagli spettatori; e il secondo poemetto celebra quella "crescita sociale" che fu l'arrivo della luce elettrica nella contrada arcaica di Cutusìo. Ma è giusto che della poesia di De Vita continuino a godere solo i pochi felici destinatari amici? Una pubblicazione presso un grande editore servirebbe anche a ricordare che il dialetto è una cosa molto seria, quando appartiene a una voce limpida come quella di De Vita e non è ridotto a macchiettistica espressione di colore locale o, peggio, a rivendicazione di piccole patrie separate. Non perché ci si illuda che il dialetto possa sopravvivere, ma perché se ne comprenda appieno la forza espressiva e conoscitiva. Giuseppe Traina Lino Angiuli, Daddò daddà, pp. 76, Lit 22.000, Marsilio, Venezia 2000 Il metodo di Angiuli è lampante: combinare dati dell'esperienza disparati - descrizioni per frammenti, sensazioni del momento incrociate a pensieri dell'altrove o di tutt'altro, trame di suoni e rime, giochi di parole, scarti linguistici, colloquialismi; sull'onda di sue fila interiori indecifrabili (e ininfluenti) per il lettore; e tutto quasi a scherzo, se non fosse per la sottile ironia che sempre trapela da questa eccessiva evidenza. Nella sua precedente raccolta, mescolava ortaggi e liturgia: "Dista poco in linea d'aria / il bianco baccano del mandorlo in fio- re / l'agnello / che toglie i peccati dell'orto / con la morìa dei suoi desideri / l'ingenuo fratello del dolore / che soffre e s'offre / per pagare la caparra sul futuro / dei piselli e delle fave. / Ave" (Catechismo, Manni, 1998). Similmente compone a caleidoscopio, in queste poesie nel suo dialetto di Monopoli in provincia di Bari: "stu deluvie de robbe e cose / m'abbotte me sbatte m'abbatte / me fasce meni u sbutte du sciette" ['"sto diluvio di roba e cose / mi gonfia mi sbatte mi abbatte / mi fa venire l'urto del vomito"]; "nu recuerde arre-pezzate / canzone addechiecuàte jind'o che-mone" ["un ricordo rappezzato / canzone ripiegata nel comò"]. In effetti, commistioni, analogie, spezzature sono modi di osservare il reale e metodi compositivi che a fine Novecento non ci sorprendono, né ci bastano per attestare la presenza di poesia convincente, pur nella varietà con cui arriviamo a intenderla e volerla. Ma Angiuli dimostra tale senso della proporzione nelle sue strategie linguistiche e retoriche, nello scegliere le sensazioni e i frammenti da comporre in questf suoi puzzle percettivi, che la ricezione è liscia e non problematica, e lo stato mentale provocato nel lettore è improntato a freschezza di impressioni e novità di rappresentazione. Energia metaforica che ha radici nell'antropologia popolare, è stato detto (Crovi). Forse ciò è più sensibile nel dialetto. Ma non v'è soluzione di continuità nelle due lingue che Angiuli usa. A conferma di quanto maggiormente apprezzato nella più qualificata produzione in dialetto negli ultimi decenni. Cosma Siani Flavio Santi, Rimis te sachete, pp. 98, Lit 22.000, Marsilio, Venezia 2001 Una crudele autoanalisi che incide le aride ferite dell'animo ("L'anim plen di cjartes di gjornài / 'I fiat crevàt [L'animo pieno di carte di giornale / il fiato spezzato]"), la coscienza di un'introversione che implode ("Poben noatri a sarin parfets / antagonist dal nuie [Noi saremo perfetti / antagonisti del niente]"), i ricordi di una giovinezza scandita da figure sbalzate nel legno della memoria (il lavoro del padre, le partite a pallone, gli esami di maturità, Guerre stellari, ragazzini morti): questo, e altro, si trova nella bella silloge in friulano di Flavio Santi, il ventottenne traduttore di Nonno di Panopoli, già apprezzato romanziere con Diario di bordo della rosa (Pequod, 1999). Un dialetto composito, una varietà del friulano centrale, avverte l'autore in un'attenta nota linguistica: una lingua un po' più aspra di quella di Pasolini, nume tutelare che affiora spesso nei versi di Santi. Rispetto al romanzo del '99, immaginoso e plurilingue, lo stile delle poesie si fa più sliricato ma altrettanto pieno di cose, di umori, di personaggi; e azzarda con disinvoltura la mescola di immagini naturali e inserti quasi saggistici, spesso relativi al proprio fare poesia, e poesia in dialetto: "Il cur - al dis Pascal - / al a de re-sòn/ ch'el ciurviel no capis: / bon col me furlan. / Cuand el sane al fas volt / là iò cjapi su taljan. / O podarai copà 'ne vìrgine, e dute le me fa-mee, / dificil in furlan: / lì o podaress macia dome me. / (E no ch'i disin ch'io soi / niuromentic e scrovarie dal genar). [Il cuore - come dice Pascal - ha delle raisons / che il cervello non capisce: / così con il friulano. / Quando il sangue fa ansa / là io prendo in italiano. / Così potrei ammazzare una vergine, e tutta la mia famiglia, / difficilmente in friulano: / lì al massimo potrei ammazzare me. / (E che non si dica che sono / newromantic o cretinate simili)]". (G.T.) Via Terra. An Anthology of Italian Dialect poetry, a cura di Achille Serrao, Luigi Bonaffini e Justin Vitiello, pp. 286, Legas, New York 1999 Achille Serrao, cantalèsia. poems in the NeA-politan Dialect (1990-1997), a cura di Luigi Bonaffini, introd. Pietro Gibellini, pp. 155, Legas, New York 1999 Altre volte sono stati presentati sull'"lndice" lavori dialettali pubblicati negli Stati Uniti, e chi è incuriosito da tale interesse transoceanico per questa nostra produzione deve sapere che è opera di un ideale gruppo di lavoro, formato da Achille Serrao in Italia, e in America da Luigi Bonaffini, italianista del Brooklyn College e traduttore di Campana e Luzi, e da Gaetano Cipolla, animatore delle edizioni Legas e docente alla St John's University, Ja-maica, New York. Qui abbiamo ora la versione inglese con originali a fronte di un'antologia ormai storica (presentata a suo tempo; cfr. "L'Indice", 1994, n. 1), grazie alla quale il lettore italiano, e ora quello d'oltreoceano, hanno una campionatura di voci rilevanti nella scena neodialettale italiana, con Franco Loi indubbia punta di spicco, e con preferenza quantitativa per il Friuli, che ci ricorda il ruolo dei suoi vernacoli nella rinascenza dialettale. Cantalèsia, invece, raccoglie per il pubblico sulle due sponde dell'oceano l'intera produzione in dialetto di Serrao, anche lui noto agli affezionati dell'"lndice" (La draga e le cose, Caramanica, 1997; cfr. 1998, n. 2), e rende conto dell'alta reputazione che si è guadagnata nel giro di pochi anni, come annota l'introduttore Gibellini, e che si spiega però con l'intenso esercizio precedente, in italiano, nel quale l'autore si era affermato. Ardua e meritoria l'opera dei molti traduttori (Bonaffini, Cipolla, Vitiello, Dino Fabris, Michael Palma, Joseph Perricone) al lavoro in ambedue le imprese. Le quali sembrano far da corollario ai lavori di un altro italianista americano, d'altro luogo e altra estrazione, impegnato anche sul versante linguistico -quell'Herman Haller (The Other Italy, University of Toronto Press, 1999; cfr. "L'Indice", 2000, n. 5) che negli Stati Uniti antologizzò i dialettali italiani fin dal 1986. (C.S.)